"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

24 giugno 2009

UN GRAN CONSIGLIO PER IL LIBERALISMO ITALIANO




Prima di mettere piede sulla polverosa terra delle miserie umane, ci converrà discutere su quei massimi sistemi che, tangendo solo sporadicamente le caravelle della vita, le cui vele si gonfiano al vento delle passioni, lasciano traccia solo sulle bandiere dei partiti e nelle pagine dei filosofi. Non si sa bene quale delle due tracce sia, invero, la più sincera, o meglio la meno bugiarda.

Che cosa è il liberalismo? Liberalismo è eticità, moralità politica – della e nella politica; liberalismo è il fondamento di un’etica dell’intersoggettività. Il riconoscimento dell’uomo, di ogni individuo, come entità irriproducibile, come opera d’arte, come ente indisponibile ad ogni manipolazione eteronoma è il fondamento del liberalismo. La persona, cioè, non è valore aggiunto della comunità – è essa stessa comunità, apertura al riconoscimento di altre irriducibili entità che non alla sola comune umanità. Per questo il liberalismo ha visto e vedrà sempre come fumo negli occhi la formazione politica della morale: non è la comunità, la gens o lo Stato, a fare l’uomo e a dargli una morale (semmai, potrà, tutt’al più, offrirgli una condotta di vita, da vagliare comunque) ma l’uomo è egli stesso comunità, l’uomo è Stato. Non è mai solo – sa di non poterlo mai essere; sa che non è opportuno auspicarlo, né lecito pretenderlo. In politica l’uomo porta con sé se stesso, non può farne a meno, rappresentando la testata d’angolo su cui edificare la costruzione sociale.

Per questo lo stato è etico: con buona pace di chi ne ha osannato uno particolare, quando ciò era conveniente politicamente, ed ora lo rigetta con assai sbrigativa compiacenza delle mode, lo stato etico è lo ethische staat di kantiana memoria. Non moschetto, né manganello, ma uno stato in cui s’inverano i diritti (comunque universali e dati ­a priori) delle persone. Con buona pace della modernità, se questo è il suo lascito, non già la politica, bensì la buona politica è il fondamento della polis greco-romana e della civitas cristiana, dove l’aggettivo è il limite del sostantivo e di ogni decisionismo che dalla sfera politica nasca e in questa si giustifichi.

Questo è il massimo sistema liberale, e se non il migliore dei sistemi possibili, certamente lo è tra quelli sperimentati fino ad oggi. È il minimo – quello italiano attuale – che lascia alquanto a desiderare. Non serve dilungarsi nel raccontare le varie peripezie del testosterone presidenziale: quantunque molti telegiornali tacciono, e sui giornali si leggono disquisizioni di neuroetica assai più prolisse del necessario, essendo la questione una mera questione politica, e dunque di foro più che di lettino psichiatrico o di confessionale, sono ormai in molti ad aver avuto sentore della faccenda – sia della madre, della moglie o dell’amante, l’italiano preferisce l’egida della sottana a quella di Atena. E poi, il vecchio decoro liberale, che proprio distinguendo, in etica, alcuni aspetti privati da quelli pubblici, ben si guardava dal dare enfasi alla comunque irrequieta mascolinità italica di fin de siecle, ci impone di non intrometterci tra i perizoma e i reggipetto di Palazzo Grazioli. Sta di fatto che da circa un mese, amicizie femminili dell’attuale Presidente del Consiglio sono salite alla ribalta delle cronache, raccontando dei loro incontri con Berlusconi nella sua residenza romana. Alcune di esse sono delle ingrate: aspiravano ad essere elette al parlamento europeo, inserite in quelle liste bloccate che permettono ad emeriti deficienti di sedere in scanni un dì ambiti dalla migliore intellighenzia nazionale, senza aver mai mostrato di saper mettere una parola dietro l’altra, magari azzeccandoci pure un congiuntivo. Poi è arrivata Giunone a fare una sonora ramanzina a colui che, da quel momento in avanti, non sarebbe più stato il suo Zeus, ed ecco che questi, per far placare le Erinni della pubblica opinione, ha sbianchettato la lista delle sue cortigiane in un paio d’ore. Le giovani promettenti statiste hanno accusato il colpo. E l’hanno reso. Non dubitiamo, comunque, che troveranno qualche reality nel quale far più fortuna dell’ingrata politica. Altre, invece, i festini li frequentavano per professione: mille euro per un sera, ma se dovevano restare a dormire nella dimora di stato, allora gli euro salivano a duemila. Bruscoletti per un giovane rampante imprenditore di Bari, unito da sincera – quanto, non è dato ancora sapere – amicizia al Presidente, al quale passava gli sfizi, della cui qualità, evidentemente, egli si faceva garante.

