"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

30 novembre 2006

POESIE DI PASTERNAK IL 9 FEBBRAIO

È ormai consuetudine, e da circa un anno, ch’io almeno due, tre volte la settimana passi dal negozietto del signor Daniele, lì dove la via Musumeci fa angolo con via Firenze. Consuetudine che l’acquisto di libri, anche di buona edizione e dal prezzo conveniente, e la vicinanza del luogo al Liceo Cutelli, dove da alcuni mesi svolgo il tirocinio per l’insegnamento, hanno mutato in abitudine, e di più: è ormai una vera coazione a ripetere.

Percorro in silenzio la via Umberto che pullula, a quell’ora del mattino, più di pensieri o di corpi intorpiditi, che non di folla – e perfino i venditori del mercatino non hanno niente di che urlare – e all’altezza dell’ultimo dei due chioschi di piazza Vittorio Emanuele, svolto a sinistra imboccando la via Musumeci. Alcune volte mi fermo a piazza Trento a bere un caffè nell’omonimo bar, o a far colazione, e nel vicino tabacchi a comprare le caramelle balsamiche per la gola.

Alle otto del mattino il più delle volte solo io ho l’ambascia di non perdermi qualche testo ancora mancante nella mia libreria: capita che il signor Daniele, per premiare quel viso sperduto ancora tra le coperte ma con una manciata di libri tra le mani, decida di praticarmi un forte sconto. Alla fine il libro si prende sempre la sua rivincita, e il povero signor Daniele, che di professione fa il commerciante e non il santo, cede di tanto in tanto all’insana passione dell’amante, più che del ruffiano, e ti agevola le cose.

Ho lasciato l’amaro compito di contare gli attimi della mia vita all’anagrafe, e mi sono riservato l’onore di decide chi o che cosa avrebbe dovuto scandire quelli della mia esistenza: libri e canzoni, di quelle popolari, di quelle che si ascoltano in macchina, durante i viaggi, o che senti provenire dalla radiolina del tuo vicino sul bus, o ancora quelle delle bancherelle in una fiera, in una festa – bene, quelle canzoni lì, e le poesie, e i personaggi – la loro sorte, i loro affanni, i loro sentimenti – di un romanzo. Ma anche il momento in cui li hai letti, il luogo, le persone che ti erano accanto: maggio del 2000, Camus – lo straniero. Salivo per via Di Sangiuliano all’alba, i cui primi raggi di luce rossastra vidi oltre i muri delle scuderie del Monastero dei Benedettini. E poi, in aula venti, venne Silvia, ne parlammo un po’, e poi Gaetano, la sua cravatta con i fumetti che ci mettevano di buon’umore – le filastrocche, gli sfottò allo studio – quando aspettavamo l’apertura d’un appello.

Non mi sono mai stupito che, comprando libri di seconda mano, antiche edizioni, resti – così li chiamano! – di vecchie librerie, qualcheduno dei testi portasse sul frontespizio una dedica, una firma, quattro numeri a mo’ di data. È il passato non d’un vita, ma d’una esistenza che non si può cancellare. Rimane confuso tra gli eventi che hanno coinvolto l’oggetto, celato sotto le lettere di quelle semplici parole, ma non riesce proprio ad abbandonarsi all’oblio. È l’ultima eroica resistenza di ciò che di più caro abbiamo avuto in vita a non volerne proprio sapere di morire. Rimane quale seme, feconderà altre esistenze.

Cinque euro possono non rappresentare gran che. Giuseppe C., una sera dopo la messa, mi disse che per quindici avrebbe potuto acquistare le opere del vescovo Bossuet, ma era proprio quella quindicina di euro che mancava: non poté farlo. Io stesso sono rimasto senza caffè per cinque centesimi. Non c’è valore più relativo di quello del denaro, sempre commisurato all’ampiezza delle tasche. Cinque euro, dunque, e avrei avuto un’antologia di poesie di Boris Pasternak, edita in Italia nel 1967 per i tipi dell’Einaudi. Ma avevo ancora da visionare gli altri scaffali, ed ero entrato da poco. Riposai quel libro senza sfogliarlo. Passai avanti, c’era ancora una fila intera di novità, messe ben in vista dal signor Daniele proprio quel mattino, quel sabato mattino 25 novembre. In fin dei conti, se volevo leggere qualcosa di Pasternak, avrei potuto iniziare dal Dottor Zivago, impolverato e un po’ sgualcito, ma presente da alcuni anni sullo scaffale di letteratura della mia biblioteca. E poi io avevo già un’altra antologia: con cinque euro, quel giorno, avrei comprato almeno altri due libri.

Pasternak ha uno strappo al dorso della sovraccoperta, la quale per giunta è ingiallita dal tempo. Cinque euro. Potrebbe mai credere Pasternak, se fosse ancora vivo, o quale intellettuale, di quelli che hanno intenso tutto della vita, se ne farebbe una ragione, che io per cinque euro non ho comprato le futuriste poesie del noto scrittore russo, bensì la dedica al frontespizio!

