"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

27 luglio 2011

La ricerca scientifica e il futuro della specie


La ricerca scientifica e il futuro della specie

di Antonio G. Pesce




Dal 14 al 26 giugno si sono tenuti a Catania i lavori dell’alta scuola di formazione, promossa dalla fondazione Nova Universitas, sul tema ‹‹La ricerca scientifica e il futuro della specie››. Direttore scientifico ne è stato Pietro Bercellona, che ha moderato gli interventi e dei relatori, tutti di chiara fama nei loro ambiti di competenza, e dei giovani studiosi che si sono dati appuntamento.
L’intento che qui si vuole perseguire è, intanto, quello di un bilancio, per quanto sommario. ‹‹Ha colto il convegno l’obiettivo scientifico che si era proposto?›› – è la prima domanda a cui vorremmo dare, più avanti, una risposta il più possibile sincera e scevra da compiacimenti verso l’impegno profuso personalmente e da altri. Poi, sarà opportuno discutere la risposta: quali i motivi del successo, e quali quelli del fallimento. Infine, chiosare il risultato, qualora sia stato positivo, o proporre una possibile e alternativa soluzione, qualora si sia ritenuto che altra avrebbe dovuto essere la conclusione della discussione.

Un bilancio alternativo
All’inizio della seconda settimana, prima che Roberto Mordacci prendesse la parola per parlare dell’etica nelle neuroscienze, Barcellona ha proposto un primo bilancio, relativo ovviamente alla settimana trascorsa. Un bilancio assai ingeneroso verso il proprio operato, poiché ha affermato di sentirsi “bocciato”, non avendo visto il dialogo che si era augurato, all’inizio della scuola, tra filosofi e scienziati.
In effetti, il proposito di Barcellona era chiaro sin dalla stesura della sua relazione di presentazione del corso. La biotecnologia sta modificando – ha già modificato ‹‹alla radice il concetto della vita››, poiché le ‹‹odierne tecnologie … giocano con lo strumento primario del nostro rapporto col mondo, l’oggetto su cui si basa la nostra identità di esseri umani: la persona››. Dunque – notava il filosofo - ‹‹la crisi di civiltà è una crisi profonda dello statuto antropologico››. E concludeva indicando quale avrebbe voluto fosse il tenore degli interventi nella scuola: ‹‹Una riflessione su quest’arco tematico che non voglia restare sul terreno di una mera lamentazione di ciò che si è venuto perdendo della cultura umanistica deve misurarsi necessariamente con i contenuti che definiscono l’ambito di ciascun campo disciplinare o almeno i punti di riferimento fondamentali delle diverse aree del sapere››.
Ora, questo non è avvenuto. Non è avvenuto come Barcellona lo aveva previsto e come lo voleva. Non si è poi così sbagliato, quando ha affermato che, in taluni casi, seppur si è trattato di riflessioni di amplissimo respiro, condotte da autori che, certo, non hanno mai fatto mancare problematicità al proprio pensiero, tuttavia ciascuno è parso chiudersi nel proprio orizzonte di studi, e in alcuni casi approcciandosi con troppa sufficienza al campo altrui, o risolvendo sbrigativamente ciò che, sia ai giovani studiosi presenti sia allo stesso Barcellona, sembrava semmai oggetto di discussione più ampia.
La filosofia del ciclo di lezioni è la medesima che sembra essere la cifra degli scritti dell’ultimo Barcellona: problematicismo che non rinuncia, preventivamente come vogliono le mode attuali, alla bellezza di una soluzione, ma cosciente che per giungervi la strada è ‹‹stretta e piena di insidie››. E che proprio perché in ballo c’è il senso dell’esperienza umana – in ogni soluzione come momento di ogni successiva e più piena soluzione – non può lesinare impegno né accogliere illusioni.
Tuttavia, sia consentito proporre di quell’esperienza un bilancio alternativo, non per compiacenza anche verso chi lo propone e all’impegno che vi ha speso, oltre che verso quanti della scuola sono stati coordinatori, organizzatori e guide, ma proprio perché ne è possibile un altro. E intanto è bene chiedersi: davvero la mancanza di intesa tra filosofi e scienziati può essere rubricata come assenza di dialogo? E, se la mancanza di dialogo è scontro, magari edulcorato dalle buone maniere della civiltà e dalle usanze accademiche, non è forse vero che lo scontrarsi è una relazione comunque – il fatto non ancora pensato di questo incontro?
