"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

24 febbraio 2010

SIAMO PARTICELLE (TROPPO) ELEMENTARI



Apparso su www.cataniapolitica.it del 23 febbraio 2010


Siamo una civiltà stanca, perché alla fine, mutare continuamente, annoia. Così, mentre il turbocapitalismo galoppava sulle vaste (ma, da quel che si è visto, non così tanto) praterie di Wall Street, ci siamo persi a contemplare le questioni ultime: com’è che andrà a finire? – ci siamo chiesti sull’onta di certo complottismo intergalattico, secondo il quale da qui a qualche anno dovrebbe finire tutto, o tutto quello che conosciamo, o tutto non so che cosa. Il ridicolo è il risvolto della verità, la realtà secondo la lente deformante dell’idiozia umana.


Com’è che andrà a finire nessuno lo ha detto con certezza: c’è un lettore che va coccolato, non turbiamolo molto. Diamogli la speranza che ha perso sulla via della secolarizzazione, ma non angosciamogli troppo il sonno, perché già il mondo di suo non va proprio bene, figuriamoci se deve finire nel peggior modo possibile. E allora la pace regnerà dopo il 2012, o forse verranno a sollevarci del fardello del vivere gli alieni, che per noi sono quei barbari di cui parla Kavafis in una sua nota poesia. Tutto, purché sia scenografico, e magari da mettere in gara al televoto.

Le cose potrebbe andare peggio. Molto peggio. Potrebbero non arrivare squadroni dal cielo, né la storia partorire epoche di pace. Potremmo, semplicemente, spegnerci. Ecco tutto. E spegnerci, proprio a causa di ciò che è più connaturato alla nostra civiltà, insito nelle nostre radici: quella filosofia che nessuno si fila più.


Michel Houellebecq è scrittore apprezzato anche in Italia, dove a pubblicare quasi tutto di lui ci pensa Bompiani. Nel 1999 esce un suo libro, Le particelle elementari, la storia di due fratelli uterini: lo scienziato M. Djerzinski, biologo molecolare, e Bruno Clément, insegnante di lettere. Apparentemente sembrerebbero uniti solo dal fatto di essere figli di una hippy, che dagli anni della contestazione ha sempre pensato più alle questioni di vagina che ai figli, ma in realtà li unisce molto di più – e molto accomuna la realtà sociale alla finzione letteraria: oltre l’algidità del primo, che pare essere incapace di amare, e l’ipersensibilità del secondo, sempre pendolante tra masturbazione ed orge, c’è un essere umano che non riesce a porsi altro obiettivo che la conservazione del proprio smodato ego. L’ultima sfida, l’immortalità. Gli scritti di Djerzinski aprono questa strada, a cui l’umanità non sa dire no. Eppure, proprio quando l’uomo pensava di conservarsi, si perde definitivamente. Questa storia -raccontata dalla voce narrante - è il suo epitaffio: ‹‹Nel momento in cui i suoi ultimi rappresentanti sono sul punto di estinguersi, riteniamo dunque legittimo rendere all’umanità quest’ultimo omaggio; omaggio che, anch’esso, finirà cancellato e perso nelle sabbie del tempo; è tuttavia necessario che tale omaggio, una volta almeno, venga reso. Questo libro è dedicato all’uomo››.

E pensare che tutto era iniziato per una ‹‹mutazione metafisica››, figlia di quella filosofia ‹‹spesso considerata priva di qualsiasi rilevanza di ordine pratico, ovvero di scopo››. Ma ‹‹la visione del mondo più comunemente adottata in un dato periodo dai componenti di una data società è determinante tanto per l’economia quanto per la politica e per il costume di quella società››. Così accade che, quando ci si vuole trovare, ci si perde definitivamente.


Dovremmo ripensare le nostre contraddizioni: mettiamo a morte altri esseri come noi, che denunciano col loro dolore la stessa fragilità che ancora in noi è sopita, solo perché temiamo che il senso del limite faccia capolino nella nostra esaltante (ed esaltata) autonomia, ma poi attendiamo la salvezza dal passato, o che dal futuro giungano i cirenei che si faranno carico della nostra croce. Speriamo, almeno, che non siano più confusi di noi.