L’ho riletta, da quel giorno, almeno una ventina di volte. L’ho riletta davanti al signor Daniele, ad alta voce – e forse entrava qualcuno mentre rileggevo quelle poche righe; l’ho riletta in macchina, a quel semaforo dove la via D’Annunzio fa angolo con via Etnea; l’ho riletta in camera, e Miriam che giocava, in salotto, con mia madre farfugliando qualcosa contro i cani, quelli brutti che si vedono sui libri, e sui Romani, che hanno messo in croce Cristo. Ne ho parlato in macchina, la sera dopo, e ho visto che impressione fa la vita che è andata, gli amori degli occhi altrui su quelli nostri.

9-2-68. Pochi momenti mi sono e mi saranno cari, come questo momento; che ha un nome, il tuo: Kati.

Mimmo”.

È febbraio. A Catania. Forse. In febbraio fa davvero freddo. Le piccole gocce che cadono si gelano sui lastroni delle strade, lì dove la nostra terra non è soffocata dall’asfalto, ma ricoperta dalle proprie viscere colate giù dal Mongibello.

Mimmo avrà comprato quel libro nella storica libreria Muglia, ormai chiusa da anni. Scrive quelle poche righe sul bancone, facendosi prestare la penna dal commesso. O forse è ritornato in facoltà, dove la gioventù progetta un mondo migliore che, come tutti i mondi migliore, non esisterà mai, e lì ha scritto, in qualche scanno di Palazzo Centrale, la dedica alla sua Kati.

È febbraio. Ha voglia di piangere. E fuori – lo vede dagli ampi finestroni dell’aula – piove. Non è una nostalgia che gli si è radicata nel cuore. Nessun dolore, se non questa impossibilità dell’uomo di fermare il tempo, che quando veste i suoi panni migliore, pare addirittura essere volutamente celere.

Il momento con Kati – questa gioia che ha perso la sua carne, la sua storia, ed è divenuta quasi uno stato dell’anima che non riesce a tramutarsi in eternità se non prendendo in prestito l’eternità d’un verso altrui, divenuto Nobel appena dieci anni prima – questo momento gli è rimasto in gola. Può scrivere, povero Mimmo, solo qualche parola, imbrattare un frontespizio, e sperare che Pasternak, già bell’e sepolto, faccia il miracolo. Perché forse Kati non sa – Kati non può non sapere, eppure l’amore è questo continuo gioco di luci e ombre, questo scherzare col nulla, questo beffarsi della morte. Kati sa, eppure l’amore, se a volte finisce per una menzogna, inizia sempre con una bugia: una bugia che chi ama, e sa di essere amato, dice a se stesso per non apparire sfrontato davanti all’infelicità, alla tristezza, al nonsenso di cui ha svelato – di cui svelerà al mondo intero l’inconsistenza. Perché Kati sapeva – se non avesse saputo, Mimmo avrebbe osato di più, avrebbe scritto parole di fuoco per vincere i suoi occhi e penetrarle l’anima. Ma quale dolce amante è colui che già possiede, prima ancora delle labbra, lo spirito dell’amata! Mimmo conosce ormai ogni brano dell’anima di Kati: non ha da infiammare un fienile, ma di riscaldare l’aria come il sole a maggio.

Scrive Mimmo la sua dedica. Kati la leggerà, e dopo ascolterà la nenia che Pasternak si cantava davanti ai suoi attimi morti. Per Kati sarà invece una dolce ninna nanna, quando sotto le coperte, in quel febbraio freddo, si scalderà pensando che non altro fine aveva il poeta, che quello di espirare – egli solo, e per il loro amore, per quello di Mimmo e Kati – il male del mondo con la bellezza del verso.

Si sarà presentato davanti a lei, così vicino da potercisi rispecchiare in quegl’occhi tanto vivi da rendere ogni trucco una sciocchezza. Come si dipana davanti a voi, donne, l’ordito dei nostri sentimenti! Tanto sono vulnerabili gli scrigni dei nostri pensieri, che nemmeno stupidità o paura riescono a celare. O si è indifferenti o si è scoperti!

E Kati avrà scoperto, quel giorno di febbraio di quasi quarant’anni fa, che sotto il pudore di quelle parole si nascondeva il più ardito di tutti i pensieri, sempre nuovo, solamente unico, motore immobile di ogni puro agire! Che la mano incerta, appartata in facoltà a vergare quelle righe, era la medesima che le sfiorava una guancia. Che le lacrime di Pasternak, scappato in carrozza a piangere chi sa dove, seppur ricordo perenne d’un’umanità che legge, mai conobbero la sublime forza di quelle che non sfidano la morte e i suoi secoli, semplicemente perché l’hanno già vinta; che non abbisognano di inchiostro, perché la mano di Dio le ha scritte su anime incorruttibili; che non conoscono altra musica, che l’armonia perfetta di un attimo. L’attimo in cui la luce non tentenna più, ma si fa largo tra i resti delle tenebre e spazza via ogni sussulto di scoramento. L’attimo che vede il nulla dissolversi d’un tratto davanti ad uno scoppio universale di senso.

L’attimo che una lacrima impiega per dire quanto Pasternak non poté mai descrivere in miliaia di versi.

