"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

30 marzo 2009

AMICI DI IERI ED ALLEATI DI DOMANI. Su cosa non è liberale



Si nasce liberi, e poi si scopre di esserlo. Ma proseguire e dire che cosa sia l’essere liberali richiederebbe molto tempo, col rischio di far passare in secondo piano cosa non lo sia – opportuno farlo in questo momento, e necessario anche per difendermi dalle accuse di non esserlo proprio io che ne discuto. E sono stati in molti coloro che si sono degnati di rispondere, magari privatamente, ad alcuni miei interventi, non proprio benevoli verso la nascita del Partito della Libertà e del suo leader in pectore – mi hanno detto che capo non suona bene, e che è fuorviante tradurre così la ben nota espressione anglofona: ne prendo atto, e mi scuso per non essermi mai scandalizzato troppo dei significanti e dei loro significati: Gianfranco Fini.
Tanto poco liberale sarei, che dalla piattaforma di discussione a cui partecipo, Tocqueville – La città dei liberi, mi sono visto negare, con un bel cartellino rosso, la pubblicazione di un mio contributo, mentre gli adepti incensavano l’unto di quel dio predellino un dì bestemmiato.Che vuol dire essere liberali per i figli della libertà non so, ma è bene cominciare col dire ciò che non è liberale, dal momento che la storia del liberalismo –italiano e no – è così ampia, che vi possiamo trovare di tutto – tranne ciò che, da sempre e dunque per tradizione, la cultura liberale non ha mai considerato simile a sé stessa.
Innanzi tutto, possiamo dire che liberale non è la retorica dell’ultimo-tono, l’accento e l’urlo che cadano sull’ultima parola che vorrebbe racimolare applausi compiaciuti di una platea informe e ed un poco alticcia. Non è liberale neppure smentire le scelte parlamentari, durante le proprie omelie sull’ambone del laicismo di chiara marca radical-chic. Non è liberale, ancora, il commento del direttore del telegiornale della seconda rete di stato, certo dott. Mazza, che alcuni danno come famulo del disciolto partito di AN, e possibile eletto a un posto sulla rete ammiraglia della RAI. Infine, non è mai stato liberale la perdita della sobrietà, la pacchianeria, l’esaltazione spocchiosa di una classe dirigente che, ancora, non ci ha dato un buon motivo per osannarla così tanto. Ubriacarsi non è mai lecito – perdere il dominio di sé, l’attinenza con la realtà, perché è proprio quella mancanza di libertà che tanto si combatte da sobri – ed è bene che il liberale si prodighi nel cercarsi amici astemi, quando ancora l’ultimo barlume di lucidità non lo ha abbandonato: potrebbe pentirsi quando si sarà ridestato dalla sbronza della coscienza. E non serve dire che a sinistra si fa lo stesso, o quanto meno che da sinistra ci sono arrivati tantissimi buoni motivi per fischiarli: non era necessario far nascere un partito, per mettere in evidenza quello che già i dati elettorali confermano.
Nel primo congresso del PDL – che purtroppo non sarà neppure l’ultimo – abbiamo assistito agli sproloqui urlati di gente confusa, parlamentari, delegati e giovincelli, tanto più pericolosi in quanto non si limitano a dire di poter fare tutto, ma di aver già fatto tutto. L’one-best-way c’è, ed essi sono i nuovi profeti di questa strada, manco tanto irta d’insidie e di sacrifici. “La gente è artefice di tutto questo” – dicono per schivare le domande minate di chi chiede cosa sia questo nuovo soggetto politico, e neppure li sfiora il dubbio che, forse, l’elettore ha scelto la loro accozzaglia perché, quanto meno, non litiga come i separati in casa della sinistra nostrana. Piccoli pedine, ridotte ormai a pigiare un bottone e a limitare la coscienza alle soli leggi che non danneggino gli affari del padrone, hanno calcato, per un istante, pure loro il palco della notorietà, cercando di convincere se stessi e i loro compagni di merende, di principi che a loro dire dovrebbero essere scontati: si vada a leggere o a riascoltare i discorsi dei tanti ministri ed onorevoli avariati, e mi si dica se si dia detto qualcosa di più del fatto che 1) il PDL è un unico partito e che 2) non è litigioso, al suo interno (io avrei aspettato un po’ a dirlo), come il PD.
Solo il sottosegretario agli Interni, Alfredo Mantovano, ha avuto la lucidità, e il coraggio (con i tempi che corrono ce ne vuole tanto), di dire l’esatto opposto di quello che, da anni, ormai ripete il sommo laeder Fini, ed è stato accolto da una platea stanca di ragionamenti e valori, quando questi non siano materiale da propaganda. Si è riscaldata, quando Berlusconi ha espresso il suo verbo. Che, in tutta onestà, è migliore della religione che vuole imporre al liberalismo italiano il suo successore liberal-capitalita-riformato. Perché mentre Berlusconi ha incentrato il suo discorso sulla carte dei valori del partito, l’on. Fini si è lasciato andare ad analisi che, per semplicità e approssimazione, fanno ricredere sull’uomo che in molti reputavamo tra i più colti ed acuti.
Fini si è accorto solo ora, quando il vaso di Pandora della finanza creativa è stato scoperchiato, che il liberismo a cui egli si è convertito a partire dal congresso di Verona del 1999 non era il paradiso agognato. Ha impiegato dieci anni per capire che il mercato non è la libertà, ma solo uno dei tanti spazi in cui si svolge la libertà, e quando questa è messa in pericolo dai suoi stessi mezzi, o questi sono ancora inadeguati o lo sono del tutto. Si è pure messo a fare citazioni colte – a suo modo – sull’eticità dello Stato, che sarebbe contro la “laicità”. Forse, per un capo della destra non era necessario leggere gli intellettuali di riferimento della sua area – e infatti non ne ha più, e quelli che ci sono vengono tacitati con la forza elettorale – ma lo è, invece, quando si mira a diventare lo stratega di un partito, per giunta nascente. Rileggendo Giovanni Gentile, avrebbe scoperto non solo che ogni Stato è etico, e perché lo è, e in che senso lo è, ma avrebbe pure capito che eticità e laicità non sono in contrapposizione.
Oggi, però, è il momento del pragmatismo. Cioè della navigazione a vista: ci fideremmo di un nocchiere del genere? È il massimo? E per chi? I liberalismo di marca finiana è un liberalismo materialista e utilitarista, lo stesso che ha fallito sui mercati e sta portando la civiltà Occidentale a rinnegare se stessa. Un liberalismo di spiriti solitari, che trovano empiriche soluzioni ai nodi che la cozzante libertà, passante da un ego a un altro, crea in seno alle democrazie liberali. È un liberalismo della domenica, quando poi durante la settimana si è stati schiavi ciascuno delle proprie misere passioni utilitarie, divenendo lupo per l’altro. Nessun ideale da perseguire, nessuna speranza da credere. Niente altro che panem et circenses. E magari qualche confronto elettorale di tanto in tanto.
Spiacente, ma non posso essere dei vostri, amici liberali del domani. Io rimango un liberale di ieri.

