"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

30 aprile 2011

CATANIA, IL PASSATO, IL FUTURO



di Antonio G. Pesce- C’è il bubbone o si tratta solo della classica dermatite? Questa è la domanda che a Catania ci si sta ponendo: sta ritornando quel male che appestava la città, in modo così evidente da quasi desertificarla, o si tratta di quelle infiammazioni tipiche delle società complesse, se non addirittura di una malattia esantematica?
Usciamo fuori dalla metafora, smettiamo di giocare con le parole. Ognuno di noi ha una sua storia – si chiama ‘vissuto’. E alla luce di quel che ciascuno di noi ha vissuto, vengono interpretate poi le vicende delle vita. Catania ha pure una sua storia. E non vorremmo ricordarla continuamente: una straripante (in ogni senso) zona industriale, periferie troppo abbandonate, e un centro dilaniato dalle fauci della criminalità organizzata. A Catania non si può prescindere dai simboli: una sparatoria in centro, ancorché determinata da futili motivi di gelosia, è un atto di inaudita barbarie, perché nel corpo quasi esanime dalla sventurata e incolpevole giovane studentessa, noi rivediamo il nostro passato collettivo, il cancro che credevamo di aver in parte contenuto, se non addirittura sconfitto.
Allora, in poco meno di quarantottore, arrivò una risposta. Non alleviò il nostro dolore. Nessuno pensò che, siccome la mafia non c’entrava, allora non era successo niente. Il dolore ci parve, tuttavia, un dolore ‘normale’ – nel senso di ‘universale’, che si poteva provare in tutte le restanti parti del mondo, da Bolzano a New York. Non solo a Catania.
Ecco perché resta il fatto, qualunque sia la genesi. Resta l’argomento troppo spesso non discusso, dimenticato. Ecco perché adesso non bastano le parole dei partiti. Fa piacere leggere le reazioni sull’incendio della libreria di via Teramo. Farà piacere ai giovani di ‘Addiopizzo’, che forse alcune volte si saranno sentiti un po’ soli nella loro eroica battaglia per indurre il commercio cittadino a liberarsi dalla stretta diabolica del malaffare. Ma non bastano. Vogliamo di più. Abbiamo diritto ad avere di più. Abbiamo diritto ad esorcizzare il passato. E il passato lo si esorcizza in due modi: escludendo che abbia qualcosa da fare col nostro presente o, avendolo nuovamente dinanzi, con la maturità di chi non vuole vivere un eterno ritorno. A Catania pagano tutti il pizzo? Sì, così dicono, così sicuramente è, ma perché se ne parla così poco?
Questa città, nonostante tutto, ha la forza morale per resistere al male. Perfino alla peste. Il vaccino ce lo abbiamo. E il cammino per la guarigione, iniziato anni addietro, non prevede cambiamento di marcia.