Oltre non possiamo andare. Non c’è riuscito Pasternak. Non ci riuscirà mai alcun poeta. Posso solo dire che, dopo quella dedica, e una breve introduzione di un ignaro voyeur, inizia la storia di una ormai sola anima. Ed inizia con i versi di Pasternak dal titolo febbraio….

Febbraio. Prender l'inchiostro e piangere!
Scrivere di febbraio a singhiozzi,
finchè il tempo piovoso scrosciante
brucia come una fosca primavera.

Prendere una carrozza. Per sei soldi
fra scampanio e stridere di ruote
recarsi là dove la pioggia torrenziale
strepita più che lacrime ed inchiostro.

Dove, come pere incenerite,
dagli alberi mille cornacchie
cadranno nelle pozze rovesciando
una secca mestizia sul fondo degli occhi.

Nereggiano di sotto gli spazi disgelati,
e il vento e solcato dai gridi,
e quanto più a caso, tanto più esattamente
si compongono i versi a singhiozzi.


1912 - Boris Pasternak

25 novembre 2006

PENSIERO I

Solitamente permettiamo che nella nostra vita la differenza sia fatta dalla gentaglia che incontriamo, solo perchè portati a dar per scontata la presenza della gente perbene.

13 novembre 2006

PAGINA DI METODOLOGIA CRITICA


Il fine della ricerca è la costruzione, la più solida possibile, di un sapere. Negare un fine alla ricerca, all'indagine, è come negare un senso alla vita, e buttarci nel dramma di Sisifo: condizione che non doveva essere poi così piacevole. Evitare di cristallizzare il sapere non deve spingerci a trascurane la solidità, per quanto umanamente possibile, né deve giustificare l'arrendevole dismissione della sfida, la fiacchezza d'animo davanti agli eventi del vivere che ci sfuggono. Bisogna evitare la sicumera di chi crede di aver già definitivamente appreso, non già l'apprensione in sé medesima, quando va bene, se non addirittura la tensione verso il padroneggiamene del vissuto storico. Il momento della crisi, il dubbio, l'incertezza, sono stati d'animo che preludono alla costruzione di certezze più solide, ben provate, non già uno stato perenne di spaesamento: il mondo sempre cangiante di forme e di valori dei poeti ci affascina proprio perché è l'evasione pronta, non il confino eterno. Anche sognare, alla fine, stanca, e una mano che non stringe nulla si atrofizza; un uomo che non si riposa mai avrà forse il cipiglio dell'eroe, ma la sorte in comune con qualsiasi altro essere umano: quella dello schiattare.

March Bloch, nel 1906, scriveva del passaggio necessario dalla cultura dell' evento storico a quella del fenomeno storico. Era in campo storiografico l'equivalente del criticismo kantiano in campo filosofico: fenomenologismo epistemologico, non già ontologico, che pone tuttavia al centro della storia non un'astratta cosità, bensì il suo vero protagonista. Le cose - il tutto, l'ente non fa storia: sic et sempliciter è, ma non è un essere che si vive. Perché non si racconta da sé medesimo. L'uomo racconta, e questo ente che racconta ha suoi sentimenti, suoi bisogni, sue aspettative su quanto dovrà ancora avvenire, e una certa idea di quanto è già avvenuto. È pigro: non si muoverebbe verso il passato, se non ne fosse attratto dal quel bisogno presente di attutire l'impatto con un futuro che già si prefigura.

La scelta di tornare alla storia come vissuto di uomini in carne ed ossa è una scelta incontrovertibile, e se questa pluridisciplinarietà d'approcci, mirante ad una descrizione il più totale possibile dell'uomo in un determinato tempo del suo vissuto, può di primo acchito disorientare, è meglio passare dallo stato evanescente del poetico per giungere, infine, alla critica ben fondata sui propri risultati e limiti, che non partire dalla chimica per giungere al cronologismo economista.

11 novembre 2006

IMPRESSIONI DI LUCE



Lenta tra i colonnati del chiostro

s’insinua la voce che è già giorno.

Attendevano nel cuore le sentinelle

Il canto che intona la sua nenia alla notte.

Mi chiedi perché, Aurora,

io calmo gusto l’aria del mattino

e taccio pensoso.


I colombi del monastero non sanno,

e quindi vanno felici raccontando

il nuovo prodigio della luce.


Però io serbo di te memoria, Aurora,

e dei tuoi occhi bugiardi.

Verrà la sera, vedrai!

E tu ed io – niente più di che stupirci,

straremo a fissarci stanchi, vinti,

mentre le ultime colline abbracciano

la speranza che fresca fiorirà ancora domani.

Catania,
Monastero dei Benedettini
l'alba del 9 novembre 2006.

7 novembre 2006

COSCIENZA DELL'ESISTENZA

Ognuno di noi ha un giorno. Chi se lo cerca. Chi lo sottrae agli altri. Chi, semplicemente, gli capita, e magari rimane un’intera vita a chiedersi che senso avesse nell’economia della propria esistenza – senza accorgersi, che se un senso aveva (eccome se ce lo aveva), andava cercato nei successivi miliaia che rimanevano da vivere.

