"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

30 luglio 2011

Consiglio comunale di Catania, elicotteri e strafalcioni

Consiglio: elicotteri e strafalcioni 

di Antonio G. Pesce - Il continuo stillicidio delle nostre forze di stanza in Afghanistan si fa sentire anche da noi. Il presidente del Consiglio comunale, Marco Consoli, ha chiesto un minuto di silenzio all’aula per l’ennesimo caduto, il caporalmaggiore David Tubini. È forse l’unico momento in cui il consiglio non abbisogna di rimbrotti per tacere e rispettare il decoro. E di questi momenti ne stiamo vivendo fin troppi.
Detto questo – sia concesso al cronista di cedere un poco alla malinconia – si passa alle piccole e grandi disfunzioni di Catania. Rosario D’Agata (Pd) ricorda all’amministrazione non solo che è da un anno che non vengano pagati i buoni pasti ai dipendenti comunali, ma anche il piano per decentramento. E anche il capogruppo dell’Mpa, Salvo di Salvo, chiede spiegazioni in merito. Alessandro Porto (Mpa) vorrebbe una sospensione di qualche mese, finché perdurerà il caldo, del divieto di entrare in auto dentro il cimitero. Il rischio è che, attraversando a piedi i viali, qualcuno accusi il colpo della canicola. L’assessore Arcidiacono ha trovato interessante la proposta, e si è detto disponibile a studiarla, purché non si torni alla situazione antecedente l’ordinanza, quando il cimitero, più che un cimitero, era un parcheggio.
Francesco Navarria (Scelta Giovane-Misto) ha ricordato proprio ad Arcidiacono, che il primo giorno di agosto dovrebbe essere – anche – il primo giorno dei lavori di consolidamento del ponte del Tondo Gioeni. Si arriverà preparati? Arcidiacono dice sì, Navarria teme di no. Mentre Francesca Raciti (Pd), Gemma Lo Presti e Manfredi Zammataro (LaDestra-As) hanno posto all’attenzione dell’amministrazione il decoro di Catania. La prima chiedendo una pulitura più assidua dei cassonetti nel periodo estivo, e di spendere qualche euro per cambiare le lampadine non funzionanti dell’illuminazione della città; la seconda il rispetto dell’ordinanza del sindaco sulla movida catanese, concernenti orari di chiusura dei locali e limite massimo dei suoni; il terzo, infine, che Catania offra qualcosa di più che la dilagante prostituzione per le vie.
Più incentrati sulla contestazioni di atti amministrativi gli interventi di Valeria Sudano, capogruppo Pid, e di Puccio La Rosa (Fli-Misto). Quest’ultimo, leggendo in aula una relazione del commissione di controllo sugli atti amministrativi, ha fatto notare come qualche dirigente del comune – e dire ‘qualche’ pare essere un eufemismo – nel redigere gli atti di propria competenza commettere vistosi strafalcioni. Quali? Ci si dimentica di citare la normativa, o si citano norme passate a miglior vita (l’archivio). O, ancora, si sbaglia a far di conto. La Rosa ha dunque chiesto una commissione d’inchiesta. La Sudano gli ha fatto notare che non serve: è infatti notorio che molti atti vengano redatti senza alcuna competenza. Si prenda a esempio che l’amministrazione ha stipulato una convenzione con la Sac per un box informazioni del Comune dentro l’aeroporto. Peccato però che non potesse farlo, toccando ciò al Consiglio comunale. Gaspare Nicotra, segretario generale, le ha fatto notare che, per quanto egli ne sappia, si tratta di un protocollo d’intesa e non già di una convenzione. Ma la capogruppo Pid ha posto anche un altro problema: il 27 luglio è scaduta la proroga concessa al commissario regionale per redigere il piano commerciale della città. Ed ora? Secondo Nicotra la competenza ritorna al Consiglio comunale, finché non verrà nominato un altro commissario.
Fin qui le comunicazione. Però c’era dell’altro. C’era l’approvazione di una delibera per la costruzione di un’elisuperficie nei pressi dell’ospedale Garibaldi di Nesima, lì dove è già presente il coordinamento della Protezione Civile. Si tratta di un bando del 20 maggio della Regione Sicilia per creare una rete di infrastrutture eliportuali. Il Comune di Catania ha colto al balzo la situazione per creare non solo un luogo importante in caso di calamità naturale, ma anche per le ordinarie urgenze. Tuttavia, alcuni consiglieri, nella lunga discussione, hanno mostrato i limiti della delibera amministrativa. Innanzi tutto, è stato fatto notare come i tempi sia contingentati, e come, senza opposizione in aula, verrebbe a mancare il numero legale. Dunque, ci sarebbe la voglia di approvarla. Ma non è chiaro, se i quattrocentomila euro, stanziati dalla Regione, coprano tutto il costo dell’opera o in che parte. Inoltre, davvero è quello il luogo giusto? Si tratta di una località a ridosso di un ampio centro abitativo e di un’arteria importante (la circumvallazione, all’altezza della rotonda del nosocomio di Nesima).
L’opposizione, insomma, rimprovera all’amministrazione – per usare le parole di Nello Musumeci (La Destra), ieri presente in aula – di aver voluto cogliere l’attimo ‹‹per metterci il cappello sopra e tagliare, infine, qualche nastro rosso››.
Tuttavia, la proposta passa. Ma non è passata l’immediata attuazione. Il troppo, infine, stroppia.

Pubblicato il 29 luglio 2011 su Catania Politica

Catania sonnambula

Catania sonnambula 


di Antonio G. Pesce - Che fossimo notturni non ne avevamo alcun dubbio. Anzi: più che notturni, siamo socievoli, ci piace parlare. È che questa dote non la sappiamo sfruttare. Madrid sì, invece. Ad ogni buon conto, da un’indagine delle attività sul social network Badoo, Catania risulta essere la quarta città più nottambula d’Italia, con Firenze e Roma, preceduta da Napoli, Torino e Milano.
Sono semplici dati. Non ci dicono nulla. Se, però, facciamo mente locale, forse possiamo pensare ad una Catania diversa, meno chiusa in casa a chattare come uno scolaretto sfigato, e più in strada a vivere con gli altri (e ad accoglierli). Una Catania da ‘movida’ che tuttavia stenta a decollare. Una Catania sonnambula, che vivacchia sulle scalinate di palazzo delle Finanze, attendendo che si faccia giorno nel tedio di una nottata spenta. Perché? Innanzi tutto c’è un problema di sicurezza. Inutile girarci attorno. Sicurezza che già manca anche per gli stessi residenti, che lamentano l’abbandono delle strade, durante la notte, ai più svariati ‘fumi’, dove quello meno pericoloso non necessariamente è quello etilico. Inoltre, ritrovi poco controllati sono un pericolo anche per quegli avventori che, nonostante siano in vena di un po’ di allegria con amici e ragazza, non vorrebbero perderci la vita, perché qualcuno ha alzato troppo il gomito. Il controllo, dunque, e il rispetto delle regole. Cosa gradita ai gestori dei locali, agli clienti dei locali e ai vicini dei locali. Ma quasi sempre disattesa.
Non basta però. Serve altro. Serve non solo il controllo della massa, ma anche il collante. E qui siamo proprio scarsi, e non solo per colpa di chi amministra questa città. Qualche anno fa, fioccarono durissime le critiche: niente estate a Catania, nessuna ‘movida’. Piazza Teatro Massimo quasi buia. Qualche anziano seduto e un paio di ragazzi. D’accordo: Stancanelli non è affatto mondano. La sera, dopo una giornata di duro lavoro, si mette le pantofole, la canottiera di flanella, e sprofonda nella sdraio. Però non possiamo aspettarci che sia sempre lo ‘Stato’ a pagare servizi, per poi tirarsi indietro e lasciare ai privati il compito di passare all’incasso. Non può organizzare l’animazione per i locali: lo ‘Stato’ non fa l’animatore né il PR. Quando si sta bene, c’è cuccagna per tutti. Quando si sta come si sta a Catania (e in tutta Italia, e in tutta Europa, e perfino negli Stati Uniti…), ciascuno deve fare il proprio dovere. La città pullula di talenti, la cui unica colpa è di essere italiani, siciliani, catanesi. Fossero nati altrove …
Abbiamo bisogno di un’anagrafe del talento, al quale offrire un palcoscenico – una location, come dicono quelli che sanno parlare bene, e degli sponsor. Senza cedere al fascino delle colonizzazioni, peraltro pagate con laute parcelle. Nel ragusano e nell’entroterra ennese capita che il baretto offra l’intrattenimento musicale all’intera paese. Da noi attendiamo che il sindaco scenda in piazza con tutta la sua baraonda di assessori e consulenti (non sarebbe male però …).
È in questi momenti che l’innovazione paga, che l’idea mostra tutta la propria prorompente vitalità. Le vie battute sono le più costose – il vip è un reazionario a cui nessuno ha il coraggio di togliere il feudo. Ve ne sono altre, invece, che bisogna intraprendere, quando in quelle solite gli altri ci saranno sempre davanti. Scordiamoci di governo, regione e amministrazione: se Catania si salva, lo dovrà ai suoi giovani. Quelli che hanno ancora un’idea da condividere.