Non è il caso di andare oltre: sarebbe pettegolezzo. Chiedere conto dello stile di chi rappresenta – e ciò è stato un vanto, fino ad ieri – più della metà degli italiani, è invece un diritto di ogni cittadino, e soprattutto di quella vetusta (dicono alcuni) ideologia liberale, che i vari ammalianti populismi ha sempre disprezzato, aspettando che i loro nodi venissero al pettine della politica. Ora, diciamoci la verità, il liberalismo di cui Silvio Berlusconi si fa banditore ne ha fin troppi di nodi, e quasi c’è da vergognarsi che la nazione con più storia e civiltà del mondo debba, infine, accorgersi che qualcosa deve pur cambiare, solo perché il presidente del governo, oltre alle discusse amicizie con personaggi poco raccomandabili, ne intrattiene delle altre e di altra natura, nate al sole sardo di Villa Certosa e consumatesi nei letti presidenziali di una Roma petroniana.

C’è poco da scandalizzarsi per chi ha fatto politica promettendo la liberalizzazione del vizio, magari ergendosi ora santo inquisitore dei peccati secondo natura, quando negli anni passati è stato assai tollerante verso quelli contro natura, finendo per candidare e far eleggere macchiette che potevano usufruire indistintamente, e secondo l’umore del giorno, dei servizi igienici di un sesso o dell’altro. Squadracce illiberali che hanno occupato televisioni, università, case editrici, facendone bivacco dei propri ingiustificati decisionismi, legittimando la propria azione politica con la convinzione messianica di redimere il mondo, o a stento con il consenso che gli scribacchini offrivano loro un tanto al chilo. Ma questo in che modo dovrebbe far passare sotto silenzio gli errori di cui anche i presunti – a questo punto, è lecito dubitare – liberali di questo parlamento si sono macchiati?

Il buon senso comune di chi non ha perso il senso della propria natura induce verso le svampite dalle coccole facili, che non verso i parrucconi della trasgressione orgogliosamente espressa con carnevalate dal dubbio gusto, ma rimane pur sempre l’obbligo, anche quando la carne, pur tremula per naturali inclinazioni, si mostra fallace al di là di ruoli, funzioni, classe sociale e culturale, rimane l’obbligo di non andare in giro con la patta dei pantaloni aperta. Chi lo fa, prima ancora che a rimproveri morali, si espone al ludibrio della gente: ­opinione pubblica e giornali non sono ritrovati sovietici, ma le armi del mondo liberale per controllare il potere. E controllare il potere, e il potere controllato e misurato, sono il fondamento dell’azione politica del liberale.

Se poi davvero i giornali sono tutti di sinistra, e tutta l’opinione pubblica è formata dalla sinistra, allora non solo dovremmo ripensare – anzi, sarebbero del tutto falsi i dati elettorali che sono stati commentati, neppure un mese fa, in occasione delle consultazioni europee, ma la stessa compagine governativa dovrebbe ammettere il suo decennale fallimento: quindici anni senza saper creare attorno a sé quel consenso ideale, valoriale si suol dire, che è l’obiettivo di ogni esperienza politica, quando è fatta da gente all’altezza e non da emeriti cretini, sarebbero la peggiore condanna. E, del resto, chi è origine e causa del suo male pianga se stesso: il ministro dell’istruzione e della ricerca scientifica è una signora il cui curriculum politico è assai più ampio di quello scientifico – una laurea in giurisprudenza, e il sospetto di aver scelto la provincia più agevole per abilitarsi alla professione; il ministro dei beni culturali un signore i cui unici interventi pubblici sono stati indirizzati a rivalutare Gramsci, magari in ossequio ai propri trascorsi furori ideologici; a presidente dell’Enciclopedia Italiana è stato proposto un ex socialista dall’intrallazzo facile. E questo, nonostante l’esordio politico coinvolse fior di intellettuali, e ancora oggi non mancherebbero esempi culturali di ben altro spessore tra le proprie file.