27 marzo 2009

LA MORTE DELLA DESTRA E L'ERA POST-POLITICA

Non bisognerebbe mai sopravvivere a se stessi: fa una certa impressione vedere vecchie glorie dello sport incassare una sconfitta dietro l’altra, perché il fiato si fa sempre più corto; o voci un dì squillanti e ricche di patos, biascicare sillabe dietro un play-back che si fa veloce; o, ancora, arzille signore dal seno cadente, atteggiarsi a compagne di sogni delle figlie. Fa impressione vedere l’uomo incapace di accettare che lo scorrere inesorabile del tempo ne travolga opere e illusioni. Alla fine, il Nunc dimittis tutti, prima o poi, lo recitano: deposta la penna che corresse l’ultima opera, anche Gentile, che ben aveva detto che la vita, quella vera, quella autentica, mai si smette di viverla, anche lui si consegnò alla morte. Certo che l’opera sua, “nella vita”, era conclusa.
Ri-adattarsi? E perché? Quando “l’opera nella vita” era finita, sconfitto dalla storia ma ancora spirito forte e dignitoso abbastanza da affrontarne il verdetto, l’uomo romano si faceva da parte, e aspettava la morte dedito ai suoi studi. Il cursus honorum era concluso: altri avrebbero pensato alla patria, altri avrebbero battagliato nell’agone politico. La vita attendeva la sua quiete, superata l’opera a cui, per anni, aveva atteso. E il silenzio non era quello della morte, ma della riflessione: convenienza, che allora si coniugava bene con la decenza, oppure piena coscienza che una stagione era passata, e che ancora restava tanto, e soprattutto altro da fare. Sallustio e Cicerone ne sono esempio, ciascuno a suo modo.
Oggi, però, ri-adattarsi, come pare facciano i corpi, è diventato indice di lungimiranza, a dire di alcuni, ma resta sempre motivo di viltà, e suprema vigliaccheria davanti al tribunale della coscienza. E così si lasciano le case del padre, per non farvi più ritorno. Adieu! Giusto: i figli conquistano la propria maturità a confronto diretto con le irte vie della vita. Ma se l’esodo è senza una meta, né senza l’alta vocazione di un ideale, che porti a lasciare il proprio agio per i lidi lontani della verità, allora l’opportunismo qualifica bene questa fuga a cui ricorrono i meno coraggiosi, quando c’è da ammettere di aver sbagliato tutto, o di resistere alle procelle delle mode a testa alta e continuare a combattere per quell’ideale che si ritiene di valore.
Lo scioglimento di Alleanza Nazionale, la destra nazionale nata negli anni Novanta dopo un serrato e lungo confronto con le proprie radici fasciste, è morta la domenica del 22 marzo 2009. Data che rievoca i novant’anni – se ne saranno accorti gli zelanti democratici dell’on. Fini? – della fondazione del Fascismo, avvenuta il 23 marzo 1919. Dovremmo ringraziare Fini per aver staccato la spina – come ormai gli capita spesso di pensare – ad un’agonizzante ammucchiata di cavalieri con tante macchie e la paura, la sola, di perdere l’unico posto, a cui possono aspirare: l’agio del potere, al quale celermente si sono abituati. Dovremmo ringraziarlo di portare fuori di scena una posizione politica che stentava a passare, finendo per ridicolizzare anche quando di buono, in campo sociale, aveva proposto. In questo lungo dopoguerra Mussolini, che non sarà stato il più grande statista della storia, ma sicuramente era più intelligente di coloro che a lui si rifaranno, si sarà rivoltato chi sa quante volte nella tomba, a sentire gracchiare dai megafoni logori slogan, da lui coniati cinquant’anni prima più per sintetizzare le ragioni di una scelta avanti ad un popolo ancora semianalfabeta, che non per giustificarla davanti all’opinione pubblica che contava. Il fascismo ha avuto tante pecche, e il solo merito di essersi posto almeno il grosso problema che da sempre attanaglia l’Italia, e cioè gli italiani: uno Stato che aspetta ancora i suoi cittadini. Ma come tutte le dottrine politiche, è passato e doveva passare: se mai dovesse tornare una qualche forma totalizzante di vita politica, essa non assumerà certo le sembianze folkloristiche del fascismo mussoliniano. Da questo punto di vista, i tanti vaccini retorici a quali il popolo italiano viene sottoposto durante l’anno, e soprattutto l’ideologia antifascista, non serviranno a nulla.
Dunque, vada a riempire le pagine della storiografia il fascismo. Da oggi, essere di destra avrà un significato che ancora dobbiamo inventarci. E, con molta probabilità e grazie a Dio, sarà sempre più difficile assimilare ciò all’armata Brancaleone che ci governa, avanzando in ordine sparso più che in ordine liberale. Detto questo, però, ciò che lascia pensare è la facilità con la quale l’on. Fini sfascia la famiglia che egli stesso, neppure quindici anni fa, aveva fondato, e non il fatto di aver abbandonato la casa del padre. Esodo è crescere, esperire nuove strade, portando con sé le radici del proprio spirito. Ma fuggire così, come nomadi, senza sapere dove andare, e con assoluta noncuranza cambiare senso alla propria marcia, raccattare motivazioni qua e la, e sorridere come ebeti e davanti agli interrogativi dell’avvenire, perché pure il futuro ci interroga con la voce della speranza, abbozzare pragmatistiche soluzioni che hanno da venire, come già pragmaticamente la storia (elettorale, che è tutto un dire, soprattutto in Italia) avrebbe sancito, sembra uno scatto in avanti di chi vuole smaccarsi da una corte troppo legata, ancora, ad un minimo di onorabilità, per capire che il futuro è di chi saprà dire “anche” il contrario di quello che pensa e, soprattutto, di quello che può testimoniare.