Pubblicato il 28 luglio 2011 su Catania Politica

Anders Behring Breivik, la belva bionda e l'italico savoir faire

Anders Behring Breivik, la belva bionda – come direbbe Nietzsche – che ha insanguinato la Norvegia, potrebbe essere incriminato per crimini contro l’umanità. Il superuomo, colui che si è fatto carico della storia per piegarla alla propria volontà di potenza, anche con questo curioso stratagemma giuridico non avrà più di trent’anni di carcere. E non ha potuto godere neppure dell’odio della sua gente, che ha preferito i fiori per le vittime piuttosto che un ultimo atto di considerazione per il carnefice.
Pure in Italia le bacheche delle reti sociali (i social network à la Facebook) non hanno traboccato improperi, come quando la signorina slovena mostrava, in un video, la propria bravura nel lanciare dei cuccioli di cane appena nati nel fiume. Allora sì che si invocò perfino il rogo per la criminale. Questa volta, invece, solo qualche bandiera come avatar, e una marea di articoli condivisi. Segno evidente di come la carne umana non tiri più di tanto.
Tuttavia, non c’è pagina della storia del mondo in cui la farsa italiana non abbia fatto un quarto d’ora di comparsa. In questa strage, noi ci siamo entrati col miglior pezzo che l’italico buongusto riesca ancora ad offrire: Mario Borghezio. Ora, poiché l’eurodeputato leghista è simpatico come gli arnesi di un dentista, è comprensibile che in molti gli abbiano lanciato la propria invettiva, a seguito dell’ennesima riprova del suo proverbiale savoir faire. Anche perché, appena egli apre bocca, c’è chi ha già le vesti stracciate (e il più delle volte non si sbaglia).
Abbiamo, dunque, approntato commissioni al plasma per l’esegesi dell’alto pensiero; preteso che il baldo politologo si conformasse ai dettami della più savia sociologia da salotto; infine, abbiamo offerto le nostre scuse ai norvegesi, che non le avevano neppure richieste essendo noto che, in questo momento, hanno altri pensieri per il capo che non godersi il solito siparietto nostrano. Ma che cosa, in fin dei conti, avrebbe detto di così scabroso il nostro orgoglio nazionale (esportato nel grande salotto politico del fighettismo paneuropeo)? Niente. O almeno, niente di nuovo. Le idee della belva sono giuste, perfino “ottime”. Al netto della violenza però. Anzi, proprio sulla violenza l’eurodeputato tira fuori la teoria complottista, buona per tutte le salse: che Anders Behring Breivik non sia stato armato (a sua insaputa) da altri, al fine di screditare una posizione che, ideologicamente, è anche condivisibile? Infine la ciliegina: Oriana Fallaci pensava le stesse cose, ma non se ne andava in giro a mettere bombe.
Difficile fare una comparazione tra il ‘pensiero forte’ dell’italiana e quello del norvegese. Dubitare che sia lo stesso è d’uopo, anche per la scarsa attendibilità della fonte. Da quel poco che si è potuto leggere, si apprende che il mondo è fatto da vigliacchi – dal Vaticano agli Stati tutti – e che solo un’avanguardia di santi (per ora la schiera contempla una sola persona – domani si vedrà) ha colto i “segni dei tempi”.
Tuttavia, siccome tra i bisogni primari dell’uomo c’è quello di dare, quanto meno, senso all’angoscia generata dalla precarietà dell’esistenza (e Anders Behring Breivik ci ha dimostrato chiaramente quanto siamo precari noi e la mente altrui), il grande circo dell’opinione ha messo le tende in casa nostra. Tante le scuole di pensiero. La prima è quella del dolce, secondo la quale il mondo è un paradiso con un paio di demoni che vogliono impedire la Pace Perpetua. I demoni sono nazisti per definizione, tranne poi scoprire che, in linea di massima, avrebbero dovuto essere filantropi, dato il grembiulino d’ordinanza illuministica. Poi, c’è la scuola dell’amaro: il mondo non deve tendere alla Pace Perpetua, altrimenti qualcuno potrebbe lamentarsi. E per necessità logica, chi si lamenta deve sparare a raffica su giovanotti in vacanza, magari dopo essersi imbottito di steroidi. Questi non fanno male – è risaputo. La Pace Perpetua sì.
Infine, c’è la scuola di quelli che non hanno scuola, e non l’hanno manco fatta, ma pontificano. Perché è permesso a un tizio di possedere armi a gogò e di progettare nell’etere la terza guerra mondiale? È permesso, perché in molte nazioni, fino a prova contraria, nessuno è colpevole di nulla, neppure di pensare. E se decide di comprare un’arma – cento armi, non vuol dire che voglia fare un strage. E se predica male in rete, non vuol dire che razzolerà altrettanto nel reale. E se prende una stanza in un hotel, non deve dare i proprio documenti, perché non è necessariamente in fuga dalla polizia o pronto a farlo.
È una visione antropologica infarcita di (sano? insano?) ottimismo. Non c’è prudenza che tenga. Al massimo si corre ai ripari. Non si previene, si cura. La libertà è come l’ossigeno – si dice. Solo che l’ossigeno, quando è troppo, va alla testa. Se, poi, la testa è già rosa dall’interno, allora l’euforia sarà solo una molla, pronta a far scattare la bestia.
Questo è Anders Behring Breivik: una belva. Al suo posto avrebbe potuto esserci chiunque di noi avesse creduto poter piegare a sé la società, lo Stato, il mondo, Dio. È dentro noi che si nasconde l’abisso. Lo scontro tra le civiltà, teorizzato da Huntington, è relativamente nuovo. Ancor più lo è quello teorizzato da Martha Nussbaum all’interno delle civiltà. Antico, invece, quanto l’Occidente è lo scontro interiore teorizzato da un loro maestro. Bisogna conoscersi per impedire che l’instabilità interiore esploda. E chi fa politica, purtroppo o per fortuna, possiede strumenti poco taglianti per penetrare in quelle profondità. Può, tutt’al più, impedire che quel caos si armi facilmente, e altrettanto facilmente scorazzi il proprio rancore in giro per la città. Si chiama prudenza questa, e serve soltanto ad impedire un male maggiore. Ma nessuno può salvarci dagli Anders Behring Breivik. Perché la violenza ha sempre sfigurato il volto dell’umano, e lo farà sempre più, finché i sermoni racconteranno di bontà primordiali. Finché ci riterremo soltanto angeli, senza temere la nostra bestia interiore. Finché l’auriga lascerà la biga in mano alle bizzarrie dei cavalli.

Pubblicato il 30 luglio 2011 su TheFrontPage

27 luglio 2011

La ricerca scientifica e il futuro della specie


La ricerca scientifica e il futuro della specie

di Antonio G. Pesce




Dal 14 al 26 giugno si sono tenuti a Catania i lavori dell’alta scuola di formazione, promossa dalla fondazione Nova Universitas, sul tema ‹‹La ricerca scientifica e il futuro della specie››. Direttore scientifico ne è stato Pietro Bercellona, che ha moderato gli interventi e dei relatori, tutti di chiara fama nei loro ambiti di competenza, e dei giovani studiosi che si sono dati appuntamento.
L’intento che qui si vuole perseguire è, intanto, quello di un bilancio, per quanto sommario. ‹‹Ha colto il convegno l’obiettivo scientifico che si era proposto?›› – è la prima domanda a cui vorremmo dare, più avanti, una risposta il più possibile sincera e scevra da compiacimenti verso l’impegno profuso personalmente e da altri. Poi, sarà opportuno discutere la risposta: quali i motivi del successo, e quali quelli del fallimento. Infine, chiosare il risultato, qualora sia stato positivo, o proporre una possibile e alternativa soluzione, qualora si sia ritenuto che altra avrebbe dovuto essere la conclusione della discussione.

Un bilancio alternativo
All’inizio della seconda settimana, prima che Roberto Mordacci prendesse la parola per parlare dell’etica nelle neuroscienze, Barcellona ha proposto un primo bilancio, relativo ovviamente alla settimana trascorsa. Un bilancio assai ingeneroso verso il proprio operato, poiché ha affermato di sentirsi “bocciato”, non avendo visto il dialogo che si era augurato, all’inizio della scuola, tra filosofi e scienziati.
In effetti, il proposito di Barcellona era chiaro sin dalla stesura della sua relazione di presentazione del corso. La biotecnologia sta modificando – ha già modificato ‹‹alla radice il concetto della vita››, poiché le ‹‹odierne tecnologie … giocano con lo strumento primario del nostro rapporto col mondo, l’oggetto su cui si basa la nostra identità di esseri umani: la persona››. Dunque – notava il filosofo - ‹‹la crisi di civiltà è una crisi profonda dello statuto antropologico››. E concludeva indicando quale avrebbe voluto fosse il tenore degli interventi nella scuola: ‹‹Una riflessione su quest’arco tematico che non voglia restare sul terreno di una mera lamentazione di ciò che si è venuto perdendo della cultura umanistica deve misurarsi necessariamente con i contenuti che definiscono l’ambito di ciascun campo disciplinare o almeno i punti di riferimento fondamentali delle diverse aree del sapere››.
Ora, questo non è avvenuto. Non è avvenuto come Barcellona lo aveva previsto e come lo voleva. Non si è poi così sbagliato, quando ha affermato che, in taluni casi, seppur si è trattato di riflessioni di amplissimo respiro, condotte da autori che, certo, non hanno mai fatto mancare problematicità al proprio pensiero, tuttavia ciascuno è parso chiudersi nel proprio orizzonte di studi, e in alcuni casi approcciandosi con troppa sufficienza al campo altrui, o risolvendo sbrigativamente ciò che, sia ai giovani studiosi presenti sia allo stesso Barcellona, sembrava semmai oggetto di discussione più ampia.
La filosofia del ciclo di lezioni è la medesima che sembra essere la cifra degli scritti dell’ultimo Barcellona: problematicismo che non rinuncia, preventivamente come vogliono le mode attuali, alla bellezza di una soluzione, ma cosciente che per giungervi la strada è ‹‹stretta e piena di insidie››. E che proprio perché in ballo c’è il senso dell’esperienza umana – in ogni soluzione come momento di ogni successiva e più piena soluzione – non può lesinare impegno né accogliere illusioni.
Tuttavia, sia consentito proporre di quell’esperienza un bilancio alternativo, non per compiacenza anche verso chi lo propone e all’impegno che vi ha speso, oltre che verso quanti della scuola sono stati coordinatori, organizzatori e guide, ma proprio perché ne è possibile un altro. E intanto è bene chiedersi: davvero la mancanza di intesa tra filosofi e scienziati può essere rubricata come assenza di dialogo? E, se la mancanza di dialogo è scontro, magari edulcorato dalle buone maniere della civiltà e dalle usanze accademiche, non è forse vero che lo scontrarsi è una relazione comunque – il fatto non ancora pensato di questo incontro?
Filosofia e scienze naturali si sono parlate e pure tanto. Quel che è mancato è stato il riferimento al convitato di pietra degli ultimi quarant’anni. Nessun che si sia posto il problema di chi faccia filosofia e scienza, e se e per che cosa valga la pena farle. Se questo snodo non fosse stato eluso, allora avremmo pure avuto il risultato tanto sperato da Barcellona. Ma il solo fatto che di quelle due settimane si possa cogliere i limiti della filosofia e le aspirazione della scienze è un dato che non va sottovalutato.


