"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

29 giugno 2010

PSICOPATOLOGIA DEL CALCIO (E DI UNA NAZIONE)



di Antonio G. Pesce- Paolo Crepet, intervistato su Radio Rai, ha sdrammatizzato: ‹‹Non è una tragedia››. Abbiamo di peggio, lo sappiamo. Non è che caschi il mondo, se un paio di ragazzotti in mutande non si danno da fare su un prato verde e finiscano a casa. È tragico, invece, che ci stiano finendo milioni di loro coetanei, altrettanto talentuosi ma non col pallone. E non è che gli Azzurri siano gli unici a battere la fiacca. C’è di peggio, lo sappiamo. La rivoluzione liberale tanto promessa che finisce a fischi, e per cadere nel ridicolo non attende più neppure che spunti il passo dell’oca di fronte palazzo Grazioli. Quella proletaria che russa mentre agli operai di Pomigliano scippano perfino il diritto allo sciopero. Il resto tutto immobile.

Ci si muove solo per fuggire. D’accordo col noto psichiatra, facciamo finta di non aver visto il commissario tecnico della nazionale scappare negli spogliatoi, dopo l’umiliante sconfitta contro la Slovacchia. E concentriamoci su Aldo Bancher, che è filato dritto dentro i sacri palazzi della politica, per farsi ungere dal suo signore e diventare ministro di un ministero di cui non si sa ancora neppure il nome. Evitando di finire sotto processo – lui, perché la moglie, invece, davanti ai giudici dovrà finirci lo stesso. Aldo “piè veloce” non cede il passo manco per galanteria.

Va bene tutto. C’è di peggio. Ma vogliamo fermarci un po’ a riflettere? I simboli non dicono più nulla? In questi anni stiamo perdendo tutto. Eravamo la terra del turismo, e i turisti stanno veleggiando verso la Spagna sempre più cospicuamente: facciamo la cresta alle loro spese, e li serviamo come se stessimo facendo loro un favore. Eravamo la terra della cultura e dell’arte, e secondo alcune stime nell’ultimo decennio abbiamo sfornato alla maturità 8 milioni di capre. Senza contare che ministro dell’Istruzione non è Giovanni Gentile, Guido Gonella o Tullio De Mauro, ma Mariastella Gelmini. Eravamo la terra di industriosi artigiani e di operai sgobboni: gente umile, povera forse ma onesta. Ormai siamo al “si salvi chi può”, e i padri fanno le scarpe ai figli, e i nonni non lasciano il posto manco se a schiodarli dalla sedia è la morte. Figuriamoci i nipoti. Non abbiamo più nemmeno Pavarotti, e ci tocca consolarci con Apicella. Perfino Silvio Berlusconi non è più ottimista come una volta.

L’Italia che è scesa in campo in questo mondiale africano è la fotocopia esatta di come ci pensiamo oggi noi italiani. Gente stanca. Stanca perché arrivata, perché le basta quel tanto o poco che già è piovuto dal cielo. Gente che non investe nel futuro, ma che arranca spegnendosi per inerzia. Marcello Lippi si è affidato ai suoi uomini. Uno di loro addirittura tanto fresco da finire la sua carriera negli Emirati Arabi! E i giovani stentano a farsi strada, anche perché come la storia ci insegna che gli italiani amano dividersi. E basta che la contrada propria vinca uno scudetto o una coppa per far festa con i mercenari che, alla prima occasione, saranno i nostri lanzichenecchi.

L’Italia sta massacrando una intera generazione – si diceva il 18 giugno nell’incontro alla Cittadella con Vittadini, Lauro e Barcellona. La stessa cosa ripete da mesi Massimo Cacciari. Guardiamo alla politica, guardiamo alla nostra classe docente, guardiamo all’organico del nostro calcio. Sapete che vedremo di comune? Il vuoto, dopo la generazione attualmente al potere.

Siamo allora sicuri che la sconfitta contro la Slovacchia sia solo una tragedia sportiva?



Pubblicato su www.cataniapolitica.it il 26 giugno 2010.

27 giugno 2010

PENSIERO LIX

Solo chi gode di scarsa memoria, mostra ampia volontà di giudicare.