Antonio Giovanni Pesce





20 febbraio 2010

LA FONDAZIONE DELL'ETICA IN BENEDETTO CROCE




Giuseppe Pezzino, La fondazione dell’etica in Benedetto Croce, C.U.E.C.M., Catania 2008, pp. 437.


Recensione pubblicata in Laòs XVI (2009), 3, pp. 122-126.




In altre opere l’A. si è impegnato nello studio del liberalismo e di altri ampi aspetti dell’etica crociana, ma in questo suo ultimo lavoro vuole andare oltre, vedere fin dove spinge le sue radici una filosofia che volle essere, e seppe esserlo, palestra di vita per tante generazioni di studiosi.

E quella filosofia fu palestra di vita perché dalla vita si faceva ispirare, e alla vita concreta, quella che gli uomini vivono, seppe restituire quel mondo che certo astrattismo le aveva tolto. Infatti, afferma Pezzino, «l’indagine crociana sull’attività morale trova il suo più alto grado di maturità» nella Filosofia della pratica, perché è qui che troviamo, per la prima volta in modo compiuto, i «due modi fondamentali di definire l’azione morale: 1) volizione etico-utile; 2) volizione che ha per oggetto l’universale» (p. 359), come a dire che la vita morale dell’uomo non può elevarsi al di là dell’uomo, ma neppure restarvi al di sotto. E questo punto fondamentale, che restituisce all’uomo la sua dignità perché non lo abbassa a bestia e non lo deprime per le mete che non può raggiungere, costò anni di intensa riflessione al filosofo, e fu un’attività speculativa che non ebbe mai fine, se non proprio negli ultimissimi anni della vita.

Un’intensa speculazione che l’A. ricostruisce con altrettante densissime pagine, tanto che bisogna seguire attentamente gli sviluppi di un’analisi che, come «il dialogo fra Croce e Hegel si svolge sul piano del confronto critico e spregiudicato» (p.107 e p.138), non cede all’acquiescenza dell’accettazione passiva.

Metafora della vita, che non conosce requie se non davanti alla morte o alla follia, l’equilibrio del sistema fu sempre in bilico, perché non appena al filosofo pareva di aver superato un’aporia, ecco che ne spuntava un’altra. Ma la difficoltà era insita nel progetto stesso della filosofia di Croce, perché saldare ma non annientare, unire ma non annullare, distinguere ma non dividere la morale dall’utile significa, in fin dei conti, coniugare l’universale e il particolare, e non solo. Perché significa pure unire e distinguere, ad un tempo, filosofia e storia, teoria e prassi. Significa, infine, ricondurre ad unità non già un’umanità intera, ma una molteplicità di uomini, ciascuno col proprio vissuto e con la propria dignità.

È su questa molteplicità di piani che si muovono e la ricerca crociana e la ricostruzione filosofica che ne fa Pezzino, il quale nota come «nell’unità-distinzione, infatti, reale è l’unità dei distinti e reali sono i distinti» (p. 203). Non era una prova facile, e Croce incomincia il suo apprendistato con la memoria del 1893, e già lì è possibile vedere come il filosofo abruzzese muova dal particolare dei suoi studi storico-eruditi al generale della ricerca metodologica perché sollecitato dai primi: «Dalla necessità di fornire un’adeguata risposta ad un problema storico, nasce quindi questa prima esperienza filosofica di Croce. E questo esser figlia della terra e della vita sarà sempre, d’allora in poi, il principale motivo di vanto e la precipua caratteristica di ogni sua indagine filosofica» (p.19). Infatti, perfino lo stesso far ricadere la storia sotto la categoria dell’arte era un modo per salvare quelle individualità, quel patrimonio umano che è in ciascun uomo e che è, ancor più, ciascun uomo: un patrimonio che, una volta disperso, come ogni opera d’arte non sarebbe più stato possibile ri-creare esattamente. Ci sono cose al mondo che, una volta passate, non ritornano più, con buona pace di ogni riduzionismo positivista.