La fondazione che non fonda
Mi pare che un filo sottile leghi tre degli interventi più attesi, e cioè le relazioni di Cacciari, di Vitiello e di Natoli: l’impossibilità di pensare compiutamente il fondamento. Aggiungerei anche quella di Carmine di Martino, seppur diversa dalle altre per il senso che il filosofo le ha voluto dare.
Un’estrema libertà di fondo, come le radiazioni cosmiche primordiali di cui ha parlato l’astrofisico Bersanelli. Una libertà che, potendosi tematizzare ma non concettualizzare, cioè esaurire nella compiutezza di un concetto, pare possa essere la risposta generale agli interrogativi della scienza. C’è qualcosa che non si può racchiudere, un di più che sempre sfugge, sia perché è la base di ciò che dovrebbe poi pensarlo, sia perché è superiore ai limite che dovrebbero concluderlo. Un di più che è ciò che, alla fine della fiera, ci distinguerebbe da ogni altra specie. Questo di più che è oggetto di se medesimo, e dunque autocoscienza, primo (non nel senso ontologico) inoggettuale della nostra esistenza.
Ma, proprio perché si dice inoggettuabile, esso è congetturabile – uno sguardo gettato sull’abisso dell’inesauribilità di senso. Cioè, in fin dei conti, ipotesi. Ipotesi in modo diverso dalle scienze naturali, ma ipotesi comunque. E l’ipotesi è indicazione della marcia da seguire e ricognizione del cammino già intrapreso.
Così insegna Cacciari, che afferma: ‹‹La libertà è una congettura: il nostro libero arbitrio è una congettura necessaria. E aggiungerei, per finire: non sono congetture un po’ tutte le nostre verità ultime? Tutto ciò che alla fine ci sta veramente a cuore, tutto ciò per cui alla fine davvero viviamo e a volte moriamo, non sono congetture? Proprio le congetture, gli errori originari, le insopprimibili supposizioni, lungi dall’essere le cose più deboli ed evanescenti della nostra vita, sono le cose più necessarie alla nostra vita? Nel nostro linguaggio, non sono proprio congetture ciò che ci è più proprio? Ciò che possiamo dimostrare, ciò che possiamo provare riguardo ai fenomeni, riguardo alle azioni, è ciò che ci sta davvero più a cuore? O piuttosto non ci sta più a cuore l’indimostrabile, l’inattingibile, l’incatturabile? La libertà appartiene a questo nostro proprio, a questo nostro fondamento assolutamente infondato, a questo nostro originario che non potrà mai essere analizzato come analizziamo le cose e i fenomeni. Vi è un destino, che avvertiamo nella nostra mente: in questa porzione di cosmo che è la nostra mente si mostra un destino, una necessità per noi: pensare che siamo liberi››.
Al di là delle disquisizioni metafisiche, sotto questo punto si nasconde un’operazione sottile che ha ampi risvolti nella discussione sul destino della nostra specie. La scienza, infatti, finisce così per essere derubricata a mera congettura sul nostro destino, diventando la proiezione (congettura) delle domande di senso sulla nostra storia. Inoltre, l’indimostrabilità, l’incatturabilità è ciò che sfugge al riduzionismo scientista, che nutre la speranza di far finire la storia – l’ultimo uomo non è il vincitore del conflitto tra mondo libero e impero sovietico, né colui che vive il compimento del pensiero come è immaginato da Hegel, bensì colui che ha visto ridurre tutte le proprie domande ad alcuni sparuti interrogativi, e questi risolti nel gioco delle elaborazioni chimico-fisiche e matematiche.
C’è allora ancora storia, che cresce su se medesima come il rapporto tra la norma fondamentale e le norme in Kelsen. La storia fa emergere la propria normatività – una normatività interna, immanente alla storia medesima – dopo ‹‹il fallimento della logica hegeliana, per l’impotenza del pensiero a far presa su di sé … ed il fallimento della nietzschiana volontà di potenza, riconosciuto dal suo stesso autore là dove parla della malattia strutturale dell’essere umano e dell’ascetismo come unica risposta data – sinora? solo sinora? – dall’umanità storica alla sua malattia››. Vincenzo Vitiello scardina la possibilità, nella sua ricostruzione filosofica della storia dell’Occidente, di una grande narrazione, o meglio della teologia politica quale si è data per millenni nel pensiero. Quindi, a rigore, neppure la scienza naturale può darsi come quel racconto in terza persona che crea non solo i personaggi, ma l’interiorità dei personaggi (in questo Verga è post-moderno), esaurendone la vita nell’arco della trama. E proprio perché la storia non veste più la maiuscola, non c’è altra norma che la norma a permettere questa minuscola della storia: la Grundnorm non è la norma fondamentale nel senso del fondamento, ma la chiave interpretativa che si ri-interpreta continuamente mano a mano che interpreta.
‹‹Dalla consapevolezza di questo duplice fallimento – dice Vitiello a proposito di Hegel e Nietzsche – muove il pensiero filsofico-giuridico della Grundnorm, che non è affatto il fondamento della Costituzione compreso nella Costituzione, come mal volle intendere lo scolastico [Carl Schmitt] che, andando ancora in cerca della sostanza-persona che regge la decisione – e mal gliene incolse: la trovò! -, imputava ad altri circoli logici che di vizioso avevano solo il mal volere e il peggio pensare del critico. La Grundnorm non è una norma né interna, né esterna alla Costituzione, perché non è una norma “reale”, ma “pensata”. Detto altrimenti: la Grundnorm è la normatività della norma, indeducibile da qualsiasi potere, volontà, comando – dacché, per poter imporre norme, la volontà ha da essere già normativa, e come tale “riconosciuta” da quegli stessi a cui la norma si rivolge! Talché il potere della decisione, che dovrebbe fondare la norma, presuppone il riconoscimento della sua imperatività da parte di coloro a cui la norma si rivolge››.
Grundnorm è lo tizerach, il comando “Tu non ucciderai” che impone come fa  “l’Agisci” di kantiana memoria. Ma questo “Tu non ucciderai” c’è perché non c’è la possibilità di compiere l’assoluto, quel quid che sfugge come si diceva più sopra. Vitiello ha parlato di altro, e ha riassunto la propria posizione, però lo tizerach ci richiama al fatto che ‹‹non posso determinare nulla di assoluto, se non posso conoscere l’assoluto: questo dice il divieto di uccidere. Un comando “prima” di ogni comando, un comando che fissa il limite d’ogni comando. Non una norma, un sentire. Che si sente – quando si sente. La sua contingenza assoluta spiega la sua incondizionata normatività, da nulla dipendente. “Tu non ucciderai” – è la Grundnorm: essa fissa la normatività d’ogni norma, ossia: il limite della normatività d’ogni norma››.
Niente può giustificare l’uccisione dell’altro – non solo nel senso che non lo si può ammazzare (come è ovvio), ma anche che non lo si può annientare. Non lo si può ridurre al mero positivo, non lo si può concettualizzare – il volto ci parla di una vita che ha un senso che trasborda i limiti che possiamo definire. Proprio perché è altro, totalmente altro da noi.