23 giugno 2010

SCIENZA E QUALITA' DELLA SCIENZA. La polemica Montaudo-Barcellona



di Antonio G. Pesce- Fino a sabato 26 giugno si svolgeranno a Catania i lavori del corso di alta formazione promosso dalla fondazione “Nova Universitas” sul tema ‹‹La ricerca scientifica e il futuro della specie››. Vi partecipano giovani studiosi provenienti da tutta Italia e dalle più diverse formazioni culturali (dalla fisica alla chimica, dalla metafisica e dall’etica alla filosofia del diritto e della scienza), e relatori di spicco nel panorama scientifico nazionale. L’evento sta suscitando vasta eco nella stampa, tanto che non mancano attenti resoconti delle varie relazioni.

Con l’eco, però, pure le polemiche, che vedono coinvolto uno dei promotori dell’iniziativa, Pietro Barcellona. E, come già un anno fa, Giorgio Montaudo, ordinario di chimica nell’ateneo etneo, ha preso carta e penna e scritto il suo ‹‹J’accuse›› (pubblicato su “La Sicilia” del 16 giugno) contro il fondamentalismo di chi non avrebbe occhi come i suoi per vedere la grandezza della scienza.

Non conosco nessuno dei due contendenti, né ho voglia di difendere d’ufficio nessuno. Non ne sento il bisogno, ben sapendo che l’accademia ha i suoi modi per ferire e i suoi tempi per ricucire. Mi permetterei di consigliare a Barcellona una visita all’Accademia Gioenia di cui Montaudo è presidente: ho l’impressione – dato quanto si legge alla fine dell’articolo del noto chimico – che ciò potrebbe essere l’inizio di una lunga amicizia. Il caffè lo porto io.

Quel che qui più mi preme, al di là dei salamelecchi d’occasione, è rassicurare Montaudo, e quanti con lui temono per le ‹‹magnifiche sorti e progressive›› dell’umanità, che a Catania non si sono dati appuntamento un manipolo di folli oscurantisti, né alcuno vuole attentare alla pagnotta altrui. Lasci però Mantaudo la libertà ai filosofi di guadagnarsi la loro. Tutti teniamo famiglia, e quella filosofica è assai prolifica di figli col loro carico di problemi e inquietudini. Ed è in questa famiglia che sono state prodotte quelle idee di cui i chimici fanno tanto uso contro i “fondamentalisti”. La porta, insomma, è stata aperta loro dal di dentro.

Il problema non è la scienza. Ma l’etica nell’epoca della tecnica. E ci sarà etica finché ogni essere umano sarà interrogato da un suo simile anche solamente con la mera presenza. Il fatto che ognuno di noi non sia solo ci induce a giustificare il nostro operato. Sapendo – anche inconsciamente – che lo spazio su cui agiamo (il reale) è spazio pubblico.

Nessuno, allora, impone ad un chimico di dare spiegazioni dei protocolli che, nel chiuso di un esperimento, egli adopera e impone al reale che esperisce. All’interno della comunità di un laboratorio, Montaudo non ha altri interlocutori che la comunità scientifica a cui è legato dall’esperienza del suo “essere chimico”. Ma quando smette il camice, cioè quando il suo operare stras-borda il limite delle scienze, allora egli deve confrontarsi con un orizzonte che non è solo il suo. E che non è solo della comunità che egli ha eletto propria. Ma è di una comunità assai più grande, e che può essere messa a rischio da ogni gesto dei suoi membri. Essere “specie”: questo ci fa scoprire la scienza attuale – un peso e un destino, un passato e un futuro ben più presenti ed universali di quanto lo sia il nostro sentirci “cultura”.

Davvero le scienze non hanno altro fine che la scienze medesime? Non credo che questa esaltazione metafisica dell’‹‹inservibilità›› possa applicarsi alla scienza naturale. Che “serviva” al dominio della natura sin dal suo sorgere. Lo stesso Montaudo non fa altro che parlare di una scienza che aprirebbe ‹‹nuovi spazi di libertà e di operatività››, di un miglioramento del mondo. E quale sia il meglio per l’uomo, vorrebbe lo scienziato avere la cortesia di concordalo col poeta, col filosofo, con l’economista, con il medico, col politico… ‹‹ma siamo uomini o caporali?›› si chiedeva il principe de Curtis, in arte Totò. Insomma, non siamo forse innanzi tutto uomini? E non dobbiamo, tutti, costruire il mondo che è nostro? Non demandiamo più agli uomini della provvidenza in posa ardita il futuro di una nazione. Perché dovremmo abbandonare allo splendore dell’intelletto di un signore in camice bianco il senso del destino umano?