Misura ed equilibrio: siamo sicuri che in questi quindici anni di Silvio Berlusconi sulla scena politica della nostra nazione siano stati coltivati?

Per difendere un sol uomo, per uno solo, i figli della Rivoluzione conservatrice e di quella liberale, gli eredi di Einaudi e di Croce, di Sturzo e di Gentile sono entrati in rotta di collisione con ampi strati istituzionali sui quali, invece, storicamente i governi di destra hanno costruito la loro fortuna. Hanno dovuto non tanto chiudere gli occhi davanti alle boccaccesche candidature, alle scollacciate assistenti, alle chiassose performance del presidente del consiglio, ma le orecchie davanti a quello che pur si poteva leggere nelle sentenze della magistratura, nelle critiche della stampa, negli interventi di pur non ostili intellettuali. È mai accaduto che un governo di destra abbia governato senza l’appoggio della magistratura? Eppure così è stato in Italia. E per cosa? Per una pur discutibile scelta ideologica? Non è stato forse, invece, il vissuto di alcuni liberali-del-giorno-dopo a condizionare quella scelta? La destra che è salita al potere grazie al crollo dell’ Ancien regime è mutata, a sua volta, in ancien regime.

Non tutto è andato perso, per carità. Ma non tutto può essere accettato. E quando per paura del nemico, o delle sue critiche, si smette di essere, a propria volta, critici di se stessi, non s’apre la strada ad una più estesa concordia nazionale, ma al crollo definitivo, lento o subitaneo che sia. Il fatto che un liberale risponda alle critiche con la forza dell’elettorato, quando per tradizione dovrebbe guardare a quella fiducia non già come ad un atto di fede incondizionata, un assegno in bianco da cambiare quando e per quanto si vuole, ma un limitato beneplacito sempre pronto ad essere revocato, non è già forse l’indicazione più netta che qualcosa si è incrinata, e che è bene correre ai ripari per non vedere affondare l’intera nave?

E poi, quale nave? La nascita del partito unico di centrodestra, il Popolo della Libertà è stata l’annessione di una stanca e pingue classe dirigente, imborghesizzata dal potere di cui, evidentemente, cinquant’anni di esilio forzato in patria hanno reso famelica, ad opera di una più determinata, vincente, che ha smesso di sognare come fare gli italiani, e si è accontentata di seguirli e assecondarli nel loro cupio dissolvi. Il congresso è stato il trionfo di questa annessione, la Sedan del centrodestra, la celebrazione di una partitolatria che si è consumata come un grande rito collettivo, durante il quale era più presente la nomenclatura che il popolo, più il conformismo che la libertà. Nessuna idea d’ampio respiro su come dovrebbe essere la nazione, ma molte spicce strategie su come comandarla. Nessuna stonatura, nessun dissenso: tutto, del resto, scorre liscio sui binari dello sfacelo. E l’onorevole Fini, attuale presidente della Camera dei Deputati, è stato l’esempio più lampante di come si navighi a vista, sospinti dai venti delle mode e delle inclinazioni, delle passioni fuggevoli e dei radicati vizi: il fascismo del duemila cedette facilmente il posto all’accettazione del liberalcapitalismo e della tradizione cattolica dell’Italia, come oggi questi vengono smentiti da un laicismo pasticcione e da una ridicola rivisitazione degli ultimi anni di follie finanziarie, proprio dopo che la storia ha data una ben più pesante condanna.

Il tribuno, al quale sarti televisivi hanno reso perfetto l’abito dialettico con la scelta di manichini su cui fargli provare gli arzigogoli ideologici, che racconta le verità di ieri, senza avere il coraggio di prospettare la realtà di domani, è tanto spassoso come chiunque si presentasse ai monopoli per riscuotere la vincita di un tagliando mai giocato. Ed è stato acclamato dalla plebe come statista.