La cera e le mani umane
Il comando che dice: ‹‹Tu non ucciderai›› non deve indurre in errore: non è un assoluto quel che sentiamo, ma il corollario dell’impossibilità umana di compiere l’assoluto. È, dunque, l’esatto opposto di quel che crediamo. È la conseguenza del fatto che non è presente una trama da tessere, che l’alterità è sempre altra e non può essere ridotta. Significa una finitezza che non è solo quella ontologica, per cui tutto corre verso la fine, ma che io sono concluso in me, che solo di me e solo del mio vissuto posso avere ragione, e di nient’altro. Solo io non sfuggo a me stesso, solo io non sfuggo alla mia solitudine.
Questo mondo, allora, non è una totalità data, ma solo esperita da me. Finito, io creo un mondo finito a mia immagine, opero finitamente, e il senso che riesco a compiere è un senso finito. Soprattutto, io opero – forse non creo, poiché il creare significa un trarre ex-nihilo, e ciò presuppone un fondamento all’essere – io faccio il mondo e faccio me stesso. L’uomo, allora, è sempre artificiale, e l’importante è che egli capisca di esserlo, e che il suo operare si rivolge, innanzi tutto, a se medesimo e che si tratti di un operare limitato con gravi rischi.
‹‹Già Anassagora diceva che l’uomo è intelligente perché ha le mani: per questo si può dire che l’uomo – nota Salvatore Natoli, nella sua relazione del 23 giugno – è l’animale artificiale per natura o meglio quell’animale che più che adattarsi alle condizioni date le ha piuttosto adatte a sé e così ha disposto il mondo-ambiente a proprio vantaggio››.
La differenza, allora, tra il passato e il presente non è la tecnica, perché la tecnica c’è sempre stata, e il mondo è stato sempre indagato per poterlo adattare. La differenza sta nel ‹‹rischio››:  la nostra è l’epoca del rischio, e per tenere sottocontrollo il rischio della tecnica serve un uso responsabile della tecnica stessa.
Ora, qui sorge un problema: chi usa la tecnica? e chi ne è responsabile? L’uomo, si direbbe. Bene, ma quale uomo? in che senso uomo? Dice Barcellona che la nostra è una crisi antropologica. Se non sappiamo cosa sia o come debba essere un uomo, allora abbiamo problemi anche ad educarlo: ogni atto maieutico potrebbe essere un travisamento, uno snaturamento. Ma, ancor più in profondità, noi viviamo una crisi metafisica: non abbiamo più ragioni da apporci vicendevolmente. Viviamo, cioè, una società post-sociale e pure “postumana” – almeno in un certo senso, almeno nel senso in cui il riconoscimento dell’altro è momento portante della costruzione della nostra identità, come la direbbe Barcellona.
Questa società postumana è quella indicata da Claudia Mancina, che ha avuto la forza ammaliatrice di un canto di sirena: coinvolgente la sua visione di laicità come ‹‹accettazione di un fatto: della pluralità delle opinioni››. Opinioni, dice Mancina, e non verità – forse perché la verità, proprio perché fondata, non può che essere una? Tant’è: opinioni e solo tali, e comunque pluralità di opinioni o di verità che si voglia dire, purché non accettiamo una reductio ad unum. Laico è anche il cattolico, nel momento in cui si mette in discussione nel suo rapporto con l’altro: potrà poi nell’intimo darsi le spiegazione che vuole del suo vissuto.
Ma ancor più interessante pare la contrapposizione che si poteva cogliere nella relazione tra narrazione e biografia. Finita l’epoca delle grandi storie scritte sulla base dei modelli storiografici di produzione filosofica, ciascuno ora può fare biografia, cioè scrivere la propria storia di senso senza l’incomodo di doverla assimilare alla storia di un’umanità che non esiste, e che mai è esistita nei termini delle descrizioni ideologiche.
Se non c’è più una grande narrazione di classe o di nazione, non ci può essere (?) neppure una narrazione scientista che neghi l’irripetibilità e l’irriducibilità della vita individuale, della biografia. E questa biografia, mentre è altra cosa dalla narrazione, lo è pure dall’ analisi biologista: non siamo vincolati alla storia come non lo siamo al nostro corpo. Noi siamo ciò che vogliamo essere, che abbiamo deciso di essere e che accettiamo di essere.
Rimane da capire- ma è un appunto marginale rispetto al tema che qui vogliamo trattare – come Mancina possa coniugare la  grande narrazione laica – quella narrazione che, per intenderci, vuole fare “laici” pure i “cattolici”! – con la biografia personale: avrebbe ancora senso una biografia che non collimi con la narrazione? Ma questa è appunto una domanda marginale.


Domande non marginali
Che i filosofi debbano apprendere qualcosa dagli scienziati è fuor di dubbio. Intanto, perché questi apprendono già da quelli. Dopo la liberalizzazione del metodo scientifico all’inizio del secolo scorso, è difficile incontrare (e lì dove si incontra, ne vedremo le disastrose ricadute) il pregiudizio del dato come indipendente dal soggetto che lo elabora. Il mondo è il frutto delle nostre interpretazioni (ma non è detto che le nostre interpretazioni siano il frutto del nostro arbitrio). Quando inizia l’avventura delle ricerca non è dato il punto di arrivo. C’è chi arriva e non crede di essere arrivato, e ce chi, come Colombo, per errore arriva più in là di dove avesse previsto (senza esserne mai pienamente cosciente). E, come il punto di arrivo, non è dato il punto di partenza. Perché la partenza è una domanda, e saperla formulare significa già avere una qualche idea di cosa bisogni chiedere. E sapere cosa sia “opportuno chiedere” significa avere una pre-comprensione dello spazio che si vuole esplorare. Quando Einstein dice che la creatività vale più del sapere non intende offrire puntelli alle vite estrose di chi, piuttosto che fare filosofia o scienza, vuol fare costume, e costume da bohemien. Vuole semplicemente notare che il conoscere dati non significa averne la chiave di lettura, né sapere dove questi pezzi del grande puzzle del mondo vadano messi. Essere creativi significa, allora, farsi le giuste domande, e questo, a sua volta,  pre-figurarsi l’immagine del disegno: un po’ come sapere di che colore siano i pezzi da collocare ai bordi del nostro puzzle.
Poi, una volta preso il via, i cartelli bisogna saperli leggere per non perdersi durante il cammino. I dati da soli non segnano il passo, non indicano il verso. Per questo, al di là del mitismo di chi abbisogna di palchi sui quali farsi banditore delle proprie pubblicazioni, riciclando oggi ciò che ritenemmo giù superato agli inizi del secolo scorso, i rapporti tra scienza e filosofia sono quelli descritti da Roberto Mordacci aprendo la seconda settimana di studi. La filosofia formula ipotesi, la scienza le verifica, entrambe si interrogano vicendevolmente. E Marco Bersanelli, astrofisico fra i promotori del progetto Planck, ha mostrato come senza lo stupore che muove l’uomo a problematizzare anche gli enti più comuni, non avremmo ricerca. Perché il cielo è il tetto dell’umanità, ma quanti di noi rimangono ore ed ore, e anni e anni a fissare quello della propria stanza? Non solo stupore, ma anche relazione. Il secolo XX ha visto tramontare l’eroica, quanto tracotante figura dello scienziato solitario, del genio individuale. Non che manchino svolte compiute dai singoli, anzi: le svolte sono ancora opera dei singoli. Ma l’orizzonte verso cui guardare è guadagnato grazie all’impegno e alla mole di dati di più gruppi di ricerca. Le spalle dei giganti sono oggi la storia del sacrificio di intere generazioni di ricercatori.
Chiediamoci: se la scienza è costruzione di uomini, possiamo lasciare a questi e solo a questi la scelta del mondo futuro? O possiamo stimmatizzarla, affermando che in fin dei conti non ci dice nulla di fondamentale? Quale scienza non parla di fondamento? Quale scienza non ci dice nulla dell’uomo? La scienza di cui parla Odifreddi è la medesima di cui ci parla Bersanelli? E la scienza che mette a disposizione dell’uomo la libertà di sé che i filosofi hanno così tanto propugnato, davvero è inferiore alla filosofia, se sa legare teoria e prassi – conoscenza di sé e produzione di sé – come i tanti discepoli di Socrate, nell’ultimo centinaio di anni (a partire da Nietzsche) hanno indicato?
Natoli dice che scienza e tecnica vanno di pari passo, che sempre sono state legate. Capire di più il mondo che viviamo significa già cominciare a viverne un altro. Vero, ma possono alcuni decidere per tutti e non solo del luogo in cui vivere ma dell’identità da vivere?
Inoltre, abbiamo visto che i laboratori scientifici sono, nel loro piccolo, delle agorà – insieme di soggetti parlanti regolati da leggi nient’affatto dissimili da quelle che regolano la vita collettiva nelle aziende, nelle facoltà, tra comunità diverse. Leggi scritte ma, soprattutto, leggi non scritte, che però hanno un impatto a volte assai più ampio dei codici. Ed è per questo che, mentre il filosofo dovrebbe chiedersi se, nella propria ricerca, si rivolga ad una comunità più estesa di quella con cui, volente o no, lo scienziato deve confrontarsi (e, dato lo stato accademico oggi imperante nel professionismo intellettuale, non pare proprio), tuttavia non può non porre la questione di una discussione ancora più ampia: quella dei fini della ricerca. Può l’operatore non chiedersi l’utilità del proprio operare? Può esistere un operare che sia scisso da colui che lo pone in essere?
Può esistere. Esiste già. E qui che si palesa il fallimento della filosofia come ultimo residuo di un mondo umano. Non certo del corso, che ha rappresentato un momento quanto meno di presa di coscienza del problema.