A me è toccato in sorte come eredità della sorte altrui. Inutile raccontare come e quando: in molti non capiterebbero, e per altri sarebbero smancerie filosofeggianti, e per giunta intrise di quel pessimismo che dicono essermi ormai consono. In un’epoca di neppure più strisciante nichilismo, nella quale ad essere annichilita è stata per prima la ragione umana, e che l’unico sfogo dell’intimo permesso è quello che avviene davanti alle telecamere, pronte a far commuovere – come relax serale – gli stessi cuori che, fino ad allora, avranno palpitato al suon del ticchettio del timbrapresenze, per poi cadere in un altrettanto ridicolo ottimismo circa le sorti della storia, idioti pagliacci davanti ad un plotone che credono finto, come la quasi totalità delle vicende che li avranno coinvolti, stampigliati nella loro mente da un tubo catodico, e trascritti da mercanti di parole che scrivono con la libertà dei concetti la schiavitù delle azioni (altrui, pensano, ma essi sono solo le prime vittime dell’assurda ruota sulla quale vedono gli altri correre come scoiattoli, senza vedere se stessi come topi davanti alla morsa che sta per scattare)- in una società del genere, nella quale l’Ideologia, che sta all’Idea come le prostitute alle signore, ha perso solo il colore, ma non la propria funzionalità, perfino quel che un dì sarebbe stato un banale richiamo al reale, appare manieristico pessimismo. La realtà, per dirla in termini hegeliani, è la sintesi tra ottimismo e pessimismo. Solo che non è poi così perfetta: pende sempre, e sempre più verso il secondo, che non verso il primo. A volte si è pure ottimisti ad essere pessimisti. Essere realisti è una condanna, che ha per giunta l’aggravante di essere giusta e vera. Il peggio non è che la vita sia iniziata, ma che non vorremmo che finisse: tranne per malattie del profondo, nessun uomo vuole che finisca. Non ci siamo voluti, ma continueremmo eternamente a volerci, se solo potessimo. Non abbiamo potuto volerci, e non potremo volerci per l’eternità: verrà un giorno in cui non vorremo. Non perché stanchi di noi stessi, ma perché non saremo più a noi stessi. Punto. Storia finita. Volontà, intelletto, passione... tutto finito. Prima siamo, poi possiamo discutere su come essere e descrivere che siamo.

Non ci siamo voluti, si diceva. Ci hanno voluti gli altri, ed è già tanto che madre natura, magari impotente nel decidere quando, abbia potuto decidere del nostro corredo cromosomico, la nostra identità sessuale (di suo abbastanza ritoccata successivamente alla nascita), i nostri tratti fisici. Questo basterebbe ad una persona di non ampio spessore intellettuale per capire che i conti non tornano: non posso garantire circa le leggi del mercato, ma quelle della logica non sono tenere. E dicono che se uno non ha un capitale, non può essere un capitalista. Fosse anche in prestito, ma un capitale devi averlo. Ogni giorno, al tramonto, intaschiamo un salario per il quale non abbiamo mai sudato. Non si tratta di recarsi alla vigna alle nove del mattino, o alle cinque del pomeriggio. È come se ricevessimo, ogni dì nella buca da lettera, il compenso per un’opera mai compiuta da un datore di lavoro mai conosciuto. Fortunati! Altro che disgrazia vivere! Dovremmo, piuttosto che lagnarci, ringraziare il Cielo per la manna che fa piovere ogni giorno. E, invece, su una fortuna che non ci appartiene, ne costruiamo una nostra a scapito di quella altrui. Chi, nel vivere, si mostra più coscienzioso, finisce per apparire il debole da soverchiare. “Fessus”, in latino, significa “debole, stanco”. Se mai fosse necessario, potremmo far notare come, a volte, un po’ di pedante etimologia riesca ad essere più illuminante di miliaia di minimalistici discorsi. Facciamo pesare la nostra condizione sociale – nessuno si stupisce più di un congiuntivo sbagliato, e di uomini in giacca e cravatta e donne dal tailer griffato, che in vita loro neppure una volta hanno sentito parlare di Dostojevskij; le nostre auto, sempre nuove e per le quali ci addossiamo fardelli, che in natura la più umile bestia da soma non ebbe mai; le nuove roulette elettroniche, con cifre di un solo colore ma con tanti zeri, alcuni dei quali arrivano dal Giappone, altri dagli Stati Uniti, altri ancora da Hong Kong, ma le cui vicende sembrano richiamare più quella russa, di roulette, che non quella francese. Se non fosse per la funesta tentazione, sempre soddisfatta, di volere più di quanto non si abbia già, e che porta alla distruzione della babelica torre di potere e quattrini accumulata, alcuni rimarrebbero sempre più sfacciata, davanti alla comune sorte, di altri. Più fortunati, cioè, ma nel senso umano e mondano. È così che la stupidità e l’avidità umana suppliscono, almeno in parte, alle deficienze delle giustizia distributiva, rimasta, nonostante duemila anni di Cristianesimo, e molteplici tentativi ipocriti di interpretazione pauperistica, una mera chimera dai tempi di Aristotele. Che uno possa avere di più rispetto ad altri, in ragione dei propri meriti, è un diritto che reclamiamo a gran voce, fissando con lo sguardo le vette che pur si ergono sopra di noi. Ce ne scordiamo, chi sa il perché, quelle volte che abbassiamo lo sguardo verso quel piano dello spazio su cui si trovano i nostri piedi e quei compagni di ventura, che non hanno avuto la scaltrezza di Giacobbe. In fin dei conti, se la vita premia alcuni e non altri, i primi non per questo dovrebbero dimenticare che tutti da Esaù discendiamo, e che alla misera tenda di Esaù possiamo pur sempre tornare.