Filosofia e scienze naturali si sono parlate e pure tanto. Quel che è mancato è stato il riferimento al convitato di pietra degli ultimi quarant’anni. Nessun che si sia posto il problema di chi faccia filosofia e scienza, e se e per che cosa valga la pena farle. Se questo snodo non fosse stato eluso, allora avremmo pure avuto il risultato tanto sperato da Barcellona. Ma il solo fatto che di quelle due settimane si possa cogliere i limiti della filosofia e le aspirazione della scienze è un dato che non va sottovalutato.


La fondazione che non fonda
Mi pare che un filo sottile leghi tre degli interventi più attesi, e cioè le relazioni di Cacciari, di Vitiello e di Natoli: l’impossibilità di pensare compiutamente il fondamento. Aggiungerei anche quella di Carmine di Martino, seppur diversa dalle altre per il senso che il filosofo le ha voluto dare.
Un’estrema libertà di fondo, come le radiazioni cosmiche primordiali di cui ha parlato l’astrofisico Bersanelli. Una libertà che, potendosi tematizzare ma non concettualizzare, cioè esaurire nella compiutezza di un concetto, pare possa essere la risposta generale agli interrogativi della scienza. C’è qualcosa che non si può racchiudere, un di più che sempre sfugge, sia perché è la base di ciò che dovrebbe poi pensarlo, sia perché è superiore ai limite che dovrebbero concluderlo. Un di più che è ciò che, alla fine della fiera, ci distinguerebbe da ogni altra specie. Questo di più che è oggetto di se medesimo, e dunque autocoscienza, primo (non nel senso ontologico) inoggettuale della nostra esistenza.
Ma, proprio perché si dice inoggettuabile, esso è congetturabile – uno sguardo gettato sull’abisso dell’inesauribilità di senso. Cioè, in fin dei conti, ipotesi. Ipotesi in modo diverso dalle scienze naturali, ma ipotesi comunque. E l’ipotesi è indicazione della marcia da seguire e ricognizione del cammino già intrapreso.
Così insegna Cacciari, che afferma: ‹‹La libertà è una congettura: il nostro libero arbitrio è una congettura necessaria. E aggiungerei, per finire: non sono congetture un po’ tutte le nostre verità ultime? Tutto ciò che alla fine ci sta veramente a cuore, tutto ciò per cui alla fine davvero viviamo e a volte moriamo, non sono congetture? Proprio le congetture, gli errori originari, le insopprimibili supposizioni, lungi dall’essere le cose più deboli ed evanescenti della nostra vita, sono le cose più necessarie alla nostra vita? Nel nostro linguaggio, non sono proprio congetture ciò che ci è più proprio? Ciò che possiamo dimostrare, ciò che possiamo provare riguardo ai fenomeni, riguardo alle azioni, è ciò che ci sta davvero più a cuore? O piuttosto non ci sta più a cuore l’indimostrabile, l’inattingibile, l’incatturabile? La libertà appartiene a questo nostro proprio, a questo nostro fondamento assolutamente infondato, a questo nostro originario che non potrà mai essere analizzato come analizziamo le cose e i fenomeni. Vi è un destino, che avvertiamo nella nostra mente: in questa porzione di cosmo che è la nostra mente si mostra un destino, una necessità per noi: pensare che siamo liberi››.
Al di là delle disquisizioni metafisiche, sotto questo punto si nasconde un’operazione sottile che ha ampi risvolti nella discussione sul destino della nostra specie. La scienza, infatti, finisce così per essere derubricata a mera congettura sul nostro destino, diventando la proiezione (congettura) delle domande di senso sulla nostra storia. Inoltre, l’indimostrabilità, l’incatturabilità è ciò che sfugge al riduzionismo scientista, che nutre la speranza di far finire la storia – l’ultimo uomo non è il vincitore del conflitto tra mondo libero e impero sovietico, né colui che vive il compimento del pensiero come è immaginato da Hegel, bensì colui che ha visto ridurre tutte le proprie domande ad alcuni sparuti interrogativi, e questi risolti nel gioco delle elaborazioni chimico-fisiche e matematiche.