Pubblicato il 28 aprile 2011 su www.cataniapolitica.it

27 aprile 2011

SETTIMANA DI PASSIONE

Settimana di passione 
 

di Antonio G. Pesce- Alla fine di una settimana ‘gloriosa’, prefigurazione di quella di passione che viviamo come credenti, possiamo fare il sunto di quello che abbiamo visto, sentito e – purtroppo – vissuto.
Hanno approvato la finanziaria all’Ars. Qualcuno dice che è alquanto scarna, e che non potrà non essere rimpolpata in aula. Chi lo dice? Alcuni esponenti del Pd, il partito che più sta scommettendo (perfino la faccia) nel governo Lombardo. A Roma, forse per via della vicinanza all’ esempio degli esempi, cominciano a capire che non si può predicare bene (o male, ognuno scelga il suo punto di vista) nella capitale, e poi razzolare male (o bene, eccetera eccetera) in una ragione come la Sicilia, che di elettori ne conta il dieci percento del totale. Forse – forse ? – la finanziaria sarà più che il banco di prova della maggioranza, il campo di battaglia all’interno dei democratici
Intanto, se non arrivano i fondi per le aree sottoutilizzate (Fas), la Regione dovrà accendere un mutuo da quasi un miliardo di euro. Tra le spese più corpose del nostro bilancio, la formazione. Che fino all’altro ieri è stata motivo di scontro. Abbiamo decine di ‘sigle’ che organizzano migliaia di corsi. Si è tentata una prima scrematura, ma è assai improbabile che la si possa fare davvero e fino in fondo, senza l’emergenza di un imminente tracollo finanziario dell’ente regionale. Quello che si potrebbe fare, è trasformare duecimilioni di euro in un serio investimento, magari mettendo mano alle regole di ingaggio dei formatori, e al curriculum professionale dei formati. Ovviamente anche questo non lo si può fare, perché significherebbe sottrarre uno dei più cospicui ‘uffici di collocamento’ a certe logiche, che per pietà cristiana – siamo o no nella Settimana Santa? – vorremmo evitare di commentare.
Questo a Palermo (capoluogo di regione). A Catania (città), mentre i lavoratori della Multiservizi e gli abitanti di Librino protestano, e non certo perché quest’anno non potranno spostarsi a festeggiare la Pasquetta in qualche isola tropicale, c’è il don Rodrigo della situazione, che lancia giudizi pensanti sulla legittimità di pacifiche manifestazioni di pensiero. A Catania dovremmo discutere soltanto di quello che ‘vede la suocera’, mentre la sofferenza più vera andrebbe fatta marcire dietro il divano, o nei sottoscala della casa, lì dove la Catania-bene neppure ci pensa di allungare un’occhiata.
Sapete come andò a finire ai tanti don Rodrigo, che fintanto che ebbero salute e danaro li trasformarono in motivo di alterigia e indifferenza? Che arrivò la peste, e morirono dimenticati da tutti. Ora, siccome è noto che il mondo, ormai, è fatto da anime belle, che di ‘medievalismi’ non vogliono sentire parlare, diciamo in modo laico: arriverà il giorno in cui un popolo di disoccupati, qual è quello siciliano, ne avrà abbastanza. E allora si capirà che voglia dire accendersi il sigaro, quando si è di guardia in una polveriera.

