"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

22 ottobre 2012

L'umano, la maschera e le cose




Un testo che porta la data del 25 novembre 1999. Non mi ci riconosco più, se non nella preminenza che si da all'esistenza umana nel cosmo.
Titolo apposto in questa ultima versione.

La degenerazione di un concetto, di una vita o di che so altro, inizia, sostanzialmente, quando alla sua natura spirituale, metafisica si preferisce attribuire caratteri meno plastici, meno duttili, più rigidi, e questo perché davanti alla multiforme essenza di un qualcosa, di un ente, si materializza una tipica fobia umana che, dopo quella che genera in noi stessi il contatto con la nostra anima, e quella generata dal contatto intellettuale che abbiamo col nostro avvenire, è, certamente, una di quelle che rendono più movimentate le nostre notti, di noi esseri umani, cioè, ed una di quelle che ha reso incandescente il dibattito filosofico dalle origine sino ai giorni che viviamo: la paura che il mondo, questo mondo, fatto di enti, questo mondo fatto di cose e persone, soprattutto di persone, che si muovono, le une potenzialmente nel campo d’esistenza delle altre, possa liquefarsi sotto le mani stesse di chi crede di averlo in pugno, sotto gli occhi di vede – e vede realmente, di chi sente – e sente realmente.
Il dibattito filosofico s’è fatto incandescente perché tale, propriamente, è la natura del contendere: in realtà, che cosa ci giochiamo? Il nostro dominio sul mondo, ecco cosa c’è in palio, che in un  certo qual modo ci apparterrebbe comunque, anche se lo intendessimo come frutto del nostro conoscere. Ma sarebbe un dominio falso, come dire: mi appartieni perché non ti è concesso non appartenermi. La libertà che riconosciamo all’altro, e che comunemente chiamiamo altruismo, allora, gioca un ruolo fondamentale, ma che ci fa dimenticare quella, ugualmente giusta, che dobbiamo riconoscere a noi stessi, tanto quanto è necessario per evitare l’altro eccesso, altrettanto comune nella storia della filosofia: quello di credere il soggetto come imprigionato da una fitta rete di rapporti tra le cose.
Alla fine è prevalsa la via più comune, quella più facile: negare al soggetto la libertà, per riconoscerla all’oggetto, a causa dell’alterità che vige nella vita, la quale, se è all’origine di qualsiasi attività umana, perché genera in noi la meraviglia, è, pure, nei suoi aspetti degenerativi, ciò che conferisce giustificazione filosofica al giogo sotto il quale il mondo delle cose ci tiene, quanto di più passivo possa esistere, quella trovata “sensazionale”, tramite la quale il mondo si sottrae al nostro, di dominio, che, basterebbe ricordarlo, ci è stato consegnato nella mani direttamente da quelle di Dio.
Non tutte le strade, però, sono state battute, né s’è cercato veramente di risolvere il dilemma soggetto-oggetto. Se si fosse guardato alla vita, che poi, nel bene come nel male, è la più bella avventura che possa capitarci, probabilmente il suo faro che irradia luce sulla nostra esistenza, avrebbe rischiarato gli angoli più bui del problema, portando a galla dall’abisso delle tenebre quanto è di fondamentale per il suo sviluppo, e cioè che, pur non negando il valore dell’alterità, anzi, il soggetto rimane di vitale importanza, perché è proprio questi che, con la propria esistenza, conferisce significato alla proposizione. Infatti, che sarebbe mai una preposizione che manchi di soggetto, pur avendo gli atri complimenti diretti e indiretti? se non un’accozzaglia di dati, senza un qualcuno che li abbia posti in essere. Poi, si può discutere su Chi sia stato.
L’uomo è l’unico soggetto del mondo. I dati, che vengano dalle scienze esatte  come da quelle delle spirito (e sarebbe ora che questa distinzione scompaia dalle nostre discussioni), altro non sono che brutalità, un calderone di alterità incoerente e indefinibile, che viene, ogni giorno, plasmata dall’uomo. Questo non vuol dire che non siano altro dall’uomo, anzi lo sono tanto da poter essere, nella loro particolarità, conosciuti con un ampio margine di verosimiglianza. Vuol dire, solamente, che mancano di una totalità, di una loro armonia: non habeant sensum. Questo, unico protagonista dell’esistenza del soggetto e della sua attività, è ciò che propriamente disvela le cose, e il mondo intero. E’ questo senso che delinea la vera essenza dell’uomo, il quale, in quanto essere interpretante, cioè plasmante, è vero artefix mundi.
Artefice, certo, ma non già creatore, giacché egli non da l’esistenza alle singoli parti del tutto, né li pone in essere, ma carpisce al mistero il senso di quelle parti. Noi disveliamo, perché la potenza del nostro pensiero non si esaurisce, non perde la propria vigoria.
Purtroppo, non sempre le cose vanno bene. Si sa, si aggiunge sempre che è la vita – c’est la vie: le forze vengono meno, e ci si inabissa nel nulla, nel non senso, nell’oblio del pensiero. Questo non sapersi rapportare con l’essenza delle cose è, nella sua intima realtà, un accadimento, un rompere con il vissuto, un fulmine a ciel sereno, una catastrofe inaspettata. Né discorso, né  poesia, che non è propriamente teoresi, pur essendo questa anche un fare, un agire intellettuale, ma che è un produrre, e dunque un “creare” intimo all’uomo, possono nulla, perché sul Nulla dovrebbero ergersi, intorno Nulla. Questo accadimento, questo sfuggire del senso di una cosa, questo non interpretare è la cavità dentro la quale viene, allora, rinchiuso il pensiero: questi sente come un decadere della propria potenza, e s’accorge, ormai morente, di spegnersi non contro le tempeste dell’alterità, ché anzi, opponendosi, rinvigorirebbero il pensiero medesimo, ma contro un Nulla, contro le tenebre, contro la cecità dell’intelletto. Davanti all’accadimento, a questo confondersi del soggetto e dell’oggetto, davanti a questa osmosi mal riuscita, il soggetto si salva rendendosi maschera, soggetto della propria oggettivazione. Decade ogni forza, e ci si accontenta di poco. Si diviene maschera, senza una vera oggettività, perché la maschera è un oggetto debole, un soggetto debole, è un pensiero che non si invigorisce, è una forza che non smuove, è un canto che non è melodia.
Si diviene, si diceva, maschera, qualcosa che è pur sé impropriamente, qualcosa che può anche non essere, certo, ma che non può non dirsi che è: s’è scritto impropriamente, il che non è sinonimo di inautentico, anzi. La maschera è autenticità, essa è, è esistenza che è tale, ma non propria dell’uomo. Può essere, non si dubita di tale verità, esistenza transitoria dell’attore, che recita su un palcoscenico allestito in parrocchia o innanzi allo specchio, ma non può essere una esistenza propria dell’uomo, semmai una sua mistificazione.
E’ un rito pagano, un eterno ritorno di vita, come se sul letto d’un fiume vi scorressero le medesime acque da sempre, levigherebbero comunque i sassi del fondale, ma la vita vi morirebbe a causa della putredine. Un rito, però porta in sé qualcosa di primordiale: nell’annullamento dell’intima natura dell’esistente ( di annullamento è lecito parlare, non di morte, perché non muore, ma viene come messa da parte), si scopre l’ebbrezza del lasciarsi trasportare, del venire meno a se stessi: non pesi, non aspirazioni, né fastidi di vita. Niente.
[ Ben presto, però, insorge il sentimento per il reale,........]

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