Alleanza Nazionale era un partito di nostalgici. In Italia, i partiti di nostalgici, rossi neri o bianchi che siano, non si contano più da anni, da quando almeno, in un quadriennio, è venuta meno tutta l’impalcatura del Novecento. Ma la nostalgia non è un peccato. Chi di noi, pur amando la vita che vive e gli affetti che ora gli sono cari, non ha mai dedicato un istante del presente ad un ricordo del passato? E non è un tradimento di ciò che si è diventati e si sente il dovere di diventare ancora, ma la trama del nostro vissuto: si rimpiange quella parte di sé che non tornerà più, non già il mondo che si è lasciato alle spalle. E se poi molte credenze sono legate agli anni più verdi di una vita, il problema, anche se non così schiettamente posto, è un problema esistenziale più che sociale o politico. Se dovessimo condannare per i sentimenti di nostalgia che possono affiorare in un gesto o in un ricordo, allora buona parte dell’attuale panorama politico italiano dovrebbe recitare il più contrito dei mea culpa: i comunisti rimpiangono il comunismo, tutti, nessuno escluso, e perché? Perché mancano loro le stragi del “Baffone”, alle cui scempiaggini non sfuggirono neppure tante e tanti compagni italiani, che nell’Unione Sovietica andavano a visitare il paradiso dei Soviet, e vi trovavano, invece, l’inferno dei gulag? No, ricordano i tempi di una forte appartenenza politica, di una serietà nell’affrontare le questioni sociali, le speranze – anche se di alcune la storia si è prodigata assai di smentirne la bontà – che univano uomini e donne di diversa estrazione sociale e culturale. Rimpiangono l’ideale non le stragi, anche se è vero che mai hanno spiegato come possa essere adattato l’ideale che essi propugnano a chi non lo propugna, se non con la forza. E i democristiani, che un giorno sì e l’altro pure, sbucano dagli attuali raccoglitori di consenso per farsi una nicchia nella quale ritornare bambini, forse hanno nostalgia degli anni in cui, ad un tempo, venivano traditi i cristiani e i cittadini – gli uni con leggi che, ancora oggi, mietono vittime già dal ventre materno, gli altri con un debito che, già dal ventre materno, pesa sul cittadino? Credo che in coscienza non possano guardare con molto orgoglio agli ultimi trent’anni. Essi, invece, ripensano ai tempi quando avevano una sola casa, anche se piena di veleni e di coltelli, e avevano una bussola, per quanto confusa fosse ormai negli ultimi decenni.
I fascisti non rimpiansero mai il fascismo, per quello che la loro coscienza di sopravvissuti aveva potuto sperimentare come errato. Non il fascismo come dittatura era il loro rimpianto – anche perché il “sistema”, che essi avversavano con un ribellismo non alieno ad influenze romantiche (nei suoi aspetti legalitari, ovviamente: per gli altri, basta il giudizio dei tribunali), faceva loro sperimentare i lati negativi del “pensiero unico” - ma il fascismo che aveva creato, in parte, la nazione; che aveva dato, in parte, identità e fierezza agli Italiani; che aveva concluso, o meglio aveva tentato di concludere la formazione risorgimentale dell’Italia; che aveva saputo dare risposte sociali ma non socialiste ai bisogni della gente. Che, va ricordato oggi più che mai, è italiana, non già tedesca o americana. Sociale fu definito il movimento che nacque da questi rimpianti.
Alleanza Nazionale, allora, vide la luce quando la nottola di Minerva spicca il volo: le sue tesi congressuali giustificavano la vita, non la promuovevano. A Fiuggi si rinnegava la maschera che si era indossata per anni, più per motivi di tornaconto elettorale che per vero convincimento, mentre già tanti italiani, con un voto crescente nel tempo e per nulla ideologicamente caratterizzato, avevano mostrato il vero volto della destra italiana. E mentre Fini pensava di compiere chi sa quale svolta storica; mentre piangeva e si asciugava le lacrime per non si sa bene che cosa, gli italiani avevano già percorso parecchie leghe di marcia, con buona pace dei suoi quattro ideologici, dei quali il più insigne, Domenico Fisichella, pur con discutibile scelta, ha lasciato la barca prima che affondasse nel gorgo del nulla, e dei suoi colonnelli irreggimentati come ragazzini alla visita militare.
Alleanza Nazionale poteva essere il laboratorio della nuova destra. Doveva esserlo. Perché, se è auspicabile che il progetto riformista lanciato a sinistra prenda sempre più corpo, lo è altrettanto che il nostro sistema politico abbia una destra nazionale, nella quale l’anima tradizionale si inserisca nel quadro di un moderno liberalismo. Un liberalismo di destra, dunque. Perché, fino a quando non sapremo con certezza dogmatica della verità delle nostre scelte politiche, è bene che più tradizioni, nella normale dialettica intellettuale ed elettorale, concorrano alla discussione razionale in campo sociale. Anche quelle più sbagliate potrebbero avere la loro parte, anche quelle che tramutano il nostalgismo in revanscismo, perché un sistema politico che fa bene il suo esame di coscienza non dovrebbe temere gli errori del passato. Già superati, e dunque nient’altro che vana immagine di un ricordo, neppure buona a spronare l’azione per il futuro.