Dubito, inoltre, che lo scienziato sia così spregiudicato come lasci intendere. Innanzi tutto, la scienza non è roba da ragazzotti in vena di spasso. Non è come ‹‹guidare a fari spenti nella notte per vedere, se è poi così difficile morire››, alla stregua di come cantava Lucio Battisti qualche decennio fa. È qualcosa di assai più sensato. Lo stesso Montaudo, dovendo scegliere tra la vita di uno dei suoi più stretti collaboratori e il progresso della chimica, per cosa opterebbe? E – volendo essere ancora più banali – potremmo chiedergli se, entrando in un laboratorio della Cittadella, egli rispetti (e faccia rispettare) quelle elementari norme di sicurezza, che appena un quarantennio fa potevano essere opzionali, e che ancora lo sarebbero, se solo qualche ‹‹fondamentalista›› non avesse avuto il coraggio di porre la questione del lavoro in sicurezza.

La scienza è costruzione umana, nient’altro che umana. Dio non ha bisogno di conoscere per capirsi e per agire. Noi, invece, sì. E facciamo scienza, a tutti i livelli e in tutti i modi. Quando ci troviamo davanti al reale, lo interroghiamo con quel bagaglio che la vita ci ha messo a disposizione. Non sono gli elementi primi della materia che ci indicano la strada: anche perché, se il mondo è così grande come ci viene detto, forse le strade si perdono. Tante, troppe, infinite. Noi cominciamo da noi stessi: da ciò che già sappiamo, da ciò che pensiamo di poter sapere, da ciò che vorremmo capire. Non c’è un Tom Tom a guidarci. Ci siamo noi – noi esseri umani. Soggetti di scienza, non oggetti.

Questo dice Barcellona – almeno è questo che gli abbiamo sentito dire in questi giorni. E con lui, sono in molti a pensare che i cavalli della biga vadano imbrigliati. Noi siamo l’auriga, non astratti protocolli scientifici. Tutto qui.

Montaudo non troverà elogio più ampio e accorato del progresso tecnologico di quello che faceva ai suoi auditori Vico nel “De Ratione” (1709), né filosofo che abbia meritato altrettanta devozione da parte degli scienziati come un Blaise Pascal. Eppure, entrambi si chiedono a che serva un progresso nelle scienze naturali, se nelle scienze morali non muoviamo un passo. Sapere dove stiamo andando, e chiederci se convenga andarci: è questo quello che Montaudo chiama ‹‹fondamentalismo››? Io lo chiamo ‹‹autocoscienza››: sapere che, alla fine della fiera, in ballo c’è quel che io – io uomo – sento di dover essere. Ed è libertà e dignità, di cui nemmeno l’onta del dispregio deve far pentire.


Pubblicato su www.cataniapolitica.it il 19 giugno 2010.

17 giugno 2010

PRECARI E SCELTE SUICIDE



di Antonio G. Pesce- Sabato 12 giugno, a p. 51 de La Sicilia, è stato pubblicato un intervento a firma del senatore del Pdl Salvo Fleres sulla stabilizzazione dei precari della pubblica amministrazione siciliana. Non l’unico, in queste settimane. L’on. Lino Leanza, assessore regionale alle politiche sociali e al lavoro, sempre sabato dichiarava: ‹‹Forse per la prima volta la Sicilia, su questa vicenda, si troverà unita e questo è un grande risultato politico››. Ma è al Pd che si deve la direzione di un’orchestra trasversale, la cui sinfonia chiede la stabilizzazione dei quasi trentamila precari, che la manovra economica in discussione vorrebbe bloccare. Con piglio strategico, il senatore democratico Garraffa, vicepresidente della commissione Industria e componente della commissione bicamerale Antimafia, ad inizio mese auspicava una cordata di ‹‹parlamentari siciliani›› per ‹‹garantire un futuro ai ventimila precari stabilizzati della Sicilia››.