C’è allora ancora storia, che cresce su se medesima come il rapporto tra la norma fondamentale e le norme in Kelsen. La storia fa emergere la propria normatività – una normatività interna, immanente alla storia medesima – dopo ‹‹il fallimento della logica hegeliana, per l’impotenza del pensiero a far presa su di sé … ed il fallimento della nietzschiana volontà di potenza, riconosciuto dal suo stesso autore là dove parla della malattia strutturale dell’essere umano e dell’ascetismo come unica risposta data – sinora? solo sinora? – dall’umanità storica alla sua malattia››. Vincenzo Vitiello scardina la possibilità, nella sua ricostruzione filosofica della storia dell’Occidente, di una grande narrazione, o meglio della teologia politica quale si è data per millenni nel pensiero. Quindi, a rigore, neppure la scienza naturale può darsi come quel racconto in terza persona che crea non solo i personaggi, ma l’interiorità dei personaggi (in questo Verga è post-moderno), esaurendone la vita nell’arco della trama. E proprio perché la storia non veste più la maiuscola, non c’è altra norma che la norma a permettere questa minuscola della storia: la Grundnorm non è la norma fondamentale nel senso del fondamento, ma la chiave interpretativa che si ri-interpreta continuamente mano a mano che interpreta.
‹‹Dalla consapevolezza di questo duplice fallimento – dice Vitiello a proposito di Hegel e Nietzsche – muove il pensiero filsofico-giuridico della Grundnorm, che non è affatto il fondamento della Costituzione compreso nella Costituzione, come mal volle intendere lo scolastico [Carl Schmitt] che, andando ancora in cerca della sostanza-persona che regge la decisione – e mal gliene incolse: la trovò! -, imputava ad altri circoli logici che di vizioso avevano solo il mal volere e il peggio pensare del critico. La Grundnorm non è una norma né interna, né esterna alla Costituzione, perché non è una norma “reale”, ma “pensata”. Detto altrimenti: la Grundnorm è la normatività della norma, indeducibile da qualsiasi potere, volontà, comando – dacché, per poter imporre norme, la volontà ha da essere già normativa, e come tale “riconosciuta” da quegli stessi a cui la norma si rivolge! Talché il potere della decisione, che dovrebbe fondare la norma, presuppone il riconoscimento della sua imperatività da parte di coloro a cui la norma si rivolge››.
Grundnorm è lo tizerach, il comando “Tu non ucciderai” che impone come fa  “l’Agisci” di kantiana memoria. Ma questo “Tu non ucciderai” c’è perché non c’è la possibilità di compiere l’assoluto, quel quid che sfugge come si diceva più sopra. Vitiello ha parlato di altro, e ha riassunto la propria posizione, però lo tizerach ci richiama al fatto che ‹‹non posso determinare nulla di assoluto, se non posso conoscere l’assoluto: questo dice il divieto di uccidere. Un comando “prima” di ogni comando, un comando che fissa il limite d’ogni comando. Non una norma, un sentire. Che si sente – quando si sente. La sua contingenza assoluta spiega la sua incondizionata normatività, da nulla dipendente. “Tu non ucciderai” – è la Grundnorm: essa fissa la normatività d’ogni norma, ossia: il limite della normatività d’ogni norma››.
Niente può giustificare l’uccisione dell’altro – non solo nel senso che non lo si può ammazzare (come è ovvio), ma anche che non lo si può annientare. Non lo si può ridurre al mero positivo, non lo si può concettualizzare – il volto ci parla di una vita che ha un senso che trasborda i limiti che possiamo definire. Proprio perché è altro, totalmente altro da noi.

La cera e le mani umane
Il comando che dice: ‹‹Tu non ucciderai›› non deve indurre in errore: non è un assoluto quel che sentiamo, ma il corollario dell’impossibilità umana di compiere l’assoluto. È, dunque, l’esatto opposto di quel che crediamo. È la conseguenza del fatto che non è presente una trama da tessere, che l’alterità è sempre altra e non può essere ridotta. Significa una finitezza che non è solo quella ontologica, per cui tutto corre verso la fine, ma che io sono concluso in me, che solo di me e solo del mio vissuto posso avere ragione, e di nient’altro. Solo io non sfuggo a me stesso, solo io non sfuggo alla mia solitudine.