Una guerra di trincea
L’operazione che l’intellighenzia filosofica – consapevole o no-  sta portando avanti per arginare lo straripante dominio della scienza, pare ricalcare l’atteggiamento del contadino che, vistosi scappare i buoi, neppure si premura di chiudere la stalla, perché pensa che tanto non potranno che ritornare. E i buoi poi non ritornano, perché l’indifferenza con cui si accoglie la loro fuggita è la medesima con la quale si curava la loro permanenza.  
Si hanno delle buone ragioni nel credere che la scienza non può dare tutto quello di cui l’uomo abbisogni per sopravvivere. Come del resto accade anche in filosofia, da anni attraversata dalle istanze delle “pratiche filosofiche”, che le rimproverano quell’astrattismo e quell’aridità vitale che essa rimprovera, a sua volta, alle scienze.
Ma buone ragioni non sono verità, e quantunque ci si abbia provato a farla fuori o a sostituirla con altro, la verità pare ancora l’unico elemento capace di far diventare un buon discorso un’esperienza di vita – un’esperienza vera. Senza verità, infatti, non c’è esperienza, ma pratiche logiche da sbrigare: cosa appare oggi esperienza vitale la filosofia – e con questa intendiamo la riflessione sul destino proprio e su quello collettivo, nonché sulla struttura del reale – o la scienza? Chi delle due è oggi simbolo, cioè segno che è anche minimo comune denominatore, un mettere insieme, un patto, una relazione che indica lo spazio condiviso, l’esperienza con-vissuta da più persone che spezzano la “tessera hospitalitatis”?
Questo sono le scienze oggi: simbolo, segno radicato nell’immaginario collettivo. E perché ciò è avvenuto e continua ad avvenire ogni giorno? Potremmo risolvere la faccenda col richiamo ad un particolare ‹‹evento›› storico o a una epoca. Succede che si pensi alla storia come al fatto che si auto-sancisce, si autogiustifichi. Il particolare ci siamo abituati a pensarlo come irriducibile. Però ciò non spiegherebbe comunque il perché l’‹‹evento›› scientifico si sia esteso così tanto – nella storia e nello spazio – da assumere i caratteri dell’epocalità. C’è dell’altro, evidentemente.
Davide Rondoni ha spiegato che l’arte rientra tra le quattro, cinque cose che gli uomini hanno sempre fatto dacché ne abbiamo memoria. E l’arte – se non interpretiamo male il pensiero del noto poeta – è un po’ come il tracciato dell’attività cardiaca o celebrale: fintanto che scorre, e non si appiattisce, c’è vita. E per questa vita non bastano le scienze. Ci dicono troppo poco. ‹‹L’azione e il movimento dell’artista come movimento di “ob-audienza” obbedienza e tensione di conoscenza, non come esibizione della personalità. Si tratta di “esprimere” (Eliot) non di creare uno stato d’animo››.  Ma se è obbedienza e tensione di conoscenza, l’arte ci dice qualcosa di vero sul reale. Ora c’è da chiedersi se qualcosa del genere non venga fatta (o se, al limite, così venga percepita) dalla scienza.
La scienza ha sostituito arte e filosofia, perché queste non sono più state capaci di dirci qualcosa che venisse percepito come “reale”. E non è un caso che il pensiero debole lo è stato solo nei libri dei filosofi, mentre non veniva meno la fiducia nei laboratori e nei loro ritrovati.
L’astrofisico Bersanelli, più volte durante il suo intervento, ha usato la parola fatto. Ovviamente, non intendeva una verità tutta intera, priva di ogni possibile storia che non fosse quel passato in cui, pian piano, è venuta dis-velandosi. Voleva semplicemente dire che quello che ci mostrava era una verità costata anni di ricerche, consona alle attualità capacità umane e passibile di ulteriore approfondimento. Ma che quella non fosse un’illusione, e che lo spirito umano avesse tutte le sue buone ragioni per considerare ciò di una certa importanza, egli non lo metteva in dubbio. Non metteva in dubbio che la sua esperienza professionale fosse anche una esperienza umana (e viceversa), né che questa esperienza avesse un suo fine.
Certamente, la filosofia, per lo statuto che ha e per i fini che persegue, è ricerca che si inabissa di più, e dunque non possiamo pretendere che si esprima e ci rassicuri come le scienze naturali. Filosofare è scavare alla fonte di un corso carsico. Con la filosofia vogliamo sapere perché il letto del fiume (il mondo che ci danno le scienze) si articoli così com’è. Ma non possiamo non notare che, più che una rivoluzione, si è trattato di una abdicazione non richiesta. Le scienze non hanno tolto nulla a nessuno, né hanno mutato nulla che non fosse già mutato. Hanno tentato con i propri mezzi di colmare il vuoto.
La filosofia le ha sfidate sul loro campo, dando loro perfino un vantaggio. Che abbia perso la sfida non dovrebbe sorprendere. Sorprende di più che non l’abbia rilanciata a sua volta.
E lo sguardo di sufficienza con il quale si analizza la situazione attuale, fa pensare che non si abbia poi così chiaro il baratro verso cui si è spinta l'umanità. Con l'aggravante di proporre il proprio impulso come risoluzione. Possono, infatti, darsi come risolutive talune posizione che, a ben guardare, sono animate dalla stessa logica che dicono di voler combattere o quanto meno limitare?
La scienza di Galileo è culminata nella filosofia di Hegel, così come la filosofia di Nietzsche nella biologia di James Watson. Il nazismo, in questo caso, non c'entra niente, ma la volontà di potenza dell'uomo sì, ed è questa che i filosofi invitati a parlare nella scuola non hanno saputo depotenziare. Senza il fondamento, che è anche limite, perché non dovremmo spingerci a congetturare che la scienza sia l'ultima parola - la più recente almeno - sulla nostra esistenza? Perché non dovremo correre il rischio di farci ciò che vogliamo? In fin dei conti, qualcuno ricorda un passo per l'umanità che non abbia comportato seri rischi? L'era atomica voleva annientarci dall'esterno - così ci sembrava, ma era comunque qualcosa che si muoveva nelle nostre interiora. Oggi, rischiamo di spegnerci, di essere un'umanità "post-umana". Ma perché non dovremmo? Perché non potremmo fare con le nostre mani quello che desidera il nostro spirito? E - ancora- perché la biografia personale non potrebbe collimare con la grande narrazione scientista? A ben vedere, sembrerebbe l'opposto. Sembrerebbe che, proprio in questo caso, vi sia una perfetta saldatura tra come io mi vedo quale individuo e come io mi vedo come appartenente ad una specie.
In definitiva, la filosofia ha giocato con detonatori assai più potenti degli atomi che temeva, e il prodotto le è esploso in mano. Ma ancora si stenta a prendere coscienza di quello che è accaduto, di come l'ultima forma di alienazione sia l'alienazione generazionale, cioè il mio corpo (e dunque, per alcuni aspetti io stesso) prodotto della volontà di chi mi ha preceduto. Almeno, fino a quando si avrà coscienza di una apparente differenza tra il naturale come l'indisponibile e la volontà come l'artefatto. Poi, semplicemente, ci spegneremo. Come l'umanità nelle Particelle elementari di M. Houellebecq.
"Perché la scienza non può essere la filosofia della specie post-umana?" - questa la domanda a cui non si è risposto nelle due settimane di studi. Ma Barcellona non tema: il suo problematicismo ha fatto breccia, proprio quando qualcuno credeva di averlo (r)aggirato.


Antonio Giovanni Pesce.

Il Ponte non c'è. La Sicilia neppure

Il Ponte non c’è. La Sicilia neppure 


di Antonio G. Pesce – Dove non arrivano i siciliani, arrivano gli altri. Noi siamo amletici. Noi siamo poetici, ci piace il mare. E il rischio che, col Ponte sullo Stretto, non ci fossero più i traghetti, e le belle file a Villa nel pienone di agosto, ci stringeva il cuore. Così l’Europa, nonostante ci tenga molto alla Sicilia e ai siciliani (e, in generale, a tutti i popoli che non siano degnamente rappresentati da una banca), ha tagliato la testa al toro. Che, in questo caso, è il corridoio n.1 Berlino-Palermo. È? Era! Perché nella proposta di bilancio per il 2020 – tra parentesi: questi discutono un bilancio 8 anni prima, quando riescono a malapena a salvare la moneta unica dall’attuale crisi! – il corridoio n.1 è stato sostituito da quello n.5 Helsinki-Valletta. A pesare pare siano i ritardi, e l’eterne posizione ondivaghe di società civile, Stato, politica, ecc.
Per evitare la Sicilia, che fa di tutto per farsi evitare, si arriverebbe a Napoli e poi si taglierebbe per Bari, proseguendo in nave per Malta. Dico: M A L T A ! Di tutto, insomma, pur di non arrivare in Sicilia. Del resto, noi abbiamo fatto di tutto: già il governo era intenzionato solo a parole, dato che ai leghisti la cosa – è notorio – non è mai garbata. Poi siamo arrivati noi, con la nostra poesia, la paura della mafia, l’impatto ambientale, e tante altre scuse, sotto le quali si nasconde una paura matta del futuro che non sia quello dei diritti civili, e della tecnologia che non sia quale dei nuovi Frankestein.
In questa diatriba contro il Ponte, senza alcuna alternativa che non i traghetti classe 1949, abbiamo dovuto sentire perfino il dirigente ‘paesano’ del Pd affermare: ‹‹A che serve il Ponte, se da Sciacca a Messina ci vogliono quattro ore di macchina?››. Come chiedere la chiusura degli aeroporti lombardi, perché dalla Valtellina li si raggiunge dopo un paio di ore di tornanti tra le montagne.
Stiamo tranquilli, però. Non siamo soli. Siamo in buona compagnia noi siciliani. In queste settimane c’è stata guerriglia al Nord per la Tav. E qualche mese fa abbiamo fatto un referendum per impedire che continuasse la ricerca sul nucleare. Tutto giusto, per carità. Soltanto che, intanto, il mondo va da tutt’altra parte. Capisco: noi siamo il Paese delle eccezioni. Da noi c’è sempre una buona ragione per non fare qualcosa: la friabilità del terreno, gli stormi di uccelli, il bimbo che prende freddo, ecc. Tutto giusto. Però, una buona volta è bene decidersi da che parte andare. Basta dirlo, e in poco tempo possiamo tirare fuori dalla cantina il carretto del nonno. Sperando di trovare ancora un mulo pronto a tirarlo, senza opporci qualche diritto.


Pubblicato il 26 luglio 2011 su Catania Politica

21 luglio 2011

Davvero il problema del Nord è il Sud?