Non può che far piacere questa operosa concordia, soprattutto se serve a garantire diritti di lavoratori in una regione che non ha né diritti né lavoratori. Soprattutto se altrove in Italia, per difendere i feudi del moralismo leghista, che predica bene sugli altri e razzola male su se stesso, si è deciso di non tagliare né province piccole e grandi né comuni ad una piazza. Però, un’informazione che vuole essere degna della libertà che poi tanto rivendica, non può limitarsi a pubblicare comunicati stampa né a seguire pedissequamente il flusso delle emozioni. Qui a CataniaPolitica non è gradito farlo. Non è propria questa l’occasione per cominciare.

Perché ha ragione Fleres: non è questione di destra e sinistra. E c’è da aggiungere che non è questione né di nord né di sud. Peggio, molto peggio: è questione generazionale. E se nessuno, tra destra sinistra e autonomisti, se n’è accorto, allora sarebbe opportuno che i trentenni – tagliati fuori dalla politica, dall’economica, dalle università, dalla scuola e, ci manca poco, anche dalla cittadinanza – lo ricordassero loro.

Un anno fa un’altra questione saltò alla ribalta nazionale: era quella dei precari della scuola. E sì che ce ne sono, tra loro, di siciliani, che per ottocento euro al mese si prendono il freddo del Nord e gli improperi dei suoi gendarmi verdastri. Reclutati con norme nazionali che, se non sono per nulla meritocratici, di certo non sono ad usum Delphini né IGP (di indicazione geografica protetta). Reclutati con anni di studio e decenni di servizio.

Il ministro Gelmini non si fece scrupoli ad invitarli a cambiare mestiere. La maggioranza fece quadrato attorno ai suoi provvedimenti finanziari – tutta la maggioranza, perché allora era in ballo la sopravvivenza di gente anonima, scelte di vita e duri sacrifici, mica l’importantissima stabilità della diarchia “co-fondataria”. Anche allora il Pd diede del suo meglio: davanti a tagli indecenti, che stanno portando allo sfacelo dell’istruzione in Italia, il ministro “ombra” Garavaglia si impuntò sul grembiulino. Oggi, che pure ci sarebbe da combattere contro il disegno di legge per il reclutamento dei ricercatori – quel disegno di legge che introdurrà l’èra della precarietà scientifica – i ricercatori italiani si ritrovano soli, perché il Pd nicchia. E deve andare bene, perché il più delle volte pensa (e vota) come la maggioranza.

Non solo. Chi ha mai sentito di una “cordata” di parlamentari siciliani, per difendere non tanto i posti di lavoro, quanto almeno la dignità dei lavoratori “allogeni”, non “autoctoni”, dalle bordate dei kapò padani? Nessuno. Perché, semplicemente, non c’è mai stata.

Diciamocela tutta allora: i precari della scuola hanno un “altro valore politico”. Sono prodotti in “altro modo” – in modo politicamente diverso. La loro gestione è altra da quella dei precari della pubblica amministrazione. E, soprattutto, hanno dimostrato negli anni di esseri più propensi alla genuflessione ideologica. Speriamo – per loro – riconquistino quel minimo di “coscienza di classe” per porsi davanti agli interlocutori istituzionali innanzi tutto come intellettuali. Poi come lavoratori. Infine – se proprio non se ne può fare a meno – come burocrati. Mai, però, come cani da guardia di rivoluzioni solo promesse.

Qui, però, non si tratta di contrapporre due fazioni di disperati in una fratricida guerra tra poveri. In fin dei conti, non è colpa di una se l’altra riesce ad accattivarsi l’attenzione del politburo nostrano. Ma la politica non può darcela a bere. Non può operare delle scelte – scelte chiare, nette – facendo credere che non abbiano poi né conseguenze e che, soprattutto, non siano generate da visioni ideologiche preconcette. Che non si scontenti nessuno, e che così si faccia solo del bene a tutti.

Per decenni, nella pubblica amministrazione non si potrà bandire alcun concorso. Sarà tutto saturo. Ma è attraverso i concorsi che la pubblica amministrazione dei paesi a cui dovremmo guardare recluta i suoi membri. E questa è una scelta politica. Ed è una scelta politica quella di garantire alcuni precari e non altri. Ed è, ancora, una scelta politica quella di far studiare alcuni (e lasciarli a spasso) e far lavorare altri (per decenni senza diritti).