Questo mondo, allora, non è una totalità data, ma solo esperita da me. Finito, io creo un mondo finito a mia immagine, opero finitamente, e il senso che riesco a compiere è un senso finito. Soprattutto, io opero – forse non creo, poiché il creare significa un trarre ex-nihilo, e ciò presuppone un fondamento all’essere – io faccio il mondo e faccio me stesso. L’uomo, allora, è sempre artificiale, e l’importante è che egli capisca di esserlo, e che il suo operare si rivolge, innanzi tutto, a se medesimo e che si tratti di un operare limitato con gravi rischi.
‹‹Già Anassagora diceva che l’uomo è intelligente perché ha le mani: per questo si può dire che l’uomo – nota Salvatore Natoli, nella sua relazione del 23 giugno – è l’animale artificiale per natura o meglio quell’animale che più che adattarsi alle condizioni date le ha piuttosto adatte a sé e così ha disposto il mondo-ambiente a proprio vantaggio››.
La differenza, allora, tra il passato e il presente non è la tecnica, perché la tecnica c’è sempre stata, e il mondo è stato sempre indagato per poterlo adattare. La differenza sta nel ‹‹rischio››:  la nostra è l’epoca del rischio, e per tenere sottocontrollo il rischio della tecnica serve un uso responsabile della tecnica stessa.
Ora, qui sorge un problema: chi usa la tecnica? e chi ne è responsabile? L’uomo, si direbbe. Bene, ma quale uomo? in che senso uomo? Dice Barcellona che la nostra è una crisi antropologica. Se non sappiamo cosa sia o come debba essere un uomo, allora abbiamo problemi anche ad educarlo: ogni atto maieutico potrebbe essere un travisamento, uno snaturamento. Ma, ancor più in profondità, noi viviamo una crisi metafisica: non abbiamo più ragioni da apporci vicendevolmente. Viviamo, cioè, una società post-sociale e pure “postumana” – almeno in un certo senso, almeno nel senso in cui il riconoscimento dell’altro è momento portante della costruzione della nostra identità, come la direbbe Barcellona.
Questa società postumana è quella indicata da Claudia Mancina, che ha avuto la forza ammaliatrice di un canto di sirena: coinvolgente la sua visione di laicità come ‹‹accettazione di un fatto: della pluralità delle opinioni››. Opinioni, dice Mancina, e non verità – forse perché la verità, proprio perché fondata, non può che essere una? Tant’è: opinioni e solo tali, e comunque pluralità di opinioni o di verità che si voglia dire, purché non accettiamo una reductio ad unum. Laico è anche il cattolico, nel momento in cui si mette in discussione nel suo rapporto con l’altro: potrà poi nell’intimo darsi le spiegazione che vuole del suo vissuto.
Ma ancor più interessante pare la contrapposizione che si poteva cogliere nella relazione tra narrazione e biografia. Finita l’epoca delle grandi storie scritte sulla base dei modelli storiografici di produzione filosofica, ciascuno ora può fare biografia, cioè scrivere la propria storia di senso senza l’incomodo di doverla assimilare alla storia di un’umanità che non esiste, e che mai è esistita nei termini delle descrizioni ideologiche.
Se non c’è più una grande narrazione di classe o di nazione, non ci può essere (?) neppure una narrazione scientista che neghi l’irripetibilità e l’irriducibilità della vita individuale, della biografia. E questa biografia, mentre è altra cosa dalla narrazione, lo è pure dall’ analisi biologista: non siamo vincolati alla storia come non lo siamo al nostro corpo. Noi siamo ciò che vogliamo essere, che abbiamo deciso di essere e che accettiamo di essere.
Rimane da capire- ma è un appunto marginale rispetto al tema che qui vogliamo trattare – come Mancina possa coniugare la  grande narrazione laica – quella narrazione che, per intenderci, vuole fare “laici” pure i “cattolici”! – con la biografia personale: avrebbe ancora senso una biografia che non collimi con la narrazione? Ma questa è appunto una domanda marginale.