Questo «essere figlia della terra» è riscontrabile anche nell’incontro col marxismo (p.61), al “fuoco” del quale, ricorderà Croce nel Contributo alla critica di me stesso, «bruciai altresì il mio astratto moralismo», ed è indicativo che proprio da queste prime mosse Croce rifiuti ogni forma di filosofia della storia, il «mattatoio dei popoli» per usare un’espressione hegeliana. Nelle Tesi di estetica (1900), poi, « egli [Croce] sostiene che l’utile rientra nella sfera dell’attività spirituale, e non già in quella della passività naturale» (p.79), e tuttavia, quando si rischia il pericolo dell’indifferentismo morale e del permissivismo, ecco che «l’analogia fra attività teoretica e quella pratica cessa, quando si pretende di trasferire il concetto dell’economico, in quanto amorale o moralmente indifferente, nell’ambito morale; perché una tale pretesa equivarrebbe a costruire una sorta di categoria etica di azioni né morali né immorali, bensì lecite» (p. 86).

A questo primo momento ne segue un secondo, che getterà un’ampia luce sullo sviluppo del sistema: sono gli anni dei Lineamenti di Logica (1904-05) e del Saggio sullo Hegel (1906). Sul primo scritto l’A. si sofferma a lungo, non solo perché in esso è possibile trovare i prodromi di alcuni punti poi emergenti nella Filosofia della pratica, ma anche perché qui «la sola forma logica dello Spirito è la filosofia, laddove le scienze naturali non costituiscono altro che una forma di attività pratico-economica». Così «la filosofia si asside sovrana nel secondo grado della sfera teoretica» (pp. 104-105), permettendo di eliminare la distinzione tra res extensa e res cogitans: un immanentismo che riduce la realtà al Soggetto, al «soggetto come Pensiero, come Libertà o Spirito, e non già come Tizio o Sempronio». Questo immanentismo, che non è né relativista né solipsista, è «superamento di tanti dualismi di origine illuministica, dell’astrattezza kantiana e di ogni altra dottrina che condanni alla sterilità l’ideale», e Croce lo ritrova in Hegel, in cui «il problema … della morale si collega a quello più vasto del senso della storia: al rapporto che intercorre fra l’attività del singolo e quella dell’universale». Croce, per l’A., tenta sempre di mantenere l’equilibrio tra i due aspetti, apportando «delle aggiunte, quasi dei contrappesi, ogni qualvolta è sollecitato a ricomporre l’equilibrio», e la conferma di ciò va ricercata nell’«accettazione del concetto di universale concreto».

Prodromi questi, soprattutto i Lineamenti, che «aprono varchi vistosi nella rigida riduzione della storia ad arte», e che permettono a Croce di «intraprendere il cammino che lo porterà alla sintesi di filosofia e storia», e di risolvere così il problema di un universale che si incarna, di una filosofia che «abbandona ogni pretesa di “purezza”, che equivale alla sterilità, per farsi – come il mitico Anteo, che della terra è figlio ed alla terra ritorna per prendere nuova forza – filosofia mondana» (p.186). Già nei Lineamenti, infatti, egli aveva accennato al concetto di Spirito come «organismo», come «circolo», alla distinzione tra le scienze e la filosofia, affermando l’autonomia di questa e la sua concretezza. Con la Filosofia della pratica (1908-09), ora Croce parla di unità-distinzione di teoria e pratica: «Dunque, distinzione nell’unità, e unità nella distinzione: è questa la chiave di volta che salda l’arco del sistema filosofico crociano. Si provi a togliere tale punto di raccordo, e all’istante crollerà a pezzi l’intera struttura concettuale» (p.185). Egli stesso, del resto, «si misurò costantemente col principio di unità-distinzione durante la sua lunga vita, fornendo di persona, e non senza travagli o persecuzioni, l’esempio di come la cultura si leghi alla vita, senza perciò stesso asservirsi a interessi pratici».