Che sarà, invece, il Popolo della Libertà? È bene non affannarsi troppo nel trovare percorsi e dottrine: post-ideologico è l’indifferentismo il cui fine è il dominio della sfera elettorale – e solo elettorale, perché quella politica non la si può governare se non con la lucidità delle idee, e la proposizione di ideali, divisibili sì in buoni e cattivi, ma solo quest’ultimi artifici dei massacri che oggi tanto aborriamo (tranne poi esserne stati fautori quando erano in corso). Ma gli ideali sono discrimini chiari circa il loro fine (target, ormai si dice) e i loro successi. Quando un ideale non funziona nella storia, non è la storia che non lo ha capito, ma è l’ideale che non valeva. L’unico ideale che pare proporre il Partito della Libertà, 29 marzo nascente, è quella della libertà di mercato, dove l’accento è posto sul mercato e non sulla libertà, che invece può anche andare a discapitato del mercato, se il mercato non tiene conto della libertà. Poi, per il resto, l’ottimo discorso di Fini sul palco dove decapitava, in un sol corpo, la testa di tutti i suoi cortigiani, ha indicato esattamente come si comporterà il partito, quando sarà chiamato ad esprimersi sui valori: dall’anarchismo di Berlusconi si passerà al suo sentimentalismo. “Agire secondo coscienza”, cioè secondo il proprio arbitrio, le proprie sensazioni, magari influenzati dagli effetti mediatici che taluni casi assumono, e guarda caso si agirà “secondo coscienza” solo sulle questioni di più scottante importanza: la vita, la morte, la visione del mondo, ecc. Nessuno, però, dovrà disturbare il manovratore, quando egli sarà costretto da coloro che ci fanno i conti in tasca, a legiferare in materia economica o di riforma istituzionale. Tutti inquadrati, allora. Per il resto, “più variamo più valiamo”. Come se poi, in fin dei conti, non sia una questione di coscienza fare sempre e comunque, quale che sia la materia affrontata, buone leggi e votarle perché le si reputa davvero risolutive di un problema – forse no, forse non è così, dal momento che gran parte dei nostri parlamenti non vengono mai a dirci cosa fanno e cosa pensano, e quando lo fanno, tranne che sui temi sentimentalistici e sensazionalistici, non sanno che cosa hanno votato.
L’uomo del futuro è l’on. Fini: pochi dubbi in proposito. Egli è il leader (comandante, duce: il significato quello è) del Partito della Libertà che ha da venire, quando la vita o la politica seppelliranno Berlusconi. Un uomo che agirà sentendo soltanto la sua coscienza, ma che saprà farsi guidare bene su quei temi che “non sono negoziabili”: la gestione economica e il dominio politico. Per il resto, lo ha detto sul palco, la politica è una cosa, la religione un’altra, e questa deve restare nel campo privato. Dal momento, però, che nello spirito umano non c’è dualismo, non c’è scissione, ma a votare sarà sempre e comunque lo stesso uomo che, magari mezz’ora prima, sarà andato in chiesa pregare, è difficile non vedere il risorgere della statolatria, osannata da coscienze ubriache di propaganda e spronate da imbonitori. A Fini non mancano i mezzi. Neppure al suo allegro compagno di brigata, ma questi ha tuttavia il limite di aver puntato su di sé i riflettori di chi è allineato altrimenti. Limiti che Fini non avrà, sempre capace di dire la cosa giusta al momento giusto, e quando arriveranno i nodi, a svilupparli ci penserà la coscienza elastica di cui pare, a suo dire, egli sia dotato.
Il domani che ci aspetta è quello dominato da una grande massa di persone, passate dall’esaltazione pagana del sangue in salsa tedesca, all’esaltazione puttana del danaro in salsa americana. L’economico, l’utile più bieco dominerà la scena politica: ogni cosa sarà un mezzo, non ci saranno fini. O, almeno, non ci saranno fini discussi, ma imposti. Continueremo a subire l’arbitrio di chi avvelena il mercato, spacciando per creatività le sue truffe. Subiremo ancora le chiacchiere di chi non saprà giustificarsi altrimenti che con il numero di voti che ha ricevuto dalle pecore che ha tosato. Il post-ideologico, in questo senso, sarà il post-politico. Sopravvivrà solo Fini e chi, con lui, si sarà adatto: l’homo habens.
Domenica 29 marzo sarà solo l’inizio: davanti ad un riformismo della peggiore marca conservatrice, si parerà una destra illiberale e, peggio, pragmatista. Che, come tutti i pragmatismi, non darà mai indicazioni di falsificazione: agirà (secondo coscienza), e avrà sempre ragione. Vizio antico e dobbiamo dire, a questo punto, non perso come il pelo tirato ormai a lucido.
Il pragmatismo di Fini e il conservatorismo di D’Alema (diciamolo chiaro) saranno il futuro. Peggio non potevamo prospettare. Lo si diceva già nel 1996, che alla fine sarebbero rimasti loro due. Alla fine, sono rimasti loro due. Peggiorati.
Mi è ormai chiaro perché Fini, concluso il discorso al congresso durante il quale è stata sciolta AN, abbia sbuffato, come si fa, solitamente, quando si è archiviata una pratica ormai scocciante. La politica (anche se cattiva, é pur sempre politica) di cui è intrisa ancora la sua corte, e buona parte della base del partito, è un limite per il manovratore, non già una ricchezza. Ciò che, però, mi è meno chiaro, sono i sorrisi dei condannati a morte, i plausi dei suoi colonnelli, coloro che sono già superati dagli sviluppi futuri, tracciati davanti ai loro occhi dal venerato capo. Che ridevano? Che applaudivano? Canta Ciano: “Vesti la giubba e la faccia infarina. /La gente paga e rider vuole qua. /E se Arlecchin t'invola Colombina, /ridi, Pagliaccio... e ognun applaudirà! /Tramuta in lazzi lo spasmo ed il pianto; / in una smorfia il singhiozzo e'l dolor... /Ridi, Pagliaccio, sul tuo amore in franto! /Ridi del duol t'avvelena il cor!”. Nell’aria di un’opera una verità incontrovertibile. E allora forse ha ragione Fini, che i miti di una volta, i tedeschi Nietzsche, Junger, Schmitt, li ha sostituito con i ben più digeribili Mogol e Battisti.