Domande non marginali
Che i filosofi debbano apprendere qualcosa dagli scienziati è fuor di dubbio. Intanto, perché questi apprendono già da quelli. Dopo la liberalizzazione del metodo scientifico all’inizio del secolo scorso, è difficile incontrare (e lì dove si incontra, ne vedremo le disastrose ricadute) il pregiudizio del dato come indipendente dal soggetto che lo elabora. Il mondo è il frutto delle nostre interpretazioni (ma non è detto che le nostre interpretazioni siano il frutto del nostro arbitrio). Quando inizia l’avventura delle ricerca non è dato il punto di arrivo. C’è chi arriva e non crede di essere arrivato, e ce chi, come Colombo, per errore arriva più in là di dove avesse previsto (senza esserne mai pienamente cosciente). E, come il punto di arrivo, non è dato il punto di partenza. Perché la partenza è una domanda, e saperla formulare significa già avere una qualche idea di cosa bisogni chiedere. E sapere cosa sia “opportuno chiedere” significa avere una pre-comprensione dello spazio che si vuole esplorare. Quando Einstein dice che la creatività vale più del sapere non intende offrire puntelli alle vite estrose di chi, piuttosto che fare filosofia o scienza, vuol fare costume, e costume da bohemien. Vuole semplicemente notare che il conoscere dati non significa averne la chiave di lettura, né sapere dove questi pezzi del grande puzzle del mondo vadano messi. Essere creativi significa, allora, farsi le giuste domande, e questo, a sua volta,  pre-figurarsi l’immagine del disegno: un po’ come sapere di che colore siano i pezzi da collocare ai bordi del nostro puzzle.
Poi, una volta preso il via, i cartelli bisogna saperli leggere per non perdersi durante il cammino. I dati da soli non segnano il passo, non indicano il verso. Per questo, al di là del mitismo di chi abbisogna di palchi sui quali farsi banditore delle proprie pubblicazioni, riciclando oggi ciò che ritenemmo giù superato agli inizi del secolo scorso, i rapporti tra scienza e filosofia sono quelli descritti da Roberto Mordacci aprendo la seconda settimana di studi. La filosofia formula ipotesi, la scienza le verifica, entrambe si interrogano vicendevolmente. E Marco Bersanelli, astrofisico fra i promotori del progetto Planck, ha mostrato come senza lo stupore che muove l’uomo a problematizzare anche gli enti più comuni, non avremmo ricerca. Perché il cielo è il tetto dell’umanità, ma quanti di noi rimangono ore ed ore, e anni e anni a fissare quello della propria stanza? Non solo stupore, ma anche relazione. Il secolo XX ha visto tramontare l’eroica, quanto tracotante figura dello scienziato solitario, del genio individuale. Non che manchino svolte compiute dai singoli, anzi: le svolte sono ancora opera dei singoli. Ma l’orizzonte verso cui guardare è guadagnato grazie all’impegno e alla mole di dati di più gruppi di ricerca. Le spalle dei giganti sono oggi la storia del sacrificio di intere generazioni di ricercatori.
Chiediamoci: se la scienza è costruzione di uomini, possiamo lasciare a questi e solo a questi la scelta del mondo futuro? O possiamo stimmatizzarla, affermando che in fin dei conti non ci dice nulla di fondamentale? Quale scienza non parla di fondamento? Quale scienza non ci dice nulla dell’uomo? La scienza di cui parla Odifreddi è la medesima di cui ci parla Bersanelli? E la scienza che mette a disposizione dell’uomo la libertà di sé che i filosofi hanno così tanto propugnato, davvero è inferiore alla filosofia, se sa legare teoria e prassi – conoscenza di sé e produzione di sé – come i tanti discepoli di Socrate, nell’ultimo centinaio di anni (a partire da Nietzsche) hanno indicato?
Natoli dice che scienza e tecnica vanno di pari passo, che sempre sono state legate. Capire di più il mondo che viviamo significa già cominciare a viverne un altro. Vero, ma possono alcuni decidere per tutti e non solo del luogo in cui vivere ma dell’identità da vivere?
