"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

31 maggio 2008

PER LA VERITA'. RELATIVISMO E FILOSOFIA



Diego Marconi, Per la verità. Relativismo e filosofia, Einuadi, Torino 2007, pp. IX-172.

Recensione pubblicata su Laòs XV (2008), 1-2, pp. 190-192.

L’autore è ordinario e docente di filosofia del linguaggio all’università di Torino, dove si è laureato nel 1969 sotto la guida di Pareyson e dove è tornato dopo aver arricchito i suoi studi in diverse università straniere. Di questo peregrinare gli è rimasto un metodo, o come si suole dire uno “stile” di argomentare tipico dei filosofi di orientamento analitico, e tuttavia Marconi si confronta in questo testo con il tema cardine di ogni speculazione filosofica: la verità.
Suddiviso in tre capitoli – “La verità”, “Relativismi”, “La paura della verità” – il lavoro nasce dalla revisione delle lezioni tenute nel 2006 al Dipartimento di Filosofia e teoria delle scienze dell’Università di Venezia.
Marconi ci dice che quando si afferma qualcosa su “come stanno le cose del mondo” non si recita a soggetto, perché avanziamo una pretesa “ a cui è impossibile rinunciare: così funziona il nostro concetto di verità”(p.7), il cui “nucleo del suo funzionare” Tarski ha identificato con il principio: è vero che P se e soltanto P. Non c’è alcuna differenza, infatti, tra cercare la verità e accertare i fatti, ma ve ne può essere una tra asserzioni vere e asserzioni giustificate. Marconi distingue tre sensi di “giustificato”: 1. un’asserzione è giustificata perché è argomentata, “vere, false o deliranti che siano le sue premesse”; 2. Un’asserzione è giustificata perché “derivata in modo convincente da premesse plausibili”; 3. “Le autentiche giustificazioni comportano la verità delle preposizioni giustificate” (p.12-13). Tuttavia, come scrive più avanti l’autore, “qualsiasi concetto di giustificazione” presuppone quello di verità (p.21): infatti, perché una proposizione dovrebbe dirsi giustificata? Rispetto a cosa lo è? In base alla nostra capacità di trovare argomentazioni? Ma allora quale sarebbe la differenza tra la scienza e la mera sofistica? O in base al suo funzionare quando viene usata? Ma in questo caso, funzionare rispetto a quali parametri? E soprattutto, scelti da chi?
La ricerca della verità è stata drammatizzata per diversi motivi, scrive Marconi. Innanzi tutto, c’è “confusione tra conoscenza e certezza”, perché è vero che non possiamo escludere che, in futuro, avremo buone ragione per abbondare alcune delle nostre credenze. Tuttavia lo scetticismo è proprio qui che si insinua, “nell’idea che nessuna giustificazione è tale se non è dimostrabilmente capace di resistere a ogni obiezione possibile”(p. 32). Ma “la possibilità di una ragione non è una ragione” (p.36), e lo scetticismo spinto oltre la naturale prudenza finisce per assumere i caratteri di un’ansietà patologica: questa paura di qualcosa che deve accadere, ma che non si sa cosa e quando. Inoltre, si drammatizza la ricerca della verità perché “ le verità che vengono dichiarate inattendibili riguardano questioni estremamente controverse” (p. 35).