Se sono fondate le analisi che stiamo leggendo, la manovra in approvazione avrà un impatto di circa 70 miliardi di euro. I mercati, divenuti d’un tratto interlocutori credibili – ultimo tabù, speriamo, a cadere sotto i colpi della liquidità post ideologica del mondo secolare – avranno di che consolarsi, e forse per un poco, oltre alla calura di questi giorni, l’Italia godrà del refrigerio borsistico, che solitamente segue alla follia.
Con un po’ di memoria, senza scomodare altri esempi sparsi in 150 anni di storia patria, possiamo ritornare al 1992, quando l’allora capo del governo, Giuliano Amato, varò una manovra di 70 miliardi di vecchie lire, metà di quella attuale, pur non essendo la nazione cresciuta più del doppio negli ultimi vent’anni. Allora si sudò sangue, ma venivamo da almeno un decennio di spese pazze, e solo l’estate precedente, con Eltsin in Russia, si concludeva la contrapposizione bipolare, dalla quale l’Italia aveva saputo trarre giovamento, anche grazie all’alleato americano che ci doveva un paio di basi militari ad alto contenuto nucleare. Insomma, avere qualche acciacco a quarant’anni, dopo averne passati metà a godersi (o rovinarsi, fate voi) la salute col fumo e l’alcol, ci può anche stare.
Oggi, invece, veniamo da un ventennio di disillusioni, che hanno lasciato una così marcata traccia di sé, da segnare perfino il volto del movimento-partito (non s’è mai capito) che allora pur prometteva qualcosa. Nelle parole di Matteo Salvini c’è tutta la confusione di quella Lega, che nel ‘92 rappresentava la novità ed ora vediamo inabissarsi col suo mentore.
Mentre l’Italia è fatta oggetto di attacchi speculativi, ci si aspetterebbe una lettura della vicenda un po’ più complessa di quella data qualche giorno fa. Durante la campagna elettorale si possono benissimo ridurre i problemi di questa nazione ad un divario tra il Nord e il Sud, col primo che deve trascinare come zavorra il secondo. Se la politica è mera conquista e gestione del potere, si fa difficile tracciare una netta separazione tra ciò che è deplorevole e ciò che non lo è nel raggiungimento di tale scopo. E, ad onor del vero, la Lega Nord non ha potuto godere neppure di esempi edificanti, sia che venissero da destra che da sinistra. Per chi, poi, si definisce Un italiano di Sicilia, secondo l’espressione che dà il titolo al libro di memorie di Nino Milazzo, nessuno scandalo che il Meridione venga criticato anche duramente. Anzi, semmai ciò che più lo addolora, è che non si sia mai andati oltre una generica richiesta di responsabilità, lasciando immutato il quadro politico.
Quel che stupisce, nella lettura leghista dell’attuale situazione, è il relativo ottimismo, quando invece, presi dall’angoscia, bisognerebbe chiedere un capovolgimento ancor più radicale di qualsivoglia secessione politica o economica. Il buon Seneca lo insegnava a Lucilio: «Non il tetto sotto cui abiti, ma il tuo spirito devi mutare». L’Italia divisa in due non sarà comunque immune dall’oligarchismo gerontocratico che la sta sfinendo col suo lezzo di putredine. Noi siamo una nazione in decadenza, rosa dall’interno come ogni corpo vocato alla morte. Dal 2008 ad oggi potevamo avere ben più d’un’occasione per cambiare tutto. Non abbiamo, invece, mutato nulla.
Senza la chiara visione di questo tremendo male, non si va da nessuna parte. L’Italia è un paese ingessato, iniquo e corrotto. La nostra ricchezza ‘padana’ non è comparabile con quella bavarese. Essere ricchi non è una quantità, è una qualità; non è aver soldi, ma saperli produrre. E il nostro capitalismo, da Tangentopoli agli ultimi scandali di ‘loggia’, passando per l’assistenzialismo della Cassa del Mezzogiorno (nel cui libro paga figuravano la mafia, la politica e l’industria, grande e media, del Nord), fino a quello automobilistico, ha perso la propria verginità anni orsono.
Davvero il problema del Nord è il Sud? Negli ultimi dieci anni sono usciti dalle nostre scuole superiori, verso il mondo del lavoro, qualcosa come sei milioni di diplomati semianalfabeti. Le nostre Università sono fanalino di coda in ogni graduatoria mondiale, e l’innovazione tecnologica è sporadica come i brevetti che registriamo. Non abbiamo un costo del lavoro appetibile, una magistratura snella per risolvere i contenziosi, e per inverso possiamo vantare un mastodontico Leviatano burocratico. Inoltre, perfino gli enti meno virtuosi, piuttosto che essere commissariati, vengono foraggiati dalle casse centrali: emblematico il caso di Catania, dove all’indomani dell’elezione alla Camera del sindaco uscente, Umberto Scapagnini, si scoprì una voragine di tali proporzioni nei conti pubblici del Comune da far temere il fallimento. Puntualmente, piuttosto che un commissario, arrivarono 140 milioni di euro, con la Lega silente. La quale, del resto, ha abbandonato ogni velleità rivoluzionaria: i simboli parlano, e se ieri i ministeri andavano ridotti, oggi la Lega se li vuole portare in casa. Roma capta, ferum victorem cepit.
Fiaccati nello spirito dunque, senza alcuna voglia di portare il duro giogo della povertà, e con neppure la speranza di qualcosa di nuovo sul fronte politico. Peggio, c’è solo questa attesa che solo un Dio possa salvarci.

Pubblicato il 16 luglio 2011 su TheFrontPage

Hanno scippato Catania

Hanno scippato Catania 
di Antonio G. Pesce – ‹‹Voi non sapete cosa sia stata questa zona negli anni Sessanta››. C’è una malinconia di fondo, percorrendo le vie deserte della zona industriale di Catania. Con noi, chi quella zona l’ha vista pullulante di gente, e poi svuotarsi pian piano. Malinconici binari della ferrovia, che entrano ancora dentro capannoni ormai abbandonati.
‹‹La mattina arrivavano almeno una trentina di autobus. L’Amt aveva i prezzi ridotti, e una linea ogni ora, oltre a tre mezzi ogni mezz’ora nelle ore di punta››. Malinconici cani randagi oltrepassano cancelli arrugginiti, cigolanti con le folate di vento che spazzano l’afa degli ultimi giorni.
‹‹Mi fa male la cosa. Mi fa molto male ripensarci. Vedi quei canali di scolo? Non c’erano, o meglio non erano così. Lì c’erano della latrine, una puzza che non ti dico. I viali non avevano nomi, ed c’erano cumuli d’immondizia dappertutto. Un ingegnere milanese mi chiese come potessimo permettere tutto questo. Però, si lavorava. Lì c’era l’altoforno››.
C’è una Catania che non entra mai nei discorsi politici, nelle disquisizioni accademiche, nelle attività culturali. Troppo impegnati a parlare di un futuro che non si riesce a progettare, ci stiamo perdendo la Catania che è stata, e che non tornerà mai più. ‹‹Era un’altra Catania – ci dice un poco commosso, come non lo abbiamo mai visto, se non in altre e ben più doloroso vicende – Stavo aspettando mio fratello. Doveva fare un colloquio. La fabbrica era lì, in quel cancello. Io lo aspettavo seduto fuori. Poi, esce un signore. Mi chiede che stessi facendo lì. Gli dico che aspettavo mio fratello, che era venuto a portare la domanda per il lavoro. Allora non si chiamava curriculum. Noi dicevamo ‘domanda’. Lui mi dice: “Ma tu voglia di lavorare non ne hai”. Io gli dico sì, ce l’ho, ma non ne trovo. Ero appena stato licenziato da un’altra fabbrica. Lavoravo nella zona industriale dai 14 anni. Lui mi porta dentro, chiama un tizio e gli dice: “ragioniere, faccia la domanda di assunzione a questo ragazzo, che non vuole lavorare”. Capisci? C’era tanto lavoro, che il disoccupato non era contemplato. Si chiamava ‘lavativo’. Come hanno potuto scipparci questa bella Catania?››.
Piccoli brani di una conversazione. In macchina. Non siamo al bar della politica. Qui la verità è un volto che ti guarda commosso. È una vita che conosci, e delle cui rughe puoi raccontare la storia. Un’esistenza da lavoratore, sotto le lamiere infuocate di luglio, quando a turno gli operai si mettevano a sparare acqua sui tetti con le lance dell’antincendio, sperando di raffreddare quei forni.
Ora non c’è più nulla. Solo i ricordi dei padri, e qualcuno anche per i figli. Catania soffre la mancanza di lavoro. In tutti i settori. Falliscono le partite Iva. Le assunzioni nel comparto pubblico sono bloccate. La Sicilia avrà il più basso numero di immissioni in ruolo nella scuola che l’intera Penisola registri. L’industria, infine, è solo un discount svedese, o francese, o tedesco, o pure italiano. Ma una grande macchina che fa girare soldi, e non produce ricchezza.
Fa male, molto male quell’ultima domanda. ‹‹Come hanno potuto scipparci questa bella Catania?››.

Pubblicato il 21 luglio 2011 su Catania Politica 

Il volto nascosto della solitudine

Il volto nascosto della solitudine


di Antonio G. Pesce - Le grandi città sono da sempre produttrici di enormi quantità di solitudine. La vita nella metropoli è una vita anonima, sradicata dal rapporto intenso – il più delle volte perfino asfissiante – che l’individuo ha con la comunità nel piccolo centro, dove ancora oggi i cognomi sono sostituiti dalle ‘ingiurie’, dagli epiteti con i quali ci si riconosce, e con i quali si narra la storia della famiglia.
Non stupisce, allora, che si possa vivere nell’indigenza (e nell’indecenza), senza che la macchina pletorica dello Stato giunga a mettere ordine. Infatti, nella vicenda di incesto, di cui davamo notizia qualche giorno fa, che ha visto coinvolta una ‘famiglia’ della città, i primi a lanciare l’allarme sono stati i vicini, credendo che in quell’abitazione vi fosse un cadavere in decomposizione. Il cadavere c’era, ma non emanava alcun cattivo odore, e si attendeva la degna sepoltura. C’era anche, in una scatola, una bambina di appena due settimane, e tutt’intorno immondizie. Soprattutto, l’immondizia di dentro, il degrado dell’umano: l’incesto. La bimba, infatti, pare essere nata da un rapporto incestuoso tra la madre il fratello di lei.
Come ogni volta, il volto perbenistico delle città arrossisce, e per non dare conto della propria generale condotto, sforna una infinità di domande. Alcune, peraltro, fondate. Passi, infatti, che i servizi sociali non riescano a prevenire un incesto – seppur non impossibile, è comunque difficile – ma davvero non potevano sapere prima delle gravissime condizioni igieniche in cui viveva tutto il nucleo famigliare? Il territorio non va monitorato dall’occhio vigile della vicina di casa, sempre attenta ai fatti altrui e poco ai propri. Sapere e censire le sacche di sofferenza è un preciso dovere di chi è pagato per farlo, e si presume ne abbia le competenze. Se il lavoro non è soddisfacente, o non si è remunerati bene, lo si può sempre lasciare a qualcun altro, ché di disoccupati, anche molto qualificati, l’Italia miserabile di questi tempi non manca. Ma se si rimane al proprio posto fino ad ogni 27 del mese, si dovrebbe tentare di far di tutto per avere una rete di rapporti – con scuole, municipalità, parrocchie, ecc.
Certo, nessuno è infallibile, e nessun metodo è così perfetto per imbrigliare la realtà, che, come s’è visto, a volte supera la fantasia. Tuttavia, in questo specifico caso, si può dire, senza tema di smentita, che ogni cosa è stata fatta per evitarlo? Si può affermare con sicurezza, che si tratti di un singolo caso, che non inficia l’efficienza della struttura dei servizi sociali?
Un’ultima domanda andrebbe rivolta alla città intera. Dato per certo che tutta Catania soffre, quanto le elite di questa città stanno facendo per gli ultimi? Le tante logge di filantropi in carriere, piuttosto che ruggire nel chiuso di convegni e staccando assegni per belle lapidi, potrebbero sporcarsi le mani tra il fango degli ultimi. E i tanti giovincelli da sagrestia, che vogliono una ‹‹Chiesa più missionaria››¸ piuttosto che giocare a fare gli eretici con la chitarra da Bob Dylan in mano, potrebbero rimboccarsi le maniche, e asciugare loro il volto sanguinante del Cristo catanese. Infine, noi pennivendoli, che facciamo gli intellettuali e speriamo di salvare il mondo presentando qualche libro, e scrivendo di qualche momento di refrigerio culturale, potremmo raccontare il volto vero ed autentico della solitudine, quando l’uomo appare una bestia, più che angelo ed addirittura immagine di Dio.