Quello che vorremmo di più, non potremo averlo mai. Non c’è appello. La vita dovrebbe essere per tutti una cosa seria. Serissima. Non sapevo neppure che lo avrebbe fatto, né tanto meno quando, ma un giorno mia madre mi iscrisse alla scuola materna. Avevo quattro anni. Ricordo ancora il primo giorno: era stato preparato tutto per l’occasione, e mi ero pure divertito. Grembiule, cestino (non esistevano i prosaici zainetti di ora), al cui interno ricordo una boraccia d’acqua e una merendina. Senza conoscere Lucrezio, ma con la medesima finalità dell’epicureo poeta latino, i miei genitori avevano addolcito la pillola. Mi diressi contento e fiducioso verso i fatiscenti saloni dove, ancora negli anni ’80, si aveva il coraggio di dislocare le aule delle scuole. A tutti capita, almeno una volta nella vita, di essere contenti e fiduciosi. Mia madre mi svezzò presto dal dolce latte del vivere. Capii cosa mai fosse la vita: un corridoio lungo, stretto, con tante persone spaesate come te, ed altre, un po’ più grandi, che lasciano intendere di saperla lunga, di aver già inteso tutto. E, soprattutto, la vita è una mano che ti lascia e una porta che si chiude.

Non si può più uscire. La prima sensazione è di soffocamento. Non si può più uscire! Se ci pensi un istante, comprendi che tutto ti è possibile, tranne che uscire. Non si può più tornare indietro. Venuti all’essere, l’impensabile oblio del nulla rimane solo una mera astrattezza di rimbambiti giocolieri del pensiero. O il paradiso perduto di sfaticati ragazzini. Perché vivere è prendere su di sé il peso del senso delle cose che ci circondano e camminare.

Possiamo augurarci che finisca presto. E Dio Onnipotente potrebbe anche esaudirci. Ma non resterà mai altro che un augurio il nostro anelito alla libertà dall’essere: non possiamo più sbarazzarcene. Siamo entrati e da quelle porta non ne usciremo più. Dall’altra, sì, quella che si trova alla fine del corridoio: quella sì, proprio quella è la via d’uscita. Ma per varcarne la soglia devi attraversare tutto il corridoio – in un minuto, un anno, un lustro, un secolo.

L’esperienza del primo giorno di scuola materna mi insegnò, a conti fatti, ben poco: solo che avrei fatto meglio, da quel momento in poi, ad aspettarmi di tutto. Che si ingrassa il bestiame per scannarlo. Che la vita sia, però, una cosa da prendere molto sul serio lo compresi un altro giorno. Quel giorno in cui esci da un mondo fantastico, e cominci a sviluppare una coscienza di te. Quando vedi che le cose si complicano, che le cose sono più difficili da dipanare di quanto potessi pensare. Quando ti accorgi che la cosa più ovvia, che in generale esiste l’essere e non il nulla, proprio così ovvia non lo è.

Allora, il mondo intero incomincia a farti uno strano effetto: ti appare lontano, proprio a te che fino a qualche giorno prima lo modificavi a tuo piacimento col solo uso della fantasia, secondo i tuoi capricci. No, il mondo ora è quello che è: cade il velo dell’ideologia che copriva il reale, questo gnosticismo che crede la cosa frutto del pensiero umano. Essere realisti non implica una specifica indole caratteriale. Non servono parole quali “ottimista”, “pessimista” ecc. La realtà può essere anche peggio di quanto immaginato. O meglio. Ma ciò che importa è che ora non si nasconde più sotto la tua incoscienza: c’è, cioè c’è tutto l’essere, tutto quanto. E tu lì a vedere come ogni cosa scivoli verso quella via d’uscita, dapprima lentamente, poi sempre più veloce.

La coscienza nasce un giorno, in un solo attimo, dall’urto con la realtà, la quale non può inghiottirci mai completamente. In un solo giorno intendiamo la faccenda, che esiste cioè una legge più grande di ogni coscienza e di ogni cosa. La prima è primizia della Creazione, ma non esaurisce la Creazione. La seconda è oggetto della prima, ma non può esserne il solo.

Accettando che dobbiamo morire impariamo a vivere. Invero, è proprio da questa primordiale conoscenza dell’ultimo atto che si origina la nostra esistenza. Chi aspetta l’ultimo afflato di vita per accettarne il definitivo compimento, in verità non ha mai vissuto.

L’ultimo giorno di uno fu il mio primo.

DOLORE E RIBELLIONE

Il testo è stato composto la sera del 16 luglio 2005.