Nel secondo capitolo Marconi affronta il problema del relativismo. Ne distingue due tipi: quello epistemico, per il quale “quelle che chiamiamo ‘conoscenze’ dipendono da criteri di accettabilità che non sono, a loro volta, giustificati né giustificabili “ (p. 52), e quello concettuale, e cioè “la tesi che un modo in cui le cose stanno dipende da una concettualizzazione: non esiste se non per via di quella concettualizzazione” (p. 64). Mentre il primo è, secondo l’autore, una “posizione filosoficamente rispettabile”(p. 53) e che non “riguarda la verità” (p. 153), il secondo invece ha implicazioni controintuitive. Marconi fa l’esempio del sale, che anche prima della concettualizzazione chimica era cloruro di sodio. Lo era anche nell’età dell’uomo omerico, con l’unica differenza che questi “non aveva accesso a quella verità”.
Infine, nel terzo capitolo l’autore affronta il tema del pluralismo. Essere pluralisti, per alcuni, ha significato abbracciare il relativismo. Ma ciò comporta un salto logico. Marconi distingue tre tipi di pluralismo: 1. “Dei cento fiori”, cioè l’accettazione benevole dell’esistenza “di molte alternative tra cui scegliere”, ma che non comporta alcuna posizione relativistica, in quanto “ per apprezzare l’esistenza di molte alternative non è indispensabile pensare che abbiano tutte lo stesso valore”; 2. “dell’equivalenza”, e cioè la tesi per cui le alternative hanno tutte lo stesso valore, ma che non dice che un’alternativa ha valore per alcuni e non per altri; 3. Il soggettivismo nichilista: “Non ci sono… né valori né scelte di valore, ma solo fatti e preferenze” (p. 155). Che può sembrare una scelta opportuna e di buona maniere, sedendo alla tavola della multiculturalità odierna, ma che alla lunga mostra la propria cafonaggine: “Se sono oggettivista [cioè “ i valori sono quelli che sono, indipendentemente dal fatto di essere riconosciuti da chicchessia” ], posso pensare di poter sbagliare: magari i loro sono autentici valori, ma io non me ne rendo conto. Se invece sono soggettivista, questa strada mi è preclusa: non ci sono altri valori oltre a quelli che io riconosco”. Che è poi la posizione del superuomo nicciano, ormai improponibile e sostituita dalla figura del dandy politically correct, per cui l’altro non esiste in sé, ma come proiezione del mio sé: dunque, all’inquietudine della verità si preferisce la quiete dell’indifferenza, acquistata tramite un banale e illogico riconoscimento di dignità a ogni altra posizione che non leda la mia, e che anzi implicitamente la giustifichi.
Il confronto non è salutare se la conclusione è quella che aprioristicamente abbiamo fissato essere la migliore, ma lo è solo se è stato svolto con argomentazioni razionali e serie: “Il confronto – scrive in una bella pagina Marconi – è inevitabile: la scelta è soltanto tra un confronto serio, fondato su conoscenze, e la chiacchiera multiculturale, basata su aneddoti, impressioni e pregiudizi. Se l’esito del confronto sarà la sostanziale equivalenza delle società e delle culture, tanto meglio; ma la tesi dell’equivalenza intesa come rifiuto aprioristico della discussione sui meriti rispettivi delle diverse società appare gratuita e indifendibile, motivata dalla paura delle conseguenze più che da ragioni filosofiche, antropologiche o di altro genere” (p. 100).
Un approccio scientifico al tema della verità, che non cede alle mode del momento – dimostrando anche perché, e anzi mostrandosi più tollerante dei tanti tolleranti di maniera. Segno che l’unica via di dialogo, proprio in una società postmoderna come la nostra, può essere costruita con la più antica facoltà, la ragione umana, di cui l’uomo abbia fatto esperienza.