Inoltre, abbiamo visto che i laboratori scientifici sono, nel loro piccolo, delle agorà – insieme di soggetti parlanti regolati da leggi nient’affatto dissimili da quelle che regolano la vita collettiva nelle aziende, nelle facoltà, tra comunità diverse. Leggi scritte ma, soprattutto, leggi non scritte, che però hanno un impatto a volte assai più ampio dei codici. Ed è per questo che, mentre il filosofo dovrebbe chiedersi se, nella propria ricerca, si rivolga ad una comunità più estesa di quella con cui, volente o no, lo scienziato deve confrontarsi (e, dato lo stato accademico oggi imperante nel professionismo intellettuale, non pare proprio), tuttavia non può non porre la questione di una discussione ancora più ampia: quella dei fini della ricerca. Può l’operatore non chiedersi l’utilità del proprio operare? Può esistere un operare che sia scisso da colui che lo pone in essere?
Può esistere. Esiste già. E qui che si palesa il fallimento della filosofia come ultimo residuo di un mondo umano. Non certo del corso, che ha rappresentato un momento quanto meno di presa di coscienza del problema.


Una guerra di trincea
L’operazione che l’intellighenzia filosofica – consapevole o no-  sta portando avanti per arginare lo straripante dominio della scienza, pare ricalcare l’atteggiamento del contadino che, vistosi scappare i buoi, neppure si premura di chiudere la stalla, perché pensa che tanto non potranno che ritornare. E i buoi poi non ritornano, perché l’indifferenza con cui si accoglie la loro fuggita è la medesima con la quale si curava la loro permanenza.  
Si hanno delle buone ragioni nel credere che la scienza non può dare tutto quello di cui l’uomo abbisogni per sopravvivere. Come del resto accade anche in filosofia, da anni attraversata dalle istanze delle “pratiche filosofiche”, che le rimproverano quell’astrattismo e quell’aridità vitale che essa rimprovera, a sua volta, alle scienze.
Ma buone ragioni non sono verità, e quantunque ci si abbia provato a farla fuori o a sostituirla con altro, la verità pare ancora l’unico elemento capace di far diventare un buon discorso un’esperienza di vita – un’esperienza vera. Senza verità, infatti, non c’è esperienza, ma pratiche logiche da sbrigare: cosa appare oggi esperienza vitale la filosofia – e con questa intendiamo la riflessione sul destino proprio e su quello collettivo, nonché sulla struttura del reale – o la scienza? Chi delle due è oggi simbolo, cioè segno che è anche minimo comune denominatore, un mettere insieme, un patto, una relazione che indica lo spazio condiviso, l’esperienza con-vissuta da più persone che spezzano la “tessera hospitalitatis”?
Questo sono le scienze oggi: simbolo, segno radicato nell’immaginario collettivo. E perché ciò è avvenuto e continua ad avvenire ogni giorno? Potremmo risolvere la faccenda col richiamo ad un particolare ‹‹evento›› storico o a una epoca. Succede che si pensi alla storia come al fatto che si auto-sancisce, si autogiustifichi. Il particolare ci siamo abituati a pensarlo come irriducibile. Però ciò non spiegherebbe comunque il perché l’‹‹evento›› scientifico si sia esteso così tanto – nella storia e nello spazio – da assumere i caratteri dell’epocalità. C’è dell’altro, evidentemente.
Davide Rondoni ha spiegato che l’arte rientra tra le quattro, cinque cose che gli uomini hanno sempre fatto dacché ne abbiamo memoria. E l’arte – se non interpretiamo male il pensiero del noto poeta – è un po’ come il tracciato dell’attività cardiaca o celebrale: fintanto che scorre, e non si appiattisce, c’è vita. E per questa vita non bastano le scienze. Ci dicono troppo poco. ‹‹L’azione e il movimento dell’artista come movimento di “ob-audienza” obbedienza e tensione di conoscenza, non come esibizione della personalità. Si tratta di “esprimere” (Eliot) non di creare uno stato d’animo››.  Ma se è obbedienza e tensione di conoscenza, l’arte ci dice qualcosa di vero sul reale. Ora c’è da chiedersi se qualcosa del genere non venga fatta (o se, al limite, così venga percepita) dalla scienza.
La scienza ha sostituito arte e filosofia, perché queste non sono più state capaci di dirci qualcosa che venisse percepito come “reale”. E non è un caso che il pensiero debole lo è stato solo nei libri dei filosofi, mentre non veniva meno la fiducia nei laboratori e nei loro ritrovati.