20 marzo 2009

CIECHI CHE GUIDANO CIECHI



Il Papa, l'Europa illuminata e l'indigenza (intellettuale)



Fossero solo sordi, i grandi plenipotenziari della terra, i loro scribacchini, le loro leve lobbistiche, non sarebbero così pericolosi come lo sono per via della loro cecità. Sordi che non vogliono sentire, ma ancor più ciechi che non possono vedere. Ciechi che guidano altri ciechi, masse uniformate dal pensiero unico catodico, rese abbastanza colte per essere facilmente indottrinate, grazie alla vanagloria del saper leggere le istruzioni del nuovo iPod e dell’ultimo guru sulle colonne dei vangeli moderni, queste aziende di riciclaggio dell’Intellighenzia scaduta e scadente, ma incapaci di de-strutturare il sapere che gli imboccano e di de-mitizzare il potere che le affascina.

Mentre impazza il crollo dell’utopia individualista nel campo dove per prima ha cominciato ad agire, quello economico, le parole di amore e condivisione che il Vescovo di Roma ha pronunciato all’inizio di questo suo viaggio in Africa, e soprattutto l’attacco diretto ad ogni forma di egoismo devono essere sembrate davvero pericolose. In questi tempi più per lupi che per uomini, duranti i quali perfino il divo Obama cede alla tentazione del protezionismo e del particolarismo, strizzando l’occhio a chi chiede impiego garantito innanzi tutto agli americani, il Papa, già di suo poco gradito, avrebbe fatto meglio a non ricordare promesse fatte in tempo di vacche (presunte) grasse, quando almeno si potevano comprare gli edulcoranti – data che la minestra per l’Africa, preparata dai tanti zelanti della solidarietà nei loro studi ovali o sui palchi del loro conformismo rock, non è mai stata gran ché, frutto di avanzi e scarti riscaldati dell’Occidente opulento.

Giunto in Camerun il 17 marzo, Benedetto XVI avrà fatto impallidire i solidali del surplus, quelli che nella cassa delle offerte del tempio mettono quello che da anni hanno smesso, quando ha detto che: “Di fronte al dolore o alla violenza, alla povertà o alla fame, alla corruzione o all’abuso di potere, un cristiano non può mai rimanere in silenzio. Il messaggio salvifico del Vangelo esige di essere proclamato con forza e chiarezza, così che la luce di Cristo possa brillare nel buio della vita delle persone”. Era solo l’inizio. Un inizio che non parla la lingua dell’opportunismo politico e del conformismo culturale, ma quella, ben più vincolante, di una scelta etica che non placa il suo ardore, se non quando il male sarà stato debellato. Un inizio che non faceva ben sperare le cattive coscienze eurocentriche. Il tempo di un respiro, quello che può essere fatto davanti ad un punto, e il Pontefice continua: “Qui, in Africa, come pure in tante altre parti del mondo, innumerevoli uomini e donne anelano ad udire una parola di speranza e di conforto. Conflitti locali lasciano migliaia di senza tetto e di bisognosi, di orfani e di vedove. In un Continente che, nel passato, ha visto tanti suoi abitanti crudelmente rapiti e portati oltremare a lavorare come schiavi, il traffico di esseri umani, specialmente di inermi donne e bambini, è diventato una moderna forma di schiavitù. In un tempo di globale scarsità di cibo, di scompiglio finanziario, di modelli disturbati di cambiamenti climatici, l’Africa soffre sproporzionatamente: un numero crescente di suoi abitanti finisce preda della fame, della povertà, della malattia. Essi implorano a gran voce riconciliazione, giustizia e pace, e questo è proprio ciò che la Chiesa offre loro. Non nuove forme di oppressione economica o politica, ma la libertà gloriosa dei figli di Dio (cfr Rm 8,21). Non l’imposizione di modelli culturali che ignorano il diritto alla vita dei non ancora nati, ma la pura acqua salvifica del Vangelo della vita. Non amare rivalità interetniche o interreligiose, ma la rettitudine, la pace e la gioia del Regno di Dio, descritto in modo così appropriato dal Papa Paolo VI come 'civiltà dell'amore' ”. Dunque, l’Africa non sottomessa ai desideri della civiltà della morte, ma un’Africa rispettata per quello che è veramente, per quello che, liberamente, sceglie di essere. Un’Africa amata, radicata, non deportata. Parole che riaprono il baratro della memoria nel quale la buona società europea ha gettato i suoi scheletri, mentre negli ultimi sessant’anni è andata alla ricerca di quelli degli altri: la Chiesa, l’America, Israele, ecc. E poi, è bene non rubare la scena. È bene non ricordare che il Buon Samaritano, per l’Africa, non è colui che scrive libri e canta da star sui palchi, ma chi, una croce sul petto, ha lasciato la comodità di casa sua per costruire quella altrui. Colui che ha visto l’affamato e lo ha sfamato; ha visto l’assetato, e gli ha dato da bere; lo ha visto nudo, e lo ha vestito; straniero, e lo ha accolto. Tutte opere di misericordia corporale dimenticate dai signori del perbenismo piccolo (piccolo) borghese. Gli stessi che hanno finto di non sentire gli ultimi sei mesi di omelie papali, durante le quali il Vicario di Cristo non ha perso occasione di ricordare come l’attuale crisi, preceduta da una speculazione sui prezzi del grano mai verificatasi prima, stia mettendo in ginocchio i paesi in via di sviluppo, soprattutto il continente africano. Tutti inquadrati nel silenzio dello sfruttamento e del darwinismo sociale: si salvi chi può, e cioè chi ne ha la forza. Dove i francesi? Gli inglesi? E i tedeschi di Angela Merkel, sempre così critici verso il loro connazionale, accusato di non capire quella modernità nella quale, però, essi continuano a muoversi guardando al benessere del proprio bottino?

Tutti svegli, quando il Papa ha detto, in appena un rigo e mezzo, che il profilattico non può essere la soluzione del problema dell’epidemia di AIDS nel continente africano. Allora sì che si sono aperte le cateratte del cielo, e la mano del grande architetto ha scritto la condanna contro la bestemmia al primo – e al solo – dei comandamenti che ormai l’uomo occidentale rispetta: io sono il geometra tuo dio – inquadrati! Ecco che la (sempre) Medesima Novella è stata annunciata su Le Mond e il New York Times, gli apostoli del signore dei lingotti hanno annunciato l’anatema: profeti del giorno dopo, davanti al puzzo di un marcio mercato si sono turati il naso, ma che ora lo storcono – senza dire peraltro il perché – se uno va contro il loro semplicistico modo di risolvere i problemi. Quelli altrui, ovviamente, perché al proprio pongono particolare interesse.

Allestito il teatrino per attori senza autore, canne storte battute da un vento verso il quale sono andati incontro allegramente – rinchiusi nella villa della loro mediocrità, tra sollazzi ed indecenza, lasciando che a spartirsi il sangue della gente fossero i loro veri padroni – non hanno perso l’occasione per sviare l’attenzione dal fallimento che amaramente stiamo pagando. Eccoli lì, vecchie puttane che si atteggiano a candide anime da confessionale, predicare il verbo della risoluzione: c’è da fare questo, dicono; fare quest’altro è sbagliato, aggiungono. Ma può una classe politica dominata dalla miopia in casa propria, giudicare i fatti di casa altrui?