13 maggio 2008

PENSIERO XXXII


Studio è la fatica con la quale veniamo in possesso dell'esperienza altrui.


12 maggio 2008

FRAMMENTO II. Destino e potenzialità

Il destino non esiste. Ce lo siamo inventati noi. Avevamo qualche debito con le vicende dell’umana fortuna, e il nostro spirito non era così forte da assumersi il peso del proprio futuro. Ci siamo inventati così l’ennesimo capro espiatorio su cui far pesare la nostra incapacità di vivere o quella di sopportare la delusione del fallimento. Perché vivere è difficile, e lo è perché non possiamo mai mentire a noi stessi. In fondo alle nostre viscere, c’è qualcosa che si muove e non ha pace: questo tribunale, riflesso di quello divino, nel quale la Verità, la Giustizia e la Grazia si scontrano col verosimile, l’accadimento e il peccato. Ed è una battaglia casa per casa, senza tregua, e senza via d’uscita che non la vittoria finale o la sconfitta perenne.


Non possiamo celarci a noi stessi. Al gran ballo del mondo possiamo presentarci bardati come pirati, che entrano nell’altrui vita e la saccheggiano impunemente, lasciando il vuoto più che il dolore lì dove si sono mossi i passi dell’iniquità; possiamo indossare le vesti del principe azzurro, l’uomo che non ha macchia perché si guarda bene, ogni volta che esce di casa, dal mostrarle in pubblico; possiamo, infine, scegliere bene la cravatta – e già sarebbe una gran conquista del buongusto – e trovare la giacca che più si addice all’ennesima occasione che abbiamo di venderci bene, al prezzo più alto, contando sull’incuria altrui per i propri affari, perché in un mercato non si ha voglia di spendere bene, ma di comprare tanto, e ogni cosa è un pezzo, ed ogni pezzo ha un prezzo; perché l’unico fine del pezzo è la vendita. Quando si è in stato di necessità, e non si vuole uscire dal mercato, quello che è importante è avere un prezzo, non già avere quello giusto, ma uno qualsiasi. Essere sulla piazza dà valore.

Ma non possiamo mentire a noi stessi. Perché non esiste nel tribunale della coscienza il silenzio artificiale dei nostri luoghi di riposo, dove passiamo in un’atona pace dei ritmi quei pochi giorni che riusciamo a non farci sottrarre da quella nostra superbia, che ci spinge a credere che l’operaio durerà infinitamente di più dell’opera. Le cose passano meno velocemente perché hanno brillato meno intensamente dell’uomo. Non è vero che esiste il silenzio, almeno non nel senso assoluto: esiste, invece, in modo assoluto la parola. E ne esiste una, che è come l’eco primordiale, il rimbombo della messa in moto dell’universo: qualcuno ha innescato la bomba. Lo stesso che ci ha gridato dentro la vita. Smetteremo di udire quando smetteremo di vivere. E non è detto che smetteremo anche di percepire suoni. Ma una vita che percepisce solamente suoni è carne irrorata di ossigeno. Non rimanderà più l’eco dell’infinito. È morta.

Se fossimo davvero coraggiosi come dicono le nostre belle foto riboccanti di muscoli e stampigliate sui rotocalchi da spiaggia; se davvero a tanta presunta forza corrispondesse altrettanta vera virilità, affronteremmo la verità come in un’arena, giocandoci la partita con la realtà fino all’ultimo spasimo. E invece ci siamo rinchiusi nel più ottuso di tutti i sistemi, e alla sinfonia della Giustizia preferiamo i monotoni effetti acustici della parzialità: lì dove non ha luogo il dibattimento, c’è solo spazio per l’adulazione. Essere assolti da sé medesimi è davvero quanto di più facile riesca all’essere umano. Ma è ancora un essere umano colui che si assolse, o solo l’ombra biologica di uno spirito ormai in putrefazione?

Un’anima viva è un’anima che non ha requie, perché non qui, non ora ci tocca acquietarci. Non ha, infatti, che frammenti di vita, e la vita dell’anima è la verità. Solo quando il mosaico è totalmente composto, tanto da non essere più neppure la perfetta giustapposizioni di una miriade di pezzi, bensì una forma che ha impresso se stessa nello spazio circostante e nella mente di chi la vede, allora l’occhio coglie il tutto e di questo si sazia completamente, mentre va qui e va lì per trovare ancora quello che manca alla sua soddisfazione, quando il tutto è solo frutto di un’intuizione che si chiama speranza. Così, quando un uomo vuole mentire a se stesso, la sua anima si ribella al veleno che vuole farle bere, come la vita lotta contro la morte, e fugge la notte al primo chiarore dell’alba. Un raggio, pur debole, squarcia un velo enorme di tenebre.

Un uomo vivo non può mentirsi. Deve essere comunque sopraggiunto un qualche tipo di morte, perché la menzogna sia perfettamente assimilata dall’anima. Altrimenti, è solo un’altra voce della realtà, anzi la più forte, che urla giorno e notte e non lascia assopire il malcapitato, che credeva di farsene beffa. L’alba è una verità partorita dopo una notte di menzogna. La sofferenza coltiva la nostra parte migliore: peccato che poi sia l’indifferenza, il più delle volte, a raccoglierne il frutto. Fosse il coraggio – di ciò abbisogniamo davanti al reale stato delle cose, non già di sempre maggiori gradi dell’intelletto, ma di immense virtù etiche, perché ciò che è gode di un’evidenza, che il nulla non riesce a conquistare neppure facendosi partorire dalle menti più strampalate – allora un mondo nuovo, più autentico, ci si parerebbe innanzi, e perfino la sofferenza, che nell’immediato davanti alla vita assume le sembianze della falsità, ci apparirebbe come una verità appena accennata.