Sono scelte. Si può poi concordare sul fatto che non siano né di destra né di sinistra. Né da comunisti né da liberali. Anche perché si tratta di scelte suicide. Tutto qui.

Pubblicato su www.cataniapolitica.it il 14 giugno 2010

16 giugno 2010

THOMAS POGGE, POVERTA' MONDIALE E DIRITTI UMANI



di Antonio G. Pesce- Nel passato erano le buone maniere. Ora sono le buone intenzioni che tengono banco nel mondo occidentale. E si sa che la strada per l’inferno ne è lastricata. Non è che non si parli di diritti umani nella nostra civiltà. Anzi, se ne parla così tanto – troppo – in assise politiche e trasmissioni televisivi che, finito il momento dedicato alla pia coscienza, il mondo resta tale e quale a com’era prima del sermone caritatevole.

Thomas Pogge, filosofo di formazione kantiana oggi docente a Yale, autore del libro Diritti umani e povertà mondiale (Laterza 2010), è stato ospite della facoltà di Scienze Politiche di Catania. E, in un incontro nell’aula magna del rettorato, insieme all’ on. Leoluca Orlando e ai proff. Fulvio Attinà, Vincenzo Provenzano e Luigi Caranti – quest’ultimo curatore del libro e organizzatore della giornata di studi – ha mostrato i dati dell’indecenza alla quale nessuno, nonostante il progresso economico e scientifico, pare voglia porre fine.

Dei circa sette miliardi di esseri umani, 830 milioni soffrono di malnutrizione cronaca; 1,1 miliardi non hanno accesso all’acqua potabile; 2,6 ai servizi sanitari di base; 2 miliardi ai farmaci essenziali, altrettanti all’elettricità, e un miliardo non ha un riparo adeguato. Si potrebbe continuare, dice Pogge, perché al peggio non pare esserci fine: ad esempio, quasi nove milioni di bambini vengono ridotti alla schiavitù, con lavori fortemente usuranti, prostituzione, pornografia, ecc. Non è dunque difficile credere che un terzo dei morti annui sono dovuti alla povertà. Un’apocalisse che non ha eguali, neppure tra quelle causate dalle guerre del XX secolo e dai totalitarismi. Eppure, è assai più facile fermare questo massacro che quelli passati: servirebbero solamente una migliore nutrizione, acqua potabile, zanzariere, confezioni per la re-idratazione, vaccini e medicine.

Nella sua lezione al rettorato, Pogge si è soffermato proprio su quest’ultimo aspetto: la mancanza di medicine e, soprattutto, di cure adeguate. La soluzione del filosofo tedesco starebbe nell’HIF (Health Impact Fund), un fondo sovvenzionato dai governi di tutto il mondo, ma dal funzionamento assai innovativo. Oggi non abbiamo soltanto un mercato iniquo dei farmaci, che penalizza il Sud del mondo, ma anche un mercato scarsamente innovativo. Le case farmaceutiche non investono nella ricerca di vaccini e di medicine che non potranno piazzare “bene”. E le piazze meno conveniente sono quelle dei paesi più poveri. Il risultato è che, mentre nel ricco ed opulento Nord industrializzato ci sono più farmaci che malattie da curare, nei paesi più poveri ci sono molte malattie ma pochi rimedi. E quelli che ci sono, pagati a carissimo prezzo.

L’HIF permettere, allora, un diverso approccio alla sperimentazione e ai suoi proventi. Senza chiedere atti di carità, ma offrendo un’opportunità anche di lauti guadagni. I centri di ricerca, che notoriamente non sono dei buoni samaritani, potrebbe scegliere se registrare il brevetto secondo la prassi ordinaria o attraverso l’HIF. In quest’ultimo caso, verrebbero ripagati secondo l’impatto del farmaco. E si capisce bene quanto possa essere lucrosa anche questa via, se consideriamo che le malattie meno diffuse (se non addirittura scomparse) nei paesi sviluppati, sono tra le più diffuse e mortali in quelli poveri.