Ecco la Spagna zapatista, che in appena cinque anni ha sperperato l’espansione economica degli ultimi decenni. Ecco il paese dei diritti civili, della difesa dei popoli africani contro l’oscurantismo clericale. Ecco il paese che paracaduta un milione di preservativi su popolazioni inermi, dopo averle prese a cannonate appena giunte in direzione delle sue rive. Perché questo è la Spagna: ciò che neppure i più deliranti tra nostri leghisti hanno mai fatto. E dobbiamo dire che sono Francia, Belgio ed Inghilterra per un continente che li ha conosciuti come suoi carcerieri?

In Africa non giunge l’eco del ridicolo. Sono in festa perché hanno il Papa. In Italia, che al ridicolo ci hanno abituati da tempo, nessuno si è fatto scappare l’occasione. Dall’ex ministro della Sanità, che aveva rassicurato sulla non pericolosità di un’assunzione sporadica di ecstasy (sic!), al Robin Hood degli spiccioli, che vorrebbe rubare ai ricchi per dare ai poveri 4,50 euro al mese – una misery card, davanti alla quale la carta del governo fa un figurone da nababbo: per tutti il Papa “non ha ben chiara la situazione dell’Africa”. Che, detto da chi non ha ben chiaro neppure quella dell’Italia, suona come l’ennesima prova della spocchia di cui solo gli sciocchi sono capaci.

E poi, che avrebbe detto di così scandaloso il Papa? Che non serve mettere il casco se non sai guidare. Tutto qui. Sbagliato? Sbagliato evitare promiscuità – la stessa che nei salotti bene vale la separazione con l’addebito di un ricco assegno di mantenimento? Sbagliato educare ad un cosciente e coscienzioso approccio con il sesso? Avere un preservativo in tasca non serve a nulla: fosse così semplice, un paio di Zapatero e avremmo risolto il problema. Nella civile Spagna la gente continua ad ammalarsi di AIDS, nonostante sia presumibile, dall’abbondanza con cui lo spargono nel mondo, che gli spagnoli sappiano cosa sia un profilattico.

I progetti che hanno ottenuto i migliori risultati sono quelli incentrati, innanzitutto, sull’astinenza, sulla fedeltà, e sì, quando ce n’è bisogno, in casi particolari, anche sul preservativo: il problema non è il virus dell’HIV, ma i comportamenti sessuali che ne permettono la diffusione. Ricordarlo però è inutile: l’Africa di cui parlano gli europei è l’Africa che essi vogliono che sia, l’Africa del milione di profilattici ma dei milioni di malati, a cui gli attenti giornalisti e i misericordiosi politici del vecchio ed opulento mondo non sanno dare altre speranza, che quella di morire senza assistenza sanitaria, ma sommersi di lattice fino al collo. Perché anche questo ha chiesto il Papa, che i malati di AIDS abbiano cure gratis. Anche questo ha detto, ma il milione di profilattici, riproposizione in salsa socialdemocratica del vecchio slogan dei milioni di posti di lavoro, oggi alquanto scarsi, è assai più economico come progetto e meno impegnativo come promessa.

La vita, la morte, la sofferenza: temi di soggetti su cui costruire il brogliaccio della prossima recita. Tutto ormai è teatro, dove la maschera sale sul palcoscenico per raccattare qualche applauso dall’ultimo drappello di annoiati spettatori. Chi, in coscienza, crede più in questi figli della ipocrita borghesia illuminata? Eppure ci si intruppa, magari reclutati non più dagli arlecchini della politica ma dai pulcinella dei media. Chi non vuole vedere e chi non vede proprio. Imbelli elettori di imbecilli eletti. Sperando, ciascuno nel profondo del proprio cuore, che il baratro non sia al prossimo passo.

17 marzo 2009

8 marzo 2009

LETTERA AD UN'AMICA "DUBBIOSA"



Ma noi che siamo qua, vivi, che camminiamo che possiamo scegliere cosa è giusto e cosa è sbagliato per noi, come possiamo pretendere di sapere cosa voleva Eluana? Cosa ne sappiamo di ciò che ha passato e passa tutt'ora la famiglia di Eluana? Siamo ipocriti, è facile giudicare stando dietro lo specchio, noi guardiamo, ma non ci può toccare noi non sappiamo.

Chi siamo noi per dire è un omicidio, quando chi commette barbarie, come gli stupri o altro tipo di violenza, lo lasciamo in pace?
Smettetela con questo buonismo, è facile giudicare, provate a vedere cosa vuol dire avere un famigliare in quelle condizioni per 17 anni, provate a chiedere a quelle famiglie che non possono parlare cosa vuol dire avere un famigliare che non c'è più da anni????
La società fa schifo, ma siamo anche noi società, siamo noi che permettiamo che programmi come il grande fratello esista, quindi non stiamo a lamentarci e a non farci nulla. Inoltre sia a destra che a sinistra in questo tragico evento si sono fatti in 4 per apparire e farsi pubblicità, quindi non diciamo che sia stata una parte della politica, c'era chi voleva sovvertire la costituzione!!!!!!
Ciao Antonio.