La cattiveria non è da tutti, ma la pusillanimità ci si avvicina. Si può non mentire, e tuttavia non avere il coraggio di dire la verità, anzi. La verità è l’unico lusso del quale, chi non vi ha rinunciato ancora del tutto, quanto meno ne fa dono agli altri con molta generosità. Mai che si trovasse in tali casi un eccesso di egoismo. La verità è la cauterizzazione del peccato originale. La verità è grazia che sana. Ma è una salute per la quale si prega poco. Anche perché in pochi credono di deficitarne.

Davanti al fallimento, all’errore, alla viltà, l’uomo indossa la maschera del predestinato, che si confà a ricchi e poveri, credenti e non, intellettuali d’alto rango e mezzo tacche della penna. Non stupisce tanto che vi sia un destino, ma che ne sia possibile la lettura prima della sua stesura: ciò distingue una sincera credenza, anche se errata, da una ridicola pantomima. Ed è in questi casi, che pure l’uomo più miscredente tira fuori, dopo averla apostrofata con la bile del demonio, la santa mano di Dio. Che non si vede perché avrebbe dovuto darci tanta libertà da poterci permettere non solo di dare la morte alle nostre anime con la menzogna, ma addirittura di bestemmiare il suo santo nome, per poi tirare i fili di questo teatrino che mettiamo su con tanto zelo. Dovremmo essere più umile: non è necessario scomodare un regista come Dio per dirigere un filmetto come quello che l’umanità gira da non si sa quanti secoli. Basta guardare i canovacci che stendiamo ogni giorno con le nostre illusioni, le nostre frenesie, il dolo, la falsità, la vanagloria, la lussuria… il resto lo recitiamo a soggetto. Il pensiero della complessità non riesce a cogliere questa fitta trama, e di tanto in tanto, quando conviene, si ritorna alla vecchia e vituperata metafisica, e si tira dalle cianfrusaglie, e a sproposito, il Padreterno. Che può anche essere un padre un po’ troppo ansioso per la sorte dei suoi figli, anche di quelli tanto cretini da scambiare per ingerenza divina, la correzione che porta frutto, e il consiglio assordante che farà traboccare copiosi beni avvenire. Ma non è certamente un burattinaio. Un uomo intelligente non è sempre un uomo del tutto avveduto, giacché ciò che per Dio è, per l’uomo è solo possibile. I bimbi tendono sempre a svincolarsi dalla mano dei padri, e gli adolescenti gli si ribellano con tanto vigore quanta è la stima che nutrono per loro. Ma viene un momento, quando si è abbastanza più alti del caos degli eventi nel quale si è vissuto, che l’ardore dell’adolescente tramuta nella riflessione del giovane, dell’uomo maturo, che non vede più i fili e le cuciture, ma la parte iniziale di un bel arazzo. Allora Dio pare non usi più – non abbia mai usato la sua santa mano per incatenarci lontano dal telaio, ma per farlo andare comunque avanti quando eravamo troppo stanchi del lavoro, troppo delusi per i risultati parziali, poco fiduciosi per quello finale.