Uomini, anzi. Uomo: un solo uomo, ciascuno per sé. Ma può la forza di un uomo bilanciare la potenza di un’idea? Possiamo tacere il fallimento? Perché fallimento è: dal 1994 al 2009 forse poco è cambiato nella storia personale del Presidente Berlusconi e dei suoi fidi alleati, ma il sopirsi di ogni afflato ideale sulle tette delle soubrette di cui si circondano; i loro abbracci a dittatori che passano sopra la nostra storia nazionale con le loro scarpe sporche di sangue senza mai provare ad asciugarsele – accogliere in pompa magna Gheddafi e la sua insolenza stampigliata sulla divisa da marionetta, è una delle peggiori prostituzioni a cui i politici nostrani hanno più volte condannato la patria; l’incapacità di prospettare un organico progetto per la nostra nazione – la mancanza di domani è il suicidio della buona politica; ecco, tutto questo mostra come si sia giunti al momento di una svolta. La politica è il canale che collega palazzo e piazza: due facce di una sola medaglia. Se ci si chiude nel primo, si genera il cancro del peggior oligarchismo, se non addirittura quello della tirannide; se si coltiva solo la seconda, si genera il bubbone della rivoluzione, se non addirittura l’anarchia. Il centrodestra ha conquistato la piazza – questo è vero, ma le piazze si conquistano, soprattutto in democrazia, con molta facilità, e con altrettanta si perdono. E quando verrà meno pure questa entrata, quali altre si potrebbero rubricare per bilanciare le non poche uscite?

Se il potere non è stato fine per se stesso, e se davvero s’è voluta servire l’Italia, allora l’onestà intellettuale non dovrebbe essere ammutolita dalla paura degli altri o, peggio, annebbiata dalle considerazioni sulle altrui deficienze; se c’è un ideale a cui s’ispira la prassi, allora bisognerebbe confrontare questa con quello, e fare i dovuti conti. E a farli, prima che sia troppo tardi, dovrebbero essere quei liberali che ora tacciano, e che per non tradire una stagione tradita o traditrice, tradiscono l’ideale consegnandolo ad una prassi meretrice.

È il momento della responsabilità: a ciascuno la sua parte. Marcello Pera o Antonio Martino, per fare solo due sparuti esempi, non possono più venire meno al loro posto nella storia di questa nazione. Devono. Il liberalismo in Italia e nel mondo intero è stato sì una sola cultura, ma non già una sola tradizione, una sola tattica, ma non una sola strategia. Comunque, non è mai stato un solo uomo.


Antonio Giovanni Pesce



15 giugno 2009

PENSIERO XLVIII

Meglio il sogno americano, anche quando si fa agitato, della cruda e cinica realtà iraniana.

13 giugno 2009

PENSIERO XLVII


I nani, quando è stato tagliato il filo della storia, piuttosto che ergersi sulle spalle dei giganti, finiscono per poggiare sui tacchi delle loro scarpe.



8 giugno 2009

LETTERA SUL CONCILIO VATICANO II ad AVVENIRE

LA LETTERE CHE SEGUE E' STATA PUBBBLICATA SUL GIORNALE "AVVENIRE" DEL 7 GIUGNO 2009.

CONCILIO VATICANO II: UN DIBATTITO UTILE

Caro Direttore, ho gradito molto il dibattito sul Concilio Vaticano II, ospitato da Avvenire il 3 giugno 2009, e mi auguro sia solo l’inizio di un dia­logo a più voci assai esteso. Av­venire può servire così la Chiesa: permettendo che i tanti, e a vol­te inopportuni dialoghi di sacre­stia, divengano oggetto di rifles­sione comune. Certo, basterebbe leggere Scheffczyk o Baraùna, ma dal momento che ogni genera­zione di teologi ha bisogno del suo sfogo, è meglio che lo abbia 'intra muros', piuttosto che ali­mentare – su giornali che non chiedono altro che l’ennesima occasione per attaccare la retro­grada Chiesa Cattolica – la solita infamia su una presunta paura del Concilio. Che poi non è più neppure originale come trovata. Così, potremo finalmente chia­rire a chi confonde la teologia con la politica, e questa con le lo­gore categorie di progressismo e conservatorismo, che il Santo Concilio Vaticano II è il ventune­simo concilio ecumenico. Né, dunque, il primo di una risorta Chiesa, né l’ultimo di una Chie­sa ormai decadente, e il prossimo che verrà, se l’Iddio lo vorrà, sarà ancora indetto dallo Spirito San­to per mezzo del Vicario di Cristo, non già dalla richiesta di una in­tellighenzia dalle idee ormai da­tate.

Antonio Giovanni Pesce
Motta S. Anastasia (Ct)