***
Cara Mafalda,
sono i molti impegni che impediscono di dare risposte il più esaustive possibili ad interrogativi impellenti come i tuoi, non certo l’accusa di ipocrisia a chi, forse, non sa bene che voglia dire avere un famigliare nelle condizioni di Eluana, ma ben ricorda il dolore di chi, per tre anni, venne roso dal cancro, quando ancora le cure contro il dolore erano limitate all’uso della morfina. È bene lasciare perdere le questioni umorali, cara Mafalda, perché il vissuto di ogni persona è privato. Almeno fino a quando, ed è questo il punto in questione, non vengano investite le istituzioni democratiche di questo Paese a diramare i dubbi che, fino a qualche decenni fa, erano i drammi e le afflizioni della coscienza.
Non possiamo fingere che un problema non ci sia. C’è, invece. E siccome, grazie a Dio, o al Progresso, o alla Mente Umana – insomma, siccome ci ritroviamo in una condizione in cui la medicina salva, ogni giorno, migliaia di vite umane, non possiamo dimenticare che, in questa lotta contro la sofferenza e la morte, qualcosa non va sempre come deve andare: ieri si moriva di arresto cardiaco; oggi, invece, la rianimazione ha fatto, più che passi, direi balzi avanti, tanto che, se si agisce tempestivamente, ci sono ampie possibilità di salvare la vita, in se stessa, e la qualità che, prima dell’accaduto, le era propria. Buttiamo il bambino con l’acqua sporca? E così vale anche per altri campi: dalla lotta ai tumori a quella dell’AIDS, si sono registrare vittorie che fino a ieri credevamo impossibili. La qualità della vita dei malati terminali è sempre più migliorata, mentre non mancano speranze per il futuro, anzi.
Davanti a tutto questo, possiamo reagire in due modi: rinnegare il progresso o abdicare alla nostra responsabilità. In entrambi i casi, sterilità. Ecco tutto. Perché nessuno di noi vorrebbe che la medicina non facesse progressi, anche se poi, nell’operare, può non sempre garantire il massimo risultato: salvare una vita, e la sua qualità precedentemente acquisita; perché nessuno di noi sosterrebbe – almeno spero – che il solo fatto che qualcuno creda giusto l’agire in un modo rappresenti una buona ragione per modificare il diritto e, con esso, il nostro essere societas.
Ora tu chiedi: chi siamo noi per decidere in casi di questo tipo? C’è un fatto preliminare che va considerato: l’essere umani comporta, di necessità, la considerazione del fatto che non si viva in una solitudine assoluta. Forse, neppure sul cocuzzolo della montagna si è mai soli, e c’è sempre una società a cui, anche appena nati, facciamo riferimento per vedere garantita la nostra dignità. Gettarla alle ortiche, non appena i conti tra la nostra volontà e quella altrui non tornano, non mi pare un buon modo di agire. Ma fin qui, de iure.
De facto, cara Mafalda, la faccenda è molto più semplice: noi siamo quelli interpellati direttamente, e legalmente, dalla famigliare Englaro e, in barba ai tuoi dubbi, quelli che de facto hanno deciso. Perché la decisione c’è stata, ed è venuta da una sentenza pronunciata “nel nome del popolo italiano”: dunque, tu ed io, in quanto cittadini, non siamo meno responsabili di chi quella decisione l’ha presa di fatto e scritta di suo pugno.
Tuttavia, siccome oltre al diritto c’è la morale, cioè l’agire più intimo dell’uomo che mira all’universalità razionale, non posso sottrarmi ad alcune considerazioni.
La prima cosa che si può dire, è che essere congiunti di un malato non rende più abili alla decisione, semmai meno lucidi: gli aspetti affettivi prevalgono, e se pure si vuole fare il bene, a volte si agisce male. Non è un arzigogolio retorico, per far salva la mia opinione e la dignità del padre di Eluana; semplicemente, mi pare buon senso ammettere che chi si trovi dentro una situazione così tragica può non mantenersi sereno nelle scelte. E tanto è vero ciò, che già dalle tue parole emerge una verità agghiacciante: non sappiamo che voglia dire avere un congiunto in quelle condizioni. Vero - grazie a Dio! ed è altrettanto probabile che la famiglia Englaro non pretendesse che a decidere fossero persone nella loro stessa condizione, anche perché in quel caso, forse, l’epilogo sarebbe stato diverso: tremila famiglie che chiedono allo Stato non un’autorizzazione legale per farla finita, ma un sostegno economico per continuare (che lo Stato si guarda bene dal dare). Il padre di Eluana ha chiesto ad un tribunale, e basta ciò a dimostrare che, anche per chi si trova in quella condizione, vale il principio della giustizia più che del com-patimento. Però mi chiedo: basta la sofferenza di una famiglia per decidere della dignità di una vita? No, risponde la sentenza della corte d’appello di Milano, che in sessantatre pagine si occupa di tutto, passando dal diritto costituzionale alle neuroscienze, senza mai accennare al disagio della famiglia per la condizione della figliuola. E lo stesso Englaro, in interviste ed ora, nonostante la richiesta di silenzio da lui stesso avanzata all’opinione pubblica, anche in collegamenti telefonici con manifestazioni politiche ed in interviste ai giornali, non ha mai fatto accenno ai sacrifici suoi e della sua famiglia per accudire Eluana, bensì alla volontà stessa della giovane: insomma, non ci si voleva liberare di Eluana, ma liberare Eluana – che è assai diversa come cosa, almeno nelle intenzioni della famiglia. Che, in questi anni, si è vista aiutare – non poco!- dalla suore Misericordine.
La sentenza affronta tre problemi. Il primo: Eluana sarebbe presumibilmente d’accordo? Sì, dicono i giudici. E come motivano la loro opinione? 1) Eluana ha espresso una tale opinione 2) a tre sue amiche, ed inoltre 3) non ha mai mostrato comportamenti od opinioni contrastanti con questo indirizzo: cioè, in soldoni – lo trovi scritto nero su bianco nella sentenza – Eluana non era una cattolica praticante. Ora, al di là del fatto che è una emerita baggianata legare scelte così gravi ad un’unica cultura –infatti, se esistono cattolici a favore di talune pratiche, perché non dovrebbero esserci non credenti sfavorevoli? – cosa vuol dire essere praticanti? Quando una religiosità può dirsi praticata? Domande che non troveranno risposte. Come un’altra, che mi pongo: bastano tre testimoni per decidere sulla volontà presunta di un soggetto? Se mio nonno avesse, sul letto di morte, lasciato il suo patrimonio a me, dicendolo apertamente – e già qui c’è qualche differenza di intenzioni – a tre testimoni, pensi che i miei cugini non avrebbero abbastanza materiale per impugnare … ? E impugnare cosa, del resto? Dovrei essere io a dimostrare le ultime volontà di mio nonno. E, anche se non per esperienza diretta, posso dirti che è davvero difficile avere ragione nella prassi giuridica. Infine, c’è un domanda, su questo primo punto, che mi assilla: se in Italia si ottiene il diritto al voto, quello di firmarsi da soli il libretto delle assenze e la patente di giuda al compimento della maggiore età, è possibile accordare il diritto alla morte a soggetti le cui intenzioni si sarebbero formate e sarebbero state espresse “negli anni del liceo”?