Non è necessario far capire il senso delle cose ad un imbecille perché si salvi: un anziano padre domenicano, tra un pezzo di formaggio e un tozzo di pane, sciorinò la sua teoria sui sacramenti e la salvezza come faceva scivolare il vino novello nel bicchiere: “sapete a cosa servono i sacramenti?” chiedeva intercalando parole e sorsi, e quando gli si rispondeva esattamente, e cioè che rappresentano la via ordinaria alla salvezza, egli aggiungeva tra il serio e il faceto – ma un domenicano è più pericoloso nel secondo caso, il francescano nel primo:”E Infatti ne esistono otto! Già otto, perché l’ottavo Dio ha pensato bene di non farcelo conoscere, sapendo di cosa sia capace la nostra boria. Ma esiste, credetemi, esiste davvero: è l’ignoranza”. I domenicani sbagliano qualche volta in meno di Dio, perché troppi parsimoniosi della verità: l’unico ordine della Chiesa capace, con parole e sofismi, di declassare i suoi sacerdoti da padri a frati, e spacciare tutto questo per una conquista dello Spirito. Dio, invece, qualche errore se lo permette per eccesso d’amore, e perfino l’idiota, che preferirebbe alla manna dal cielo uno sconto al botteghino della balera, finisce per avere anch’egli l’opportunità di essere messo a parte del vero.

Se il destino esiste, però, non è stato creato da Dio: non esiste in Lui niente che ha da venire. È tutto lì, in un attimo, anzi l’attimo stesso è troppo grande, un’infinità che accoglie più di quanto l’intera storia umana potrà mai produrre. No: tutto è il fulmineo balenare del tutto stesso in Dio. Tutto si è compiuto, in quanto dipanarsi logico, nella mente di Dio, prima che il prima e il dopo fossero. Pensati in Dio, abbiamo amato, creduto, pensato, agito, e pure scelto già in Lui, e dopo nella storia. Ma è un prima, questo, e un dopo impregnato non già del carezzevole odore di incenso del sacro, bensì dell’agre lezzo di sudore dell’umano. Dio ha pensato noi – ci ha creati così – ha pensato la libertà, l’amore e le leggi. Il resto è tutta farina del nostro sacco. Che possiamo macinare bene o lasciare marcire in magazzini colmi di disinteresse; possiamo disperdere al vento, o impastare il pane della vita.

Quello che chiamiamo destino nient’altro è che la realizzazione piena di ciò che siamo. Il passaggio dalla potenza del talento all’atto del guadagno. Noi non possiamo fuggire a noi stessi. Questo siamo, e non dovremmo vergognarci di ciò che siamo, ma di ciò che vogliamo essere. Dobbiamo essere pienamente ciò che siamo potenzialmente. Ogni altro desiderio, ogni altra aspirazione che non sia questa – essere ciò che abbiamo in destino di essere – è uno scadere verso la dannazione. Che non brucia chi sa dove in un tempo sempre più lontano di quanto non lo sia poi davvero, ma che ci affligge e ci tormenta qui ed ora. Dio vuole solo aiutarci a trovare la strada. Il cammino conosce il nostro affanno e la brama nostra dell’arrivo.

È un’occasione – sorprendente, come la felicità; inaspettata, come la morte – ciò di cui abbiamo bisogno per cominciare davvero ad esistere. Un’occasione di fuga dall’indifferenziato, un momento in cui viene formato il nocciolo duro di ciò che sarà in futuro il nostro vissuto. Il destino è questa logica del vivere che si dipana nel tempo, partendo dal talento che, custodito in noi, finisce per rendere a chi il dieci, a chi il cinquanta, a chi il cento per cento. È il grano che, caduto a terra e morto, produce molto frutto. Il destino è il presentimento di stare camminando su una strada quando si guarda innanzi, ed è la certezza di stare cammino su quella giusta quando si guarda indietro. Ed è il coraggio di affrontare questo compito, la forza per sopportare il tragitto, che fanno di un uomo un uomo virile. Virilità è stare ben saldi sul ventre della terra, mentre perfino il deserto è scosso da lancinanti sussulti, e non già penetrare la notte avvolgendosi ogni volta di pelli e fragranze diverse.

La mano di Dio non scrive. La mano di Dio non dirige. La mano di Dio non plasma.

Dio si siede al pianoforte, e aspetta. Tuttalpiù, ci dà il la. Da quel momento in poi, comincia tutto. Tragedia, dramma, commedia o farsa. Dio siede in platea e guarda. Ci incoraggia. Ci applaude. E se le cose vanno proprio male non ci fischia mai. Mai chiede il rimborso del biglietto. Ma si abbia la decenza di non pretendere, pure, la piaggeria di una recensione accomodante…..