16 luglio: Madonna del Carmelo. Von Balthasar diceva che solo in cielo, sapremo quanto dobbiamo al Carmelo. Tempo fa, andai a trovare suor A.M. in ospedale: non serviva più la grata a dividerla dal mondo. Ormai era certa – lo mostrava quel dolce sorriso che mi è rimasto impresso innanzi – che il mondo non le apparteneva più. La convinzione di tutta una vita, diventata sigillo dall’ineluttabilità del destino.

Eravamo in facoltà, stavamo pranzando. Il chiostro, che svettava sulla vegetazione profumata dal maggio appena entrato, veniva inondato a brani dalla luce di un sole stanco, che moriva oltre i cornicioni aggettanti dei ballatoi del monastero, al di là di un orizzonte oltre il quale non potevamo spingere lo sguardo. Mi chiese: “come fai a non ribellarti al dolore?”.
Ricordo la ribellione a quel dolore. Il crocifisso tenuto stretto al petto, nelle ultime ore. Nemmeno più la morfina, che andavamo a comprare con papà in una clinica dalle parti di Ognina, saziava il male che lo rodeva. Era il 1988. La dottoressa leggeva la ricetta. Chiedeva, come da prassi, per chi fosse. Prendeva il suo foglio, la sua risposta, e se ne andava per una scala, e noi la vedevamo riapparire qualche momento dopo. La bottiglia, la si sarebbe scambiata per una da spumante. Aveva il tappo ricoperto dalla stagnola. Papà pagava, e tornavamo a casa con quel veleno, a dissetare il corpo riarso di chi non poteva più nemmeno bere. Non ci si ribella al dolore. Non serve. E quando anni dopo le ragazzine innamorate del liceo chiedevano alla professoressa come potessero credere in Dio, nonostante il dolore, il male, io che il male lo avevo visto livido, emaciato ogni giorno di più; io che lo avevo sentito urlare, mentre imparavo a memoria Carducci, Pascoli… io che contro quel male avevo combattuto in notti tremende, con l’ingenuità di una preghiera che non so ancora perché Egli non l’ascoltò, io avrei voluto dire loro quello che avevo visto: doveva davvero esistere un Dio, perché un uomo continuasse ad essere uomo, e non una larva; perché un uomo abbracciasse un crocifisso, con una tale serenità, che nemmeno i sortilegi chimici dei maghi da laboratorio possono donare.
Dio, non è vero che non si vede. Non lo vedono i ciechi. Io, putroppo, non ho più scuse: l’ho visto. Quella sera di fine maggio. Quel giorno di fine giugno. Nella quiete del riposo, nei tratti distesi di chi ormai spera. Nel sorriso che dona vita. Chi non ha più, o gli è rimasto poco dona quel poco che ha, a chi presume di avere ma non ha mai avuto, e forse non avrà mai.
In cinquanta mila pagine, Karl Marx scrisse appena quattro righe sulla morte: sarebbe sopravvissuto il genere umano, il sogno comunista. L’idea non sarebbe mai tramontata. Non sappiamo come morì Marx. Di certo, è assai indicativo che egli, così prolifico, abbia invero prodotto così poco sull’argomento. Forse, aveva in un certo senso ragione Schopenhauer, quando diceva che la morte è l’unica arma contro la volontà. La volontà di illudersi, però. Non c’è velo che copra – ha perfettamente ragione: il velo viene squarciato. La sua filosofia, come quella di Marx, come le mie parole, o le invettive di mio padre contro il carovita: ne faccio tutt’un fascio. L’abisso che si apre tra ciò che possiamo sperimentare nel nostro vivere e il reale, l’essere, possiamo intuirlo dall’ultimo capitolo di vita dell’Angelico. San Tommaso D’Aquino è tra i più grandi filosofi di tutti i tempi, e certamente il sommo teologo della pura dottrina cattolica: non vi fu filosofo, tuttavia, più corretto di Tommaso, che le obiezioni se le muoveva da solo. Il suo pensiero è quanto di più complesso la mente umana abbia mai prodotto. Durante una Messa, ebbe un momento d’estasi. Cosa abbia visto, se così possiamo parlare circa l’esperienza mistica, non ci è dato sapere. Sappiamo solo che due cose contraddistinsero l’ultimo mese della vita terrena dell’Angelico: il silenzio, e la voglia di sbarazzarsi di quanto scritto, salvato solo dalla santa disobbedienza di un suo allievo. San Tommaso aveva visto quello che sente già suor A.M.; quello che vide quella sera di fine maggio mio nonno; quello che vedremo tutti, se Iddio ci darà una morte santa.

La piccola lampada elettrica illumina i versi di Archiloco, abbandonati sullo scrittoio da stamani. La stanza puzza di citronella, nonostante sgusci dentro tra i panneggi della tenda l’aria pungente del mattino ancora galoppante ad est. Fogli sparsi.
La notte pare eterna, ma sarà dimenticata appena il sole farà capolino nella stanza. Di eternò non c’è che la luce.

LA STANZA DEL FILOSOFO

Riporto qui la vecchia introduzione a La stanza.