Un approccio filosofico, quello di Pogge, giustificato con la sociologia. La morale che non disdegna di far leva sull’interesse. Perché, come dice Caranti, ‹‹in Povertà mondiale e diritti umani Thomas Pogge intende cambiare il modo in cui studiosi e semplici cittadini del mondo ricco pensano al problema della povertà nel mondo››. L’ordine mondiale imposto dai paesi più sviluppati ha creato questo sistema di profonda sperequazione. È nostro dovere nostro correre ai ripari.


Pubblicato su www.cataniapolitica.it il 10 giugno 2010.

15 giugno 2010

IL "BUON SENSO" DELLA GELMINI


di Antonio G. Pesce– “Buon senso”, la traduzione nazionale dei “localistici” tarallucci e vino. Che, in un’istituzione come quella scolastica, nella quale l’ubriacatura risale a quarant’anni fa – e quando l’hanno smaltita, gli studenti erano diventati docenti – si traduce, ancora, in poetiche coccole e carezze. Ricordo una imprenditrice di ferro, attuale sindaco di una importante città lumbard, quando era ministro dell’Istruzione. Proprio si vedeva che non ce la faceva a fare la maestrina bella e carina. Tuttavia, si piazzò davanti ad una telecamera e rassicurò i giovinetti: il nuovo esame lo avrebbero fatto tra le braccia dei loro stessi professori.

Ovvio che ad una scuola così mammona nessuno dia fiducia. Da allora, alla maturità, abbiamo sfornato milioni di capre. Non preparati al lavoro perché, innanzi tutto, non preparati né alla vita né alla civiltà.

Con l’attuale ministro speravamo ci fosse andate meglio. Quando le toccavano il datore di lavoro – l’unico che abbia mai fatto – si lanciava, impettita, contro il bestemmiatore. E parlava, poi, di merito e di serietà. Certo, non è che desse prova di spigliata dialettica. A volte, poi, si arrivava a mettere in dubbio che sapesse quel che diceva. Ma almeno l’apparenza pareva di tutto rispetto.

È arrivata la gravidanza, il parto. E il ministro lo abbiamo perso. Ora parla come tutte le mammine di questi tempi, alle quali non puoi dire che il loro figlioletto deve rompersi la schiena senza rischiare il linciaggio. Raccomanda il ‹‹buon senso››: ‹‹con un solo cinque non si boccia››. ‹‹Buon senso››. Lo dicevamo in molti che era questione di ‹‹buon senso››. Solo di ‹‹buon senso››.

Ci voleva del ‹‹buon senso›› per non tagliare a scuola e università 8 miliardi di euro….

Ci voleva del ‹‹buon senso›› per non rendere le classi carri da bestiame….

Ci voleva del ‹‹buon senso›› per non ridurre le ore di lezione….

Ci voleva del ‹‹buon senso›› per non far chiudere le università …..

Ci voleva del ‹‹buon senso›› per non far scappare i ricercatori all’estero….

Ci voleva del ‹‹buon senso›› per non smantellare il sistema di istruzione italiano ….

Solo ‹‹buon senso››. E con un po’ di ‹‹buon senso›› tante cose non sarebbero state le stesse. Forse anche il ministro.


Pubblicato su www.cataniapolitica.it il 10 giugno 2010.

14 giugno 2010

L'EGOISMO VERSO LE DONNE


di Antonio G. Pesce-
L’Europa chiede di equiparare nel nostro paese l’età pensionistica di uomini e donne. E siccome ci chiede una cosa che conviene a tutti i partiti politici, probabilmente si farà in fretta. Se poi ci mettiamo pure il fatto che ‹‹è l’Europa che ce lo chiede››, con tutto quello che la cosa comporti in termini di deresponsabilizzazione della classe politica nostrana, nutrire dubbi sulla celerità della riforma pensionistica è da illusi. Non sono passati sulla cottura della pizza e altre amenità, ma c’è da credere che, questa volta, i burocratici di Bruxelles sfonderanno su tutti i fronti. Risparmieremo nel breve termine, non versando TFR e non pagando pensioni, ma alla lunga dovremo mantenere più gente sul posto di lavoro, e gente che avrà maturato un TFR più corposo. Però, l’Europa è chiara: non è questione di soldi, ma di principi.