2 maggio 2008

VAMPIRI DI SINISTRA E LIBERALI CONFUSI


In Italia si sta configurando il tentativo, da parte della sinistra, di suicidarsi. Mettendo da parte le considerazione che farsi sulla lucidità di taluni discorsi, che in teoria dovrebbero rappresentare l’analisi degli errori commessi e la base di un progetto per il futuro, ma che in pratica sono veleno più per i calici degli amici che per quello dei nemici – i quali, in fin dei conti, hanno vinto e si godono la vittoria, che appiana tutto e tutti mette d’accordo – ecco, tralasciando i barcollamenti del raziocino dovuti, probabilmente, al doppio colpo subito per la perdita del governo e della capitale, non si spiegano certi ultimi atti amministrativi se non come suicidio politico collettivo – suicidio con annesso omicidio – o personale ed emergente insensatezza.

O l’uno o l’altro. E, in entrambi i casi, dal momento che la sinistra ha un suo seguito in Italia, e che è inoltre indispensabile che qualsiasi maggioranza (anche quella della quale ci fidiamo cecamente) abbia un’adeguata contropartita, bisogna augurarsi che la nottata passi presto. Perché a sinistra, più che buon consiglio, la notte porta ottundimento. Non ci riescono proprio, col mare grosso, a tenere il timone. E anche una tempesta di modeste proporzioni diventa burrasca.

Da mercoledì scorso la dichiarazione dei redditi della mia famiglia per l’anno 2005 circola in rete. Non si è trattato di un furto di documenti, né ho mai avuto tanta voglia di vantarmi della pensione di mio padre: in realtà, a metterla a disposizione di chiunque volesse sapere come si faccia a campare con milleduecento euro al mese ci ha pensato l’ufficio delle entrate. Su indicazione del viceministro Visco. E quel che è peggio, per Visco come per buona parte dello schieramento politico che lo ha sostenuto, anche quando il vice di Padoa Schioppa aveva qualcosa da spiegarci circa il trasferimento di ufficiali della Guardia di Finanza da sedi a lui poco gradite, quel che è peggio è che, in rete, ci sono finiti i conti di tutta Italia. Per un paese che mangia pane e cicoria dai tempi di Mussolini a quelli di Rutelli, ma che va in giro con suv da centinaia di migliaia di euro, dev’essere stato un trauma. Tanto che indiscrezioni giornalistiche dicono l’uscente presidente del consiglio Romano Prodi furibondo. Mi riesce meglio a capire l’idiozia di Visco che non immaginare Prodi capace di uno scatto, sia pur minimo, di orgoglio nella propria funzione. A meno che non si sia sentito perdente anche nella sfida per chi, lasciando la nave che affonda per sopraggiunti limiti di età e di immagine, abbia reso più amara la sconfitta a Veltroni. Qualcuno, già dopo la lettera con la quale il professore bolognese dava le proprie dimissioni da Presidente del neonato PD, aveva parlato di “avvelenamento dei pozzi”, che evidentemente non sono quelli a cui si abbevereranno i vincitori che avanzano, ma gli sconfitti nella loro ritirata. O nella loro strenua difesa. Prodi, dunque, ci aveva provato a far del male a chi si era sbarazzato di lui con manco tanti scrupoli, ma questa di Visco, più che essere una regolamento di conti interno, è uno sfregio alla nazione intera.

Intanto, non si capiscono le ragioni di un gesto di tale portata proprio alla fine del mandato. Pure quando l’operazione avesse un senso ed una giustificazione morale e legale – cosa che non credo - non si vede perché non lasciare ad altri la patata bollente della decisione. Te ne stai per andare, e faresti meglio a raccogliere le tue cose, dalle foto sulla scrivania alle penne nel cassetto. E invece che fai? Metti online i conti degli italiani, gli stessi che, anche essendo elettori di centrosinistra, hanno avuto non pochi problemi a mandare giù le tue tassazioni, le tue improprie ingerenze nelle inchieste della polizia tributaria (quando toccavano te e i tuoi soci), o il tuo «voyerismo» oltremodo scorretto nelle spese degli altri: perfino farsi la visita da un ginecologo avresti voluto fosse pagata con carte di credito, e tanti saluti alla riservatezza e per la felicità delle banche.