Pubblicato il 19 luglio 2011 su Catania Politica 

Brevissimo consiglio comunale a Catania



Consiglio brevissimo 

di Antonio G. Pesce - Dopo la sfaticata di mercoledì, che ha portato all’approvazione del rendiconto 2010, nella seduta di ieri sera del Consiglio comunale in molti si sono dati latitante, prima e durante la seduta. Si capisce: non sia mai che si strafaccia. Non ci siamo abituati, né come italiani né come siciliani di Catania. È meglio andarci piano, ché col caldo che c’è, uno potrebbe anche sudare, seduto negli scanni di Palazzo degli Elefanti. Dunque, al mare.
Ma gli eroici stacanovisti rimasti, hanno tentato comunque di combattere il caldo, proseguendo la seduta del giorno precedente. Che si era conclusa (sempre per mancanza di numero legale), su una pregiudiziale proposta dal capogruppo Pid, Valeria Sudano. Ma prima di riprenderla, il presidente Marco Consoli ha chiesto all’aula un momento di raccoglimento in memoria del deputato, già professore e rettore dell’ateneo etneo, Ferdinando Latteri, morto ieri dopo una lunga malattia.
La discussione verteva sulla ‘verifica della quantità e la qualità di aree destinate alla residenza, alle attività produttive e la determinazione del prezzo di cessione’.
La Sudano aveva fatto notare che l’adeguamento dei prezzi secondo le statistiche Istat, aspetto su cui la relazione dell’assessore Roberto Bonaccorsi aveva molto insistito, avrebbe potuto essere anche illegittimo, dal momento che ogni anno il Consiglio approva una tariffa, e aveva chiesto un parere da parte dell’avvocatura. La pregiudiziale è stata respinta, ma in compenso è stato approvato un emendamento a firma della stessa Sudano, oltre che del capogruppo Mpa Salvo Di Salvo, del capogruppo Pd Rosario D’Agata e di altri.
Di seguito, il risultato delle due (ed uniche) votazioni svoltesi ieri. Alle 20.10, per mancanza di numero legale, la seduta è stata sciolta.

Pregiudiziale Sudano: non approvata

Balsamo assente
Barresi assente
Bellavia assente
Bonica astenuto
Bottino assente
Calanna assente
Castelli sì
Castorina assente
Cimino assente
Condorelli sì
Consoli sì
Corradi assente
Curia assente
D’Agata astenuto
Daidone assente
D’Avola assente
Di Salvo astenuto
Gelsomino assente
Giuffrida assente
Giustolisi assente
La Rosa Domenico assente
La Rosa Epifanio sì
Livolsi assente
Lo Presti astenuto
Marco assente
Marletta astenuto
Messina Alessandro si
Messina Manlio astenuto
Mirenda assente – sì
Montemagno assente
Musumeci assente
Navarria astenuto
Nicostra assente
Parisi assente
Porto astenuto
Raciti astenuto
Santagati astenuto
Sciuto assente
Sofia astenuto
Sudano sì
Trichini assente
Tringale astenuto
Trovato astenuto
Zammataro assente
Zappalà assente


Emendamento Sudano, Porto, Di Salvo, D’Agata et al. : approvato

Balsamo assente
Barresi assente
Bellavia assente
Bonica sì
Bottino assente
Calanna assente
Castelli sì
Castorina assente
Cimino assente
Condorelli sì
Consoli sì
Corradi assente
Curia assente
D’Agata assente
Daidone assente
D’Avola assente
Di Salvo sì
Gelsomino assente
Giuffrida assente
Giustolisi assente
La Rosa Domenico assente
La Rosa Epifanio assente
Livolsi assente
Lo Presti assente
Marco assente
Marletta sì
Messina Alessandro assente – sì
Maessina Manlio sì
Mirenda sì
Montemagno assente
Musumeci assente
Navarria assente
Nicotra assente
Parisi assente
Porto sì
Raciti assente
Santagati sì
Sciuto assente
Sofia assente
Sudano sì
Trichini assente
Tringale sì
Trovato sì
Zammataro assente
Zappalà assente

Pubblicato il 15 luglio 2011 su Catania Politica

14 luglio 2011

Sì al rendiconto, no a Cannizzo

Sì al rendiconto, no a Cannizzo 

di Antonio G. Pesce - A notte fonda il consiglio comunale di Catania ha approvato il rendiconto 2010. Il presidente Marco Consoli era stato perentorio: o si approvava entro il 17 luglio, o si rischiava il commissariamento da parte della ragione. Il che, visto quello sul commercio, non era proprio il caso.
La battaglia, però, c’è stata comunque, per quanto la possa dare un’opposizione che, seppur in questa occasione pare abbia agito di concerto, tuttavia rimane numericamente limitata. Così, i partiti della maggioranza, serrando le fila, hanno saputo superare le ben tre pregiudiziali presentate dalla minoranza. D’Agata, Castorina e la Lo Presti hanno tentato di far leva sulle contraddizioni dei partiti che appoggiano la giunta Stancanelli, ma per ben tre volte non hanno potuto che constatarne la compattezza.
Forse hanno considerato per evidente segnale di sfilacciamento, quello che potrebbe essere l’ennesimo collante di una maggioranza, che alla propria giunta di riferimento non le manda a dire. E che potrebbe darle un ulteriore colpo, magari chiedendo la testa dell’assessore Cannizzo. Perché Franz Cannizzo, assessore al commercio, è ormai oggetto di una interminabile sequela di critiche, quando addirittura non di piccate ironie per la propensione alle esternazioni da bacheca di Facebook, che non di dichiarazioni in aula. E questa maggioranza è ben diversa da quella che siede al parlamento nazionale. Qui, a Catania, forse perché Stancanelli non mostra molto appeal col carisma, non sono i partiti che poggiano sul governo, ma l’inverso.
L’artiglieria è quella di Salvo Di Salvo, capogruppo dell’Mpa a Palazzo degli Elefanti, il cui intervento, a dire il vero, era iniziato con una sfilettata al vetriolo. Gli erano parsi un po’ eccessivi i commenti, ascoltati nelle scorse sedute. Condivisibili, per alcuni versi, ma non capiva perché quelli personali. Cannizzo, dice ancora Di Salvo, è persona disponibile, basta iscriversi a Facebook e chiedergli l’amicizia per sapere quello che fa, e che progetti abbia per una città come Catania in apnea economica. Certo, ci sarebbe da sapere del regolamento sulle edicole, sui chioschi, sui paninari, ma intanto, sempre da Facebook, apprendiamo che il l’assessore si fa ispettore, sequestra camioncini di panini, per poi doversi scusare l’indomani, avendo preso un abbaglio.
I colpi non sono sparati a salve. Montemagno (Misto-Api) vuole vedere fino a che punto si può tirare la corda. Fa notare a Di Salvo la mancanza di coraggio: c’è un problema di maggioranza politica, ed egli è pronto a votare la sfiducia a Cannizzo. Ma la maggioranza è pronta? Gli risponde Manlio Messina (Pdl), dicendo che non servono esempi di coraggio. La maggioranza il coraggio ce l’ha da sé, e se nella seduta dedicata al commercio – chiede a questo punto al presidente Consoli di indirla al più presto – l’assessore non si sarà presentato con le idee chiare, allora se ne prenderà atto.
E siamo al secondo colpo. Il terzo lo spara Valeria Sudano, capogruppo del Pid. Più che attendere di essere sfiduciato, l’assessore Cannizzo dovrebbe dimettersi: la sua delega è di fatto commissariata dalla regione. Domanda perfida (ce ne scusi la Sudano), come soltanto una donna, se vuole, sa farne: a che serve allora Cannizzo? Comunque, aggiunge la Sudano, la contestazione della maggioranza nei suoi confronti non è dovuta al fatto che l’assessore non riceva se non su Fb, ma perché sa reprimere l’abusivismo, senza avere un progetto chiaro e propositivo del commercio in città.
L’ultima bordata è stata tosta. Anche il Pd, con Lanfranco Zappalà, concorda. Conclude il ‘processo’ l’attacco di Manfredi Zammataro (La Destra-As): Cannizzo paladino della legalità? E perché? Perché fa chiudere quattro paninari? Suvvia, Catania è invasa da centri commerciali, che mettono tenda con una celerità incredibile; le licenze commerciali vengono concesse con parsimonia, tanto che chi vuol mettere su un’attività deve andarsene a comprarle a peso d’oro da altri … qui non c’è – si chiede retoricamente Zammataro – un problema di legalità?
Difficilmente, comunque, la tanto attesa seduta sul commercio sarà indetta prima di settembre, dovendosi ancora approvare il bilancio. Da qui ad allora, fossimo in Cannizzo spereremmo in un’estate meno torrida di quella che si sta profilando. Speriamo che il nostro mare riesca a rinfrescare i bollori già emersi.