Appunto: i principi. Si trattasse di soldi, le donne avrebbero ben poco da temere. Non foss’altro perché un male comune è un mezzo gaudio, dice il proverbio. Ma sui principi no! Sui principi le donne stiano molto attente, perché è con i principi che le abbiamo sempre fregate. Le volevamo più libere di scegliere. Un trentennio fa. Alla fine, hanno dovuto scegliere tra la vita e la morte. Abbiamo addossato loro questo peso. Il peso che da Sparta a Roma sentivano i padri. Solo che i padri, dalla preistoria all’epoca postmoderna che viviamo, non hanno mai generato vita, piuttosto morte. La terra l’hanno irrorata di sangue. Quando la fecondano, non possono seguire il lento emergere della vita dall’interno della vita stessa.

Le abbiamo volute più consapevoli del loro corpo. Esse, che del corpo sentono solo il cuore. Troppo cuore, magari. Sì, troppo. Istintive fino all’animalità. Che riconosce nei cuccioli altrui l’odore della vita che brama. Animalità, non barbarie. I barbari vogliono perpetrare la razza. Portatori di morte, non avendo saputo generare nulla che resista al tempo, noi maschi, noi barbari spargiamo la nostra più intima bile sperando che attecchisca.

Non è allora davvero strano, che ormai anche le donne chiedano alla ferocia medica di usare loro violenza, purché il pargolo sia del proprio ceppo? Siamo entrati fin dentro il loro ventre. Abbiamo conquistato la terra. La terra si è aperta completamente al dominio del potere.

Ora, l’ultimo assalto. Vogliamo conquistare la storia. Non si creda che tutto capiti a caso. Né, però, che ci sia un progetto. Semplicemente, è come sbagliare strada. Si sbaglia percorso. Si arriva al posto sbagliato. L’equiparazione, a tutti i costi, è il segno tangibile del disgregarsi della società. La cui forma primigenia è la famiglia. Né nel senso burocratico, né nel senso religioso. Solo nel mero senso sessuale. La realtà, alla fine della fiera, è questo uomo e questa donna. Questa identità che non si può eludere. Che comporta differenze antropologiche nette, ma fatte per compenetrarsi. È la storia che riproduciamo quando ci amiamo. È follia, nient’altro che follia fingere che la donna non si senta, per sua stessa scelta, per rispetto del proprio essere, innanzi tutto femmina e madre.

E che questo abbia comportato – almeno da quando possiamo documentarlo – un peso ben maggiore di quello della raccolta punti per l’insalatiera pensionistica. Non prendere in considerazione neppure uno sgravio per la gravidanza è la prova della tirannide che si sta imponendo alla realtà.

In matematica non avremmo i numeri, se non fosse data a priori la loro unità. E in chimica i composti sono qualcosa di più, e di diversi, della somma dei loro singoli elementi. La vita umana non è da meno. Nella realtà non abbiamo “lavoratrici” ma donne. E una equiparazione tanto (apparentemente) giusta sulla carta, può diventare assai iniqua nella realtà. Perché le donne hanno già il carico della storia sulle spalle. Sono perfino lo stato sociale che manca durante i periodi di crisi. Per una volta nella storia, ci si potrebbe comportare verso loro in modo diverso che col solito egoismo usuraio.

Pubblicato su www.cataniapolitica.it del 9 giugno 2010.

7 giugno 2010

W L'ITAGLIETTA


di Antonio G. Pesce- La festa della Repubblica, anche quest’anno, l’abbiamo fatta. È passata. Il santo dell’Unità – vedrete – sarà gabbato tra qualche anno. Tutto in austerità. Perché la classe politica italiana – in questo caso, soprattutto quella di centrodestra – ha scoperto l’uso parsimonioso del denaro pubblico. Dalla grandeur del nuovo miracolismo occupazionale alla conta delle briciole.

Piccola retorica, piccole idee, piccolissimi progetti di cosa debba essere questa nazione. Piccoli? Localistici è meglio definirli, con l’Italia che scivola sempre più verso la periferia dell’impero che conta. Quando taluni montanari, discesi a valle e divenuti politici in una bettola, propongono l’idea del paese che vorrebbero, non vediamo l’Italia com’è stata né quella che sarà, ma come sono essi stessi oggi. Ognuno di noi parla e si relaziona col mondo che si è creato. E il mondo, ciascuno se lo crea a propria immagine e somiglianza.