Tuttavia, nella Filosofia della pratica coesistono due modi di concepire la storia: o come «vertice» della conoscenza o, «spostando la storia dal momento estetico a quello filosofico», come unione di storiografia e filosofia. Sarà nella Logica che, tramite l’identificazione di giudizio definitorio e giudizio individuale, «la questione del rapporto filosofia-storia trova la sua soluzione», perché cadendo la distinzione dei due giudizi, cade pure quella fra «verità di ragione e verità di fatto»: «il pensamento o definizione del concetto si lega a precise condizioni individuali e storiche». Così, «l’idealismo crociano giunge… all’identità di filosofia e storia; perché, nella concretezza della sintesi a priori di definizione e giudizio individuale, c’è anche la concretezza del pensiero che, creando se stesso, qualifica l’intuizione e crea la storia» (p. 200). Questo monismo si riflette «nell’ambito della filosofia della pratica», superando la distinzione tra «l’atto spirituale della volizione» e «l’atto fisico dell’azione». Ma, se non c’è spazio per una «morale di mere intenzioni o dei buoni propositi», ciò non comporta una identificazione della volizione-azione con il successo o accadimento: l’uomo non vive in un vuoto pneumatico, e come i corpi conoscono l’attrito, così la volizione-azione dell’uomo conosce le relazioni con il mondo dei simili e con quello degli enti, «Libera, ma non astrattamente incondizionata». E tuttavia, come si pone la questione dell’individuo e del tutto? Non c’è pericolo del riproporsi di un nuovo dualismo? Citando una lettera di Croce ad Antoni del 1948, e analizzando l’opera del 1917, l’A. mostra come Croce si liberi da quel «dualismo fra un giudizio storico individuale, in cui si confonde il giudizio pratico con l’atto pratico, ed un giudizio storico cosmico». Solo con Teoria e storia della storiografia si avrà «la definitiva riduzione di quest’ultimo [giudizio pratico] a “valutazione pratica”, che sorge nella coscienza dell’individuo operante» (p. 236).

Ma intanto, stavano maturando in Croce i semi di quella categoria etico-utile, che saranno «il fondamento filosofico di quella storia etico-politica, che Croce teorizzerà per la prima volta nel 1924», e che porteranno, pur sotto la spinta decisiva dei ben noti fatti di quegl’anni, al «nuovo» concetto di morale come «promozione della vita» quale è espresso in Storia come pensiero e come azione del 1938. Ora, per Pezzino, le conclusioni a cui giunge Croce alla vigilia del secondo conflitto mondiale sono ancora la riprova del metodo crociano: sviluppo filosofico interno al sistema che è, al contempo, risposta alle sollecitazioni della vita. E questo, nonostante il rischio di squilibrio all’interno del sistema, innalzando la morale sopra tutte le altre categorie. Ma è un rischio che Croce corre, dovendo scegliere tra la concezione del suo idealismo come laica religione della libertà, che si nutre del confronto col mondo cristiano (pensiamo allo scritto del 1942, Perché non possiamo non dirci cristiani), e quella Fine della civiltà (1946), che può vedere «l’umana civiltà… spazzata via per sempre dalla forza demoniaca della vitalità animalesca».

Tuttavia, è proprio questo il grande merito della filosofia crociana, e quello di Pezzino è l’averlo mostrato non al di là dell’equilibrio, in sé assai precario e comunque continuamente ricercato dal sistema, ma proprio partendo da ciò: lo storicismo di Croce, infatti, non volle essere una pianificazione del reale, una filosofia della storia che tracciasse il cammino monotono dell’umanità verso il pieno compimento additato, ma una descrizione della vita e, ad un tempo, una sua promozione; e se Marx gli servì per ritornare alla terra di Anteo, la guerra scellerata dei nuovi barbari non poté che produrre uno sguardo assai più ampio di quello che si ferma alla contemplazione orgiastica del proprio vile interesse. Semmai, Croce sbagliava nel pensare di poter guadagnare, preventivamente, ciò che la vita umana ben si guarda dal ritenere conquistato anche per un solo attimo del proprio sviluppo, e di abbassare il suo sistema ad un livello che, inconsciamente, egli aveva già superato. Moralità ed utilità sono i due polmoni dell’esistenza: compito dell’uomo è dosarne il giusto apporto di ossigeno, perché di troppo ossigeno si muore, o quanto meno ci si inebria. Ed è un compito da svolgere e non un risultato da ottenere, perché non ci è stata data la soluzione, una per tutti e definitivamente, e non ci è possibile leggere nel taccuino del maestro. Ma è proprio questa santa ignoranza della giusta miscela, che va ricercata per quanto e per quello che si può, che ci rende responsabili. E responsabili perché liberi.


Antonio Giovanni Pesce