Andiamo avanti. Secondo problema: la legge italiana. Non troverai, cara Mafalda, neppure un codicillo che permetta quello che è accaduto con Eluana Englaro. E allora? Come è stato possibile? Lo protrai leggere nella sentenza, dove i signori giudici hanno mostrato tutta la loro propensione all’ermeneutica. Perfino la Costituzione è stata un poco strapazzata – questo è vero. E non solo dalla sentenza. Ma anche da chi non firma, a causa di non meglio specificate motivazioni, i decreti legge che ricadono solo ed esclusivamente nelle responsabilità del governo. Poco mi importa di quali siano state le ragioni che hanno spinto un presidente del consiglio, dichiaratosi in campagna elettorale anarchico sui valori, a prendere quella scelta – che era, beninteso, non già quella di bloccare una sentenza, ma di legiferare su materia ancora non coperta dal diritto! – e molto meno mi importa di quello che dicono i manifestanti adoratori di carta: essere in piazza a combattere un reato che non esiste, o guardarsi in santa pace un reality non credo faccia molta differenza. Niente in un caso, niente nell’altro.
Ho espresso, in una mia lettera al Presidente della Repubblica, le mie perplessità, molto prima che alcuni ex presidenti della Corte Costituzionale, docenti di diritto, giudici, magistrati, ecc., prendessero la parola per dire, imbarazzati, che forse il Quirinale “non era stato consigliato bene”. Certo, non conosco il diritto costituzionale, ma mi consola il fatto di essere giunto a determinate considerazioni che altri, e sulla base della propria esperienza e formazione, hanno sottoscritto.
Infine, il terzo problema: in che stato versa la coscienza di Eluana Englaro? Cara Mafalda, posso non avere conoscenza del diritto, e forse molte mie argomentazioni possono anche essere tacciate di bigottismo, ma aspetto ancora che mi si smentisca su un fatto, e cioè che l’attuale panorama delle neuroscienze e della filosofia della mente respinga una bieca assimilazione della mente al cervello. Quello che è stato fatto dai signori giudici, i quali, fra l’altro, citano un solo articolo scientifico. Questo non vuol dire che, alterato il cervello, la coscienza rimanga inalterata, ma solo che il cervello non è tout court la mente del soggetto. Al che, viene da chiedersi: quali funzioni deve espletare una coscienza per rendere degna una vita? Quanta coscienza, insomma, è necessaria perché possiamo ancora considerare vivi taluni soggetti afflitti da quelle che, fino a ieri, questo Paese considerava gravi menomazioni? Attenzione alla risposta, però: è possibile incorrere in imbarazzanti ricorsi storici.
Cara Mafalda, come vedi non si tratta di ipocrisia, ma di problemi non risolti. E soprattutto di deserto etico. Perché non è etico non decidere e, in effetti, non si smette mai di decidere. Solo che, in taluni casi, la scarsa preparazione, se non il dolo, della classe politica, di quella intellettuale e dei mezzi di informazione porta a sottovalutare l’importanza di quello che c’è in gioco. Ormai la società è come un reality – hai ragione. Una grande esplosione di egocentrismo, che corrode ogni giorno le millenarie strutture che questo Occidente ha costruito a partire dall’antica Grecia. È questo quel che temo di più, questo indifferentismo, questo individualismo sfrenato che porta al crollo di ogni struttura che non sia l’egoicità dell’individuo. Dobbiamo imparare a sacrificare un poco di noi per avere garantito quel poco che ci rimane. Perché, del resto, se non c’è più una società legittimata a decidere, allora dall’economia alla morale non c’è altro che deserto. Quel deserto che noi stiamo pagando – e per fortuna che si tratta di lavoro. Perché ormai è resa disponibile alla nostra egocentrica manipolazione pure l’intima dignità umana. Il che è peggio.
Ci sono cose che sono da considerarsi sacre. La vita, cara Mafalda, è un bene sacro. Sacro non nel senso di divino, ma nel senso di intoccabile, indisponibile anche al soggetto che la vive. Non è proprio un’idea balorda, quella che esprimo. Pensa: nessuno di noi può vendere un rene per pagarsi da vivere, né il proprio sangue. E nessuno di noi può alienare la propria libertà, sottomettersi a schiavitù per proprio volere. E perché? A che serve la libertà senza i mezzi per viverla? E perché nessuno di noi può fare della propria vita quel che vuole? Eppure, in questo residuo di intelligenza, la nostra cultura (civiltà) dimostra tutta la sua lungimiranza, l’intelligenza del reale maturata in millenni di riflessione. Perché non si può alienare ciò che, poi, giustifica il resto: non puoi risparmiare sulle fondamenta della casa, per poi comprarti un cesso griffato e in madreperla. Non avrebbe senso. Sul nulla non puoi costruire nulla. Non puoi godere di un bene se non hai riconosciuta la dignità di poterlo fare. Gli uomini, nella loro caduca vita, possono anche essere costretti, per necessità personale o coercizione esterna, ad agire in taluni modi: si pensa – e, a questo punto, dobbiamo dire che siamo stati un tantino troppo ottimisti! – che una societas sia in grado, anche apparendo nel momento invadente circa la sfera personale dell’individuo, e in dovere di mantenersi cosciente, anche per chi, in talune circostanze, non può esserlo. Ovviamente, non deve intervenire in tutto, ma solo in quelle scelte che negherebbero il resto delle scelte possibili. Tutto qui.
Questo modello ha funzionato per millenni. Ora, è messo in dubbio. Ieri c’era la polis. Oggi, il deserto. Dove ognuno è solo con se stesso. In questo senso parlo di deserto. Nel quale, magari, ciascuno potrà coltivare le proprie aiuole, e far nascere un nuovo Eden, ma del quale godrà da solo e, dunque, in ultima analisi non ne godrà affatto. Scriveva Cesare Pavese: “Perché questo è l'ostacolo, la crosta da rompere: la solitudine dell'uomo - di noi e degli altri”.
Chiediamoci cosa sia cambiato in neppure mezzo secolo.

Con l’affetto di sempre.

Antonio.

PS. Sulla questione dei malfattori non ho risposto perché è un discorso da fare a parte, che esula dalle considerazioni espresse in questo.