L’astrofisico Bersanelli, più volte durante il suo intervento, ha usato la parola fatto. Ovviamente, non intendeva una verità tutta intera, priva di ogni possibile storia che non fosse quel passato in cui, pian piano, è venuta dis-velandosi. Voleva semplicemente dire che quello che ci mostrava era una verità costata anni di ricerche, consona alle attualità capacità umane e passibile di ulteriore approfondimento. Ma che quella non fosse un’illusione, e che lo spirito umano avesse tutte le sue buone ragioni per considerare ciò di una certa importanza, egli non lo metteva in dubbio. Non metteva in dubbio che la sua esperienza professionale fosse anche una esperienza umana (e viceversa), né che questa esperienza avesse un suo fine.
Certamente, la filosofia, per lo statuto che ha e per i fini che persegue, è ricerca che si inabissa di più, e dunque non possiamo pretendere che si esprima e ci rassicuri come le scienze naturali. Filosofare è scavare alla fonte di un corso carsico. Con la filosofia vogliamo sapere perché il letto del fiume (il mondo che ci danno le scienze) si articoli così com’è. Ma non possiamo non notare che, più che una rivoluzione, si è trattato di una abdicazione non richiesta. Le scienze non hanno tolto nulla a nessuno, né hanno mutato nulla che non fosse già mutato. Hanno tentato con i propri mezzi di colmare il vuoto.
La filosofia le ha sfidate sul loro campo, dando loro perfino un vantaggio. Che abbia perso la sfida non dovrebbe sorprendere. Sorprende di più che non l’abbia rilanciata a sua volta.
E lo sguardo di sufficienza con il quale si analizza la situazione attuale, fa pensare che non si abbia poi così chiaro il baratro verso cui si è spinta l'umanità. Con l'aggravante di proporre il proprio impulso come risoluzione. Possono, infatti, darsi come risolutive talune posizione che, a ben guardare, sono animate dalla stessa logica che dicono di voler combattere o quanto meno limitare?
La scienza di Galileo è culminata nella filosofia di Hegel, così come la filosofia di Nietzsche nella biologia di James Watson. Il nazismo, in questo caso, non c'entra niente, ma la volontà di potenza dell'uomo sì, ed è questa che i filosofi invitati a parlare nella scuola non hanno saputo depotenziare. Senza il fondamento, che è anche limite, perché non dovremmo spingerci a congetturare che la scienza sia l'ultima parola - la più recente almeno - sulla nostra esistenza? Perché non dovremo correre il rischio di farci ciò che vogliamo? In fin dei conti, qualcuno ricorda un passo per l'umanità che non abbia comportato seri rischi? L'era atomica voleva annientarci dall'esterno - così ci sembrava, ma era comunque qualcosa che si muoveva nelle nostre interiora. Oggi, rischiamo di spegnerci, di essere un'umanità "post-umana". Ma perché non dovremmo? Perché non potremmo fare con le nostre mani quello che desidera il nostro spirito? E - ancora- perché la biografia personale non potrebbe collimare con la grande narrazione scientista? A ben vedere, sembrerebbe l'opposto. Sembrerebbe che, proprio in questo caso, vi sia una perfetta saldatura tra come io mi vedo quale individuo e come io mi vedo come appartenente ad una specie.
In definitiva, la filosofia ha giocato con detonatori assai più potenti degli atomi che temeva, e il prodotto le è esploso in mano. Ma ancora si stenta a prendere coscienza di quello che è accaduto, di come l'ultima forma di alienazione sia l'alienazione generazionale, cioè il mio corpo (e dunque, per alcuni aspetti io stesso) prodotto della volontà di chi mi ha preceduto. Almeno, fino a quando si avrà coscienza di una apparente differenza tra il naturale come l'indisponibile e la volontà come l'artefatto. Poi, semplicemente, ci spegneremo. Come l'umanità nelle Particelle elementari di M. Houellebecq.
"Perché la scienza non può essere la filosofia della specie post-umana?" - questa la domanda a cui non si è risposto nelle due settimane di studi. Ma Barcellona non tema: il suo problematicismo ha fatto breccia, proprio quando qualcuno credeva di averlo (r)aggirato.


Antonio Giovanni Pesce.

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