Pubblicato il 14 luglio 2011 su Catania Politica

Elogio dei Lidi Plaia

Elogio della Playa 

di Antonio G. Pesce – Sono sicuro che anche questa volta l’amico Lele mi dirà: “L’hai fatta fuori dal vasino”. Come quando perorai una difesa d’ufficio del presidente del Consiglio, contro il moralismo allora (e ancora) imperante.
Lele vive in Sicilia. Ha visto in opera Stancanelli, la sinistra salottiera nostrana, l’autonomismo posticcio dell’Mpa e il liberalismo feudalista del centrodestra. E gli hanno rubato l’auto sotto casa, prima gliel’avevano tamponata, e più d’una volta è rimasto terrorizzato dal traffico. Insomma, Lele ha più d’un paio di buoni motivi per dirmi anche questa volta: “L’hai fatta fuori dal vasino”.
Immaginate, però, di non conoscere tutto questo. O che ne abbiate sentito parlare solo dalla bocca di un ometto verde, che mentre fa la morale all’inciviltà terrona si piazza il figlio disoccupato (e non proprio promettente) in Consiglio regionale. Immaginate, inoltre, di dover lasciare la vostra città, resa bollente da un’afa che toglie il fiato, e che il massimo che vi offre è il condizionatore e le zanzare dei laghi.
Che fate? Se seguite i telegiornali più modaioli del teleschermo, quali Tg4 e StudioAperto, allora vi recherete a Forte dei Marmi (prova fatta, ma non per amore di moda). Qui, il deretano di milioni di esseri umani dall’inizio del secolo scorso si è arrossato sotto il sole, ma soprattutto la vita si è incardinata nel conformismo di riti che solo la luna offre. Oggi è meta del turismo lombardo ed estero, soprattutto proveniente dall’est e dalla Germania. Gente, insomma, che si può permettere di giungervi con tanto di macchinone al seguito, e di pagare circa 55 euro per due sdraio e un ombrellone. Se vuoi spendere meno, ti aspetta una spiaggia attrezzata dal comune a 14 euro, o quella libera, i cui unici servizi sono offerti dai Vocumprà. Docce – se ci sono – sono abbastanza distanti.
E per goderti cosa, in definitiva? La Toscana è ben altro: è la sua campagna, è la sua arte che, in quest’ultimo caso, è arte di tutto il mondo. Ma non è il suo mare, non è la Versilia, questo immenso fondale sabbioso che solo alcuni si possono comprare. Agli altri restano le sudate sotto il sole cocente di luglio, aspettando radi autobus guidati da poco loquaci autisti (caso insolito di toscani), e ristoratori che neppure sanno di avere una stazione ferroviaria ad una cinquina di chilometri.
Metti che Lele si trovasse una domenica di luglio, ore 15 del pomeriggio, ad aspettare un bus di cui nessuno sa niente, e che dovrebbe portarlo ad un treno a cui tutti pare preferiscano le cilindrate dei Suv teutonici; davvero Lele direbbe che l’ho fatta fuori dal vasino, se intesso le lodi di Catania e dei suoi lidi Playa? Miraggio della disperazione, che fa apparire simpatico ed efficiente pure Stancanelli.
Catania è democratica. In coda al viale Kennedy si dannano tutti. Tu ci vai in autobus? E rimani imbottigliato! Ci vai con la vecchia Fiat 127 del nonno? E rimani imbottigliato. E se ci vai col macchinone? Pure! Inoltre, con 55 euro ti ci passi il fine settimana, portandoti dietro i marmocchi, la nonna con i reumatismi e la cugina che viene col puzzo sotto il naso dal tanto decantato nord. E ci stai da lusso.
Gli autobus – è vero – sono merce rara, e fai prima a vedere la carrozza del Senato uscire dal Comune che uno sbucare in via Vittorio Emanuele. Ma quando passa, la ‘corriera’ trabocca di gente ansimante, che semmai ti sommerge di informazioni, più che lasciarti a bocca asciutta. E i treni? Pochissimi. Però dove sia la stazione lo sanno tutti, e dalla stazione si può raggiungere la bellissima riva acese. E, se per caso, si decide di restare alla Playa, il gestore dell’impianto fa di tutto per accontentarti (soprattutto se sei forestiero: qui da noi si pecca, semmai, di troppa xenofilia).
Se quella domenica Lele fosse stato con me, avrebbe sentito chi mi diceva: “La Sicilia è stupenda. E voi siciliani molto gentili e accoglienti”. E allora non mi direbbe che la faccio fuori dal vasino, anche quando continuassi questo pezzo, chiedendo di impiccare chi fa di tutto per deturpare questa terra divina. E per farci agognare un’America, che potremmo invece avere a portata di una Fiat 127 e d’un paio di euro.

Pubblicato il 13 luglio 2011 su Catania Politica

Le capre, i pecoroni e la tomba di Verga

Le capre, i pecoroni, e la tomba di Verga 

di Antonio G. Pesce – La tomba di Verga fa parlare. Credetemi: non è un male. Non è male che, nel 150esimo anno dell’Unità, la nazione discuta del decoro e del rispetto che si deve ad uno dei suoi padri nobili. Contrariamente a quanto detto – o attribuitogli – da D’Azeglio, gli italiani ci sono sempre stati. Non c’era, fino al 17 marzo del 1861, lo Stato italiano, ed è dubbio che, da quel giorno in poi, abbia cominciato ad esistere. Se gli italiani ci sono sempre stati è merito di una discendenza di eroici compatrioti che, partendo da un certo Dante Alighieri da Firenze fino ad un certo siculo Gesualdo Bufalino, non si è data pace per insegnare ad un popolo che di imparare non vuole proprio saperne. E ancora oggi c’è chi crede non sia inutile sacrificarsi per questo.
Gli italiani mostriamo attenzione per la cultura come le capre per i paesaggi: qualcuno ha mai visto una capra preferire all’erbetta del pascolo la poesia di un bellissimo tramonto italico? No, però l’angoscia del fallimento economico e dello sbando politico che stiamo vivendo, porta ad interessarsi di una tomba che, per quanto io ne possa sapere, non è mai stata tenuta nella giusta considerazione. E, fino a qualche decennio fa, neppure la casa del Verga, sita in via Sant’Anna. L’attenzione mostrata dal sottosegretario ai Beni culturali, tale Riccardo Villari, non è piaciuta all’amministrazione comunale, che ha diramato un comunicato piccato dai toni assai polemici.
L’onorevole Villari, il cui curriculum culturale non spicca come non spicca quello del responsabile del dicastero, l’onorevole Galan, dimostra chiaramente, con suo interessamento, che il genio è apprezzato quando è morto – la fama è questione di tomba. Prima, c’è solo la disperazione. E infatti il governo, di cui i due attenti ‘verghiani’ fanno parte, si è prodigato più degli altri che lo hanno proceduto (già abbastanza attivi in tal senso) a far sì che il genio italico prendesse la fame oppure la via dell’estero. Non ci risulta altro tipo di impegno.
Stiano tranquilli al ministero: altri dieci anni così, e nessuno andrà più a vedere la tomba di Verga, semplicemente perché nessuno saprà più di Giovanni Verga. Siamo sulla buona strada. Una parte consistente dei neodiplomati non solo sa pochissimo di letteratura, ma non sa neppure chi sia Galan e Villari (e, fin qui, non si vede il danno), né quale funzione ricoprano (e qui sì che il danno c’è). Interrogati nei primi esami (e non solo nei primi) universitari, mostrano strane idee circa il ruolo del presidente della Repubblica e della distinzione tra governo e parlamento. Da quando lo studente è divenuto ‘cliente’ della scuola, i signori presidi fanno di tutto per non sacrificarne neppure uno al duro lavoro dei campi, spedendo più ragazzi possibili a fare modelli di sapienza su qualche ‘vetrina di centisti’.
Quindi, in soldoni, dal momento che l’umanità si sta spegnendo pian piano, e quella italica è ormai al lumicino, non prendiamoci molta cura dei morti. Il futuro è dei vivi, magari intercambiabili e clonabili come la massa crescente di pecoroni, che adora la Scienza e ne recita il Credo. Tuttavia, dal momento che ancora in questa nazione e in questa città ci sono dei vetusti ‘uomini’, che preferiscono estinguersi come dinosauri, piuttosto che riciclarsi come superuomini robotizzati, è bene che il signor sindaco di Catania tenga presente alcune cose. Innanzi tutto, che la tomba di Verga, come quella di ogni genio catanese, non è conservata nel modo che le si addice, ed inoltre che, con molti meno brani di civiltà, ci sono città estere che campano di turismo culturale. Che si può fare allora? Come valorizzare quei luoghi e quelle personalità che, oltre a dare lustro a Catania, hanno fatto grande l’intera nazione? Si potrebbe cominciare nominando un assessore alla cultura. E proseguire non prendendo esempio dal compare di Palazzo Chigi, e magari assegnando a quel ruolo una persona competente. Basterebbe trovare qualcuno che abbia conseguito la terza media, prima che le tanto rivoluzionarie innovazioni del ’68 facessero comparsa sulle cattedre della scuola e dell’università italiane.
Questo non servirà a far riprodurre meno velocemente le pecore. Servirà, quanto meno, a ricordare loro, che pur avranno l’ultima parola, che è esistito un mondo di pastori.

Pubblicato il 12 luglio 2011 su Catania Politica.