Visco non è mai stata una mente. Mentre al suo ministro o al suo avversario Tremonti puoi attribuire idee per quanto sbagliate, a Visco è difficile attribuire altro che la fisima di far pagare altri balzelli, oltre quelli che cinquant’anni di repubblica ci hanno consegnato. Non si è inventato nulla. Perfino il tesoretto, l’extragettito fiscale del 2006, non è opera sua: piaccia o no, sono le entrate del 2006. E Visco, con tutta l’allegra brigata del governo decaduto e decadente, si è insediato il 17 maggio. Quindi, ad andar bene solo metà è frutto del suo sacco. Se poi ci atteniamo ai fatti anche meno, soprattutto se consideriamo la scarsa attività del passato governo nei primi cento giorni.

Visco non è mai stato una mente. Almeno fino allo scorso mercoledì, quando, capace per anni di mettere in difficoltà la maggioranza di cui faceva parte, non si è risparmiato l’ultimo colpo di genio per mettere nei guai anche l’opposizione. Di cui però non farà parte, avendo capito che in un governo PD non ci sarebbe posto per lui: era Berlusconi che glielo attribuiva, Veltroni invece se n’è guardato bene anche solo dal menzionarne i meriti. Non aveva consensi da perdere, oltre a quelli che l’intera coalizione aveva perso in neppure due anni.

Non ne farà parte. O se ne farà parte, dalla parte che vuole lui. Quella che tiene nascosta la mano, ma è pronta a tirare fuori da sotto le toghe le daghe per scannare l’ultimo Cesare. Che non capitolerà in Campidoglio, ma lì vicino. Magari nel loft dove già si respira aria pesante.

Passino i vampiri della sinistra. Ma i tanti liberali, che fino a ieri attaccavano Visco reputandolo un agente della STASI in tenuta da strozzino, ed oggi gridano alla mancata opportunità, per la nostra nazione di diventare un paese normale, dovrebbero spiegarmelo questo repentino salto del fosso. L’autorità per la riservatezza non doveva, secondo loro – e tra loro c’è pure Vittorio Feltri, direttore di Libero - bloccare l’accesso a quei dati, e nessuno doveva scandalizzarsi della pubblicazione: pagare le tasse è un atto pubblico; chi paga non ha nulla da temere; in altri paesi avviene così e, inoltre, ciò incentiva la trasparenza.

I liberali di oggi sono un tantino diversi da quelli di ieri, e so bene di non trovarmi innanzi Croce ed Ortega, per fare solo due nomi tra quelli che, quando avevo appena diciotto anni, cominciarono a tirarmi fuori dal mio “sonno dommatico” – anch’io ho avuto il mio sonno, e grazie a Dio mi son svegliato: un sonnambulo, per giunta scemo, è più da compiangere che da incriminare. Tuttavia, se gli esempi, valsi sinora in campo economico e scientifico, politico ed economico, valgono anche in campo del diritto, allora è bene ricordare che la “più grande democrazia al mondo”, gli Stati Uniti, e quella più antica, la Gran Bretagna, non permettono neppure una consultazione controllata. Non hanno sbagliato su Afganistan, Iraq ed Iran, e poi vuoi che sbaglino su quattro conti di due o tre anni prima? Se ne sono così gelosi avranno un buon motivo.

Francia e Germania ti permettono di ficcare il naso, ma almeno ti devi prendere l’incomodo di uscire di casa e di inventarti una buona scusa: ti presenti al comune e, in appositi registri, trovi la dichiarazione dei redditi dei tuoi concittadini. Saprai quanto dichiarano, ma a loro volta sapranno che sei andato lì a ficcare il naso, perché frattanto l’impiegato del comune t’ha schedato, e t’ha pure chiesto la ragione di tanta curiosità.