Nel 1790 Xavier de Maistre fu agli arresti domiciliari per quarantadue giorni. Fratello del più noto filosofo, portò a compimento in quel frangente uno scritto interessante, Voyage autour de ma chambre (Viaggio intorno alla mia camera). Ma era un aristocratico, in fin dei conti. La camera è luogo di riposo, di giacche a quadretti, di lenzuola e di comò. È il posto nel quale, giustamente, può stare recluso uno che si batta, a sciabola, per motivi d’onore; uno di quelli che lancia il guanto, aspettando che l’altro lo raccolga.

La stanza, invece, è pervasa da profumi più intensi. Quello della polvere, che si accatasta sui libri, anno dopo anno. Quello delle spezie dei cibi, cucinati lì, o portatici da comitive di amici, che cercano di trascorrere tra un sorso di birra e un boccone le calde e stanche serate del paese (ancora dieci anni fa, era altamente trasgressivo bere più di un quarto di birra, ed era l’unico vezzo che mi concedevo durante le vacanze: nessuno poteva aspettarsi, che anni dopo anche questa piccola ribellione sarebbe stata molto “conservatrice”). Quello del sudore di ansiosi giovinetti, attaccati alle ultime sortite( a quei tempi mai tradite) del numero dieci azzurro, il cui codino seguivamo per tutto il campo, aspettando il gol della vittoria, quello del pareggio (quando le cose si erano messe male, o il cuore non ce la faceva a sperare di più), l’esultanza del fine partita. La stanza è luogo di studio, la camera di riposo.

Ricordo il primo libretto filosofico che comprai: una raccolta tratta dalle Lettere a Lucilio di Seneca. Poi, un altro su Montaigne, il filosofo francese del XVI secolo, autore dei Saggi. Il titolo di quest’ultima silloge era emblematico: La torre del filosofo. E per anni mi trastullai a pensarmi chiuso nella mia torre, come i benedettini attorno al loro chiostro.
Chi, infatti, è così infelice o derelitto da non aver un buco dove possa raccogliersi e celarsi al mondo?”Tutto qui l’occorrente per il viaggio”. Montaigne, la sua torre ce l’aveva davvero, mica per ischerzo. Ce l’aveva, era nobile, e nonostante gli impegni di carriera, non disdegnò di dedicarsi alla riflessione, consacrandovisi quando questi si fecero più radi, o vennero meno del tutto.
Nietzsche, nel Crepuscolo degli idoli, commentando Aristotele, per il quale solo animali e dei possono starsene in perfetta solitudine, aggiunge la terza opzione: il filosofo. Un semi-dio e un semi-animale, che annaspa quando vede attorno a se il “profanus vulgus” (la massa), e dal quale cerca di fuggire (si racconta che il giovane filosofo, quando entrò per la prima volta in un bordello a Lipsia, non sapendo come approcciare con le donne della casa, e vistosi osservato, corse al piano e lì rimase, da solo, a suonare per molto tempo. Poi morirà pazzo, quasi trent’anni dopo. I più romantici parlano del male inflittogli dalla riflessione. In realtà, era l’ultimo stadio della sifilide. Evidentemente, il dio scese dal suo olimpo, e si sarà accompagnato, una sera, a qualche comune mortale giovincella).

Col tempo si impara a diffidare di Nietzsche, croce e delizia dei giovani ardori, e si diventa un po’ più realisti: allora è il momento di Aristotele, di Giambattista Vico, del buon senso comune. Vi è certo un modo di restare isolati dal mondo, pur vivendoci dentro: quello dei e delle manager, del carrierista che corre freneticamente inseguendo un qualcosa che sempre gli sfugge, dell’egoista ed edonista del XXI secolo, che spaccia per libertà altrui l’indifferenza propria. Non serve andare in eremi, chiudersi in camere, per starsene lontano dal mondo. Basta coniugare sempre i verbi all’indicativo presente, prima persona singolare, e il gioco è fatto. Esclusi dal mondo che fu, da quello che sarà, da ogni probabile articolazione, da ogni sensato dubbio, da ogni possibile scelta, e da ogni riconoscimento di identità che non sia la propria, l’uomo diventa – e qui sì che ha ragione Nietzsche – un dio che crede di poter far tutto, e che decade, invece, allo stato di bestia.