Avremmo bisogno, almeno una volta ogni cinquant’anni, di una sana boccata di patriottismo. Neppure ingozzarsi di tanto in tanto fa male al cuore. Riscoprirsi nazione ogni mezzo secolo non farà di certo saltare le coronarie della democrazia e del pacifismo costituzionale. Avremmo bisogno, proprio ora che nascono imperi, di stringerci ancor di più, di trovare una compattezza sociale, politica e culturale che ha fatto grande i paesi dai quali, anche in questi tempi di presunto “buongoverno”, ci arriva qualche lezioncina sull’uso delle risorse finanziarie. Quelle che contano, non gli spiccioli.

Ci tocca, invece, vederci divisi ancora una volta. C’è una cortina di cafonaggine che non si limita a tagliare in due il territorio nazionale né lo stato nazionale. Ma il senso della nazione. Il sentirsi, nonostante tutto, un solo popolo in un solo stato.

C’è da capire il nostro presidente del consiglio in alcune sue esternazioni: da vent’anni gliene dicono di tutti i colori, e non tutte le volte gli improperi sono stati meritati. Tutti facciamo, anche se di rado, qualcosa di buono. L’avrà fatta pure lui. E c’è anche da capire che non è più un giovinetto: i capelli tinti non possono nascondere il fatto che si sta facendo assai anziano. E una volta gli anziani si mettevano davanti la porta di casa, e con una mano scioglievano il rosario e coll’altra stendevano il bastone contro i monelli. Oggi vogliono salvare il mondo, frattanto che si fanno decine di docce a notte, copulano con graziose (e meno graziose) signorine, e devono mantenersi in forma nei sondaggi. Tanto stress, e a quell’età, un po’ di male deve pur farlo ai nervi.

Mettici pure che, in una sola serata, e tra una risata e l’altra del pur garbato Floris, a Ballarò ha dovuto difendersi dal suo peggior nemico. Che è sempre il medesimo: se stesso. Non dalle dichiarazioni di uno Spatuzza o di qualche altro pentito di mafia, ma da se stesso in altra veste. Nella veste dell’uomo della provvidenza. Ora, la Provvidenza è colata a picco. E scopriamo, pure, che era senza il suo carico di lupini. Perché di lupini non ce ne sono più. E allora si corre ai ripari. E bisogna tappare la falla dalla quale, ieri, fuoriuscivano balle come fossero milioni di tonnellate di greggio. Ed oggi imbarca quell’acqua che si porterà via perfino il coriaceo Bastianazzo.

Lì, nei lucidi dei sondaggi che hanno fatto la sua fortuna, Bastianazzo ha visto il mare grosso. Aveva davanti tutti i suoi peggiori nemici. Gli italiani non lo amano più. Amano più Napolitano, Fini, Draghi e Tremonti.

Capita che i nervi saltino. Capita di prendere il telefono, chiamare la comare insolente e dirgliene di santa ragione. In diretta nazionale. Gli sta capitando, però, un po’ troppo spesso. Coloro che lo conoscono bene (Bruno Vespa) lo dicono uomo generoso, che vuole restare nella storia di questo paese. Vorrebbe restarci per le riforme, dicono. Per il Ponte sullo Stretto e altre grandi opere. D’accordo. Ma ce n’è una in sospeso da centocinquant’anni: fare gli italiani. Dare una nazione ad un popolo. Portare a compimento l’unità.

C’è sempre la possibilità di sbagliarsi, ma la strada sembra invece quella della vecchia strategia romana del divide et impera, che permette – forse – di tenersi stretto il governo della nazione, recuperare qualche posizione negli indici statistici di gradimento, e perfino di mandare subdoli messaggi ai parenti (coltelli) della coalizione. Ma il prezzo, solitamente, è quello di finire per essere superati dalla storia e svalutati dalla storiografia. E c’è di peggio: essere disprezzati dalla memoria collettiva.

Pubblicato su www.cataniapolitica.it del 3 giugno 2010.