In Italia, invece, dovremmo permettere che uno, la sera, non avendo di meglio da fare, si metta davanti al computer e, fra una chattata e uno sguardo a qualche sito non proprio per educande, sbirci nella dichiarazione del vicino, che oltre ad avere l’erba sempre più verde, ha anche il conto sempre più florido e la coscienza sempre meno pulita. E questo alto sfoggio di diritto per cosa? Per garantire la trasparenza. Cioè, se ho ben capito, per evitare imbrogli ed evasione. Dimentichi tutti, però, che già c’è chi per competenza e autorità ha il dovere di vigilare: esiste lo Stato che, lì dove è stato di diritto, non abbisogna delle delazioni dei vicini per stanare gli evasori. Questo mettere il vicino a guardia del vicino ha invece un gusto retrò che pensavamo di non dover più gustare: è un passare di casa in casa per stanare i nemici del popolo; è un denunciare i controrivoluzionari per farli passare sotto la ghigliottina. E fossero stati gli accusati nemici del popolo! Fossero stati controrivoluzionari! Erano, il più delle volte, poveri disgraziati, che avevano la sventura di cadere preda della rabbia altrui.

Ammesso che ci sia qualcosa da denunciare. E che, qualora ci sia, qualcuno si prenda la briga di farlo, avendo notato – o pensando che ci siano – delle inesattezze. Sempre che non decida di risolvere altrimenti la faccenda: a volte si sta zitti. E ci si guadagna tutti.

Semplici supposizioni queste, ovvio. Ma supposizioni che partono da un’ipotesi, che i fautori del libero accesso auspicano: che, cioè, l’occhio del guardone sia più attento di quello della Finanza. Perché altrimenti – se non c’è nulla da denunciare, se la delazione non viene fatta, potrebbe rimanere una chiacchiera da cortile, che ha semplicemente cambiato oggetto: ieri la virtù della moglie altrui, oggi quella del suo conto in banca.

Nessuno cittadino ha, preventivamente e senza motivata ragione, diritto di dubitare della correttezza altrui, e nessuno ha diritto di esigere da me, direttamente, trasparenza e chiarezza in ambiti che esulano i rapporti personali. Si può dubitare del valore della mia amicizia, come della mia condotta di figlio, finanche delle mie capacità amatorie, e pretendere prove e rassicurazioni: sono patti, quelli della famiglia, del campetto di bocce e del letto, che investono la mia e la tua persona in un rapporto intrinseco. E, del resto, è in ballo la moralità. Diverso è il discorso politico. Qui il rapporto tra i cittadini è mediato dall’entità pubblica, che guarda caso è stata messa lì proprio per essere un giudice sereno e neutrale sopra i cittadini medesimi. Tant’è, che un assassino, scontata la sua pena, è ritenuto riabilitato socialmente, mentre non necessariamente lo è moralmente: i famigliari della vittima possono non concedere il perdono, o lui stesso, il carnefice, non essersi mai pentito.

Ogni soggetto morale decide per sé come aprirsi all’altro, e ne è responsabile direttamente. Ma nell’ambito politico, questa apertura è in parte mediata dall’entità pubblica. E tocca all’autorità pubblica decidere le forme di controllo e di pena. Facendosi magari supportare dalla competenza di alcuni che non dalla morbosa curiosità di altri.

PENSIERO XXX


Con tutta la gentaglia che sta fuori dalle patrie galere, un galantuomo dovrebbe chiedersi come mai sia ancora a piede libero.

1 maggio 2008

FRAMMENTO I


L’essenza del dramma è lo scontro tra due o più verità. Come la vita ci insegna, noi esperiamo il mondo, e attraverso l’esperienza del mondo anche un po’ noi stessi, tra il chiaro che intravvediamo e lo scuro che ci rimane celato. È come stare in alto, su in montagna, voler abbracciare con lo sguardo il mondo e, quando lo si sta facendo, scorgere lì in fondo quella scura linea che divide ciò che ci è permesso vedere da ciò che possiamo a stento immaginare. Anche il mondo è diviso in due verità dall’orizzonte.

Non possiamo sperimentare tutta la verità. Siamo sempre in un posto, rimane fuori il resto. Ecco perché vi è profonda differenza tra il relativismo e il pluralismo. Ecco perché il relativismo è il dogmatismo degli sconfitti, di chi ha preventivamente rinunciato alla verità perché temeva di doversi addossare tutto il peso della croce. Tranquilli: siamo solo cirenei, non il Crocifisso di Nazareth.