I filosofi son brutta gente. Sono quelli che ti fregano sempre, ma duecento anni dopo. Ti prendi gioco di loro oggi, e sette generazioni dopo, magari la tua stirpe sarà sterminata da un’idea che avevi sentito nascere in piazza, al bar o in edicola… I filosofi vanno presi sul serio. Più che la precisione, i concittadini di Kant, nel vederlo passare ogni giorno alle cinque del pomeriggio, notavano del filosofo la stranezza, la pignoleria, la ridicola abitudine della puntuale passeggiata igienica. A due secoli di distanza, il nostro mondo solo ora si sta liberando delle catene kantiste. Gente pericolosa, i filosofi. Li conosco da anni, e se fossi nei panni di chi legge questo pezzo, me ne starei alla larga da loro.
Tutti i pensieri più articolati, quelli che hanno segnato lo sviluppo della nostra civiltà, sono nati da filosofi, che passeggiavano tra la gente, che discutevano in piazza, e che non disdegnavano di metterci, oltre che quelli altrui, anche i loro fatti. L’uomo ha bisogno dell’altro: non siamo soli, mai. Anche chiudendoci dentro, c’è sempre l’altro che ci perseguita: la nostra mente è fatta così, trascende se stessa. I libri, le penne, gli occhiali e il letto che compongono la mia stanza sono altro da me: magari non mi parlano (ne sono certo, altrimenti dovrei farmi vedere da uno bravo!), non mi saranno di conforto nei momenti tristi (tuttavia non sempre gli uomini sanno esserlo più d’un buon libro), e tuttavia sono lì, fuori di me, con una vita legata alla mia ma non identica alla mia. Ben strano, allora, chiudersi a dialogo con queste cose, che ci parlano l’arcana lingua dei ricordi, delle sensazioni, e non aprirsi a chi mi è altro, e dunque diverso da me, ma che proprio in questa alterità io rivedo me stesso come altro suo. Inoltre, è proprio nel riconoscere l’altro, che io divento più sicuro di me stesso: ne è dimostrazione il fatto, che si passa dall’indistinta visione del reale alla coscienza, quando il bambino si vede come “io” che esperisce il mondo, e che proprio perché lo esperisce egli intuisce, ancora latentemente, di non essere il mondo medesimo. Ma un’altra entità.
Chi ci dà certezza di vivere il reale, e non un sogno? Propria la presenza di entità altre da noi, con una propria vita e un proprio vissuto.
Dunque, un diario pubblico. Ma non un confessionale. Una stanza, dove incontrare ed invitare altra gente, e non una camera, dove rimanere chiuso nell’intimità del mio vissuto. Anche perché mia madre, detentrice dell’ordine domestico, ben conoscendo la mia innata passione per pile di libri ammucchiate sullo scrittoio, non permetterebbe a nessuno di entrarvici. Nega, ancora, al sottoscritto il permesso di pubblicare le foto della camera. Si accontenti l’amico che mi verrà a trovare, di intrattenersi con me nella mia stanza, dove potrà sedere su vecchie e scomode sedie, accerchiato da libretti di ogni colore e grandezza, bevendo succhi di frutta e caffè di moca. E parlando per ore di ogni cosa: di ciò che ho faccio dono con molta generosità, accettando umilmente, invece, quanto non possiedo.

RAGIONE E SENTIMENTO

Negli scorsi mesi ho tentato più d’una volta di ridar corso al flusso delle riflessioni rapsodiche – questo pensiero che Hegel definirebbe ipocondriaco, non sistematico cioè – che trovano occasione in letture, eventi, sentimenti. Putroppo, l’essere ancora legato a questa continua e istituzionalizzata vicenda formativa, al fine di conseguire l’abilitazione all’insegnamento, senza che peraltro sia possibile stabilire alcuna direzione personale, mi ha impedito la costanza.
Mi ripropongo di coltivarla in futuro. Intanto, quanto era stato già pubblicato lo raccolgo qui: niente di valore, come buona parte di quanto finora scritto di mio pugno, e tuttavia piccoli stralci di vita che voglio condividere con altri.
Verrà il momento di dibattiti più colti e impegnati. Speriamo, invece, non venga meno questa inaspettata speranza, mentre al mondo pareva non doversi chiedere null’altro che solo un poco più di luce su quanto già conosciuto, di poter – meglio, di dover ancora scoprire, capire e, infine, dire. Davanti alla sorte che il tribunale degli uomini impone – l’orizzonte muto di una vita consumata entro i limiti del buon borghese, con sempre così alti discorsi da riversare nelle pubbliche piazze o nei salotti perbene – discorsi importanti, che non contemplano i problemi dello spirito e quelli della storia, universale e personale, liquidati invece come passatempi impropri al buon uomo di società, produttivo e senza troppi grilli in testa, che quelli messici dal potere accademico o politico: quelle corone che ti innalzano sul trono del successo filisteo - davanti a questa sorte umana, le redini del nostro destino ci sono state messe in mano da Dio, che si è riservato solo il diritto di scegliere l'inzio e la fine. Il senso tocca a noi mettercelo.
Queste parole, come quelle che danno il titolo a questo luogo, come ogni altro discorso indecoroso – di quelli che mettono a nudo davvero un uomo, pronto oggi a spogliarsi (e con assai piacere) dei propri abiti che non già dei propri stereotipi – saranno fatti oggetto di scherno, se ben mi è dato conoscere un’ampia parte di coloro che si appropinqueranno costì, ed è anche ben comprensibile, giacché l’uomo ciò che non può amare distrugge, e disprezza ciò che non può capire.
A me tanto basta. A nessuno di noi è dato scegliere quando e con che mezzi combattere la guerra dell’esistenza. Ma se combatterla sì. Assalire il mistero magari porterà ad una grave sconfitta, ma che vittoria da operetta è quella di fingersi vincitori di una guerra mai combattuta! Si vince con lealtà e si muore con onore.
Non ho mai barato. Benché meno mi tirerò indietro.