Pubblicato il 22 aprile 2011 su www.cataniapolitica.it 

CATANIA CAMPA DI NIENTE

Catania campa di niente 

di Antonio G. Pesce- Non possiamo più contare neppure sul lavoro nero. Secondo quanto risulta alla Caritas diocesana, che ieri ha reso pubblico il suo rapporto trimestrale, è entrato in crisi pure quello. Di Catania si sta facendo un enorme deserto, popolato solo – è la rabbia che scrive, non io – da ruffiani, portaborse, e da intellettuali al soldo del potere. Che parlano di stato laico, ma lasciano alla Chiesa l’amaro compito di ‘ascoltare’ la miseria umana, riservando per se stessi quello di sproloquiare sui destini del mondo, seduti in cattedra o con un sigaro in bocca al tavolino di un bar.
Aumenta la disoccupazione, aumenta la povertà, ed aumentano soprattutto tra gli italiani. Tra i quali, i maschi incontrano più difficoltà delle donne a piazzarsi sul cosiddetto mercato del lavoro, che quando ha cifre spaventosamente piccole come quelle etnee, assume i tratti della tagliola dell’usuraio. Bisogna vedere, infatti, che lavoro riescano a trovare le donne: non c’è da scommettere che sia sempre degno della storia di questa nazione che, nel bene e nel male, ha più di cento anni di battaglie sindacali.
Al Sud c’è ormai una situazione, che se non fosse per la tanto dimenticata (quando non addirittura vilipesa) struttura famigliare, dovrebbe incutere terrore a chi, per propria libera scelta, ha deciso di giocare un ruolo nella partita per l’amministrazione politica di questo Paese – a tutti i livelli e le latitudini. Una situazione non diversa dal resto d’Italia: se qui si lotta per la sopravvivenza, altrove si sono persi quei benefici conquistati in decenni di duro lavoro. I figli sono ovunque più poveri e meno garantiti dei padri: un’assurdità della quale non si vede fine. E l’ultima battaglia per il lavoro che si è fatta in Sicilia, è stata quella per far assumere gli operai Cesame da un’azienda commerciale estera, la quale poi non mostra molto buon gusto e rispetto per questa terra quando ha da farsi pubblicità.
Per il resto, se volessimo far ripartire l’industria – di qualsiasi tipo, anche quella agricola, troppo presto accantonata, o quella turistica, mai veramente decollata – dovremmo farlo senza una fiscalità di vantaggio, che renda più accattivante un’isola nella quale, tra poco, si pagheranno le autostrade, uniche vie di collegamento in assoluta mancanza di un piano ferroviario; nella quale giacciano chiusi gli aeroporti (pensiamo a quello di Comiso), e mentre ci si batte, anche aspramente, contro la costruzione del Ponte sullo Stretto, nessuno propone una via alternativa per non lasciare due ore le nostre merci a giacere accanto al molo. E tutto questo, mentre la disoccupazione viaggia a livelli impressionanti, ed è la Caritas che eroga microcrediti, dal momento che il risparmio siciliano manca di una cassa propria.
Quali le risposte della politica? Quali piani per il futuro? Quali prospettive?
Coraggio, CataniaPolitica darà spazio e visibilità alle elucubrazioni di politici ed intellettuali. Per una volta, Catania e la Sicilia meritano un pensiero. Sì: non canzonette, slogan o sviolinate intellettualistiche, ma pensiero. Se qualcuno ne ha uno, lo metta avanti. Ci si accontenta anche di poco, dato che stiamo campando di niente.


Pubblicato il 20 aprile 2011 su www.cataniapolitica.it

26 aprile 2011

"Cittadini e partecipazione": incontro a Catania

Cittadini e partecipazione 
 

di Antonio G. Pesce- Sabato 16 aprile a Palazzo Platamone, l’associazione “Idee in Azione” ha dato il via al corso “Cittadini in… formazione”. Tema del primo incontro: “La partecipazione dei cittadini alla vita politica. Dagli anni ‘70 a oggi”.
Ad introdurre i relatori è stato il direttore di CataniaPolitica, Giovanni Grillo. Secondo Paolo di Caro, direttore dell’Agenzia nazionale per i giovani, la partecipazione politica attuale potrebbe definirsi come “biodegradabile”. L’impegno pare essere profuso solo se finalizzato ad uno sbocco istituzionale, se giunge il ‘successo’ e la ribalta della grande politica. Così non è stato neppure negli anni ’80, la famosa stagione del ‘riflusso’, che De Caro non vede negativamente. E ricorda come, in quel periodo, si consumò una svolta importante a destra: svolta ideologica e pure estetica. Mentre gli alti papaveri dell’Msi – Di Caro ricorda che tra questi c’era pure Gianfranco Fini – continuavano a muoversi sulla spinta di vecchi cliché, una nuova generazione stava formandosi e sperimentandosi. Una generazione che non viveva solo nel ristretto ambito della sezione, ma anche all’interno dell’università e della scuola. Anni del disimpegno? Semmai d’un impegno diverso. Di un impegno più ampio, forse troppo ampio per chi continuava a vivere e mangiare la ‘vecchia politica’.
‹‹Questi sono gli anni di Fare Fronte, nato nell’alveo del Fronte della Gioventù. Un movimento che, negli anni ’80, fece una scelta rivoluzionaria: superare il neofascismo, non soltanto da un punto di vista strettamente politico, ma pure estetico e culturale››. E ricorda le conferenze, i dibattiti, i momenti di approfondimento culturale e storico organizzati, e troppo spesso avversati. Di Caro non lo dice, ma forse molte incomprensioni interne non ci sarebbero state, se in quegli anni a guidare l’Msi ci fosse stato il politologo Marco Tarchi, non a caso molto gradito alla base giovane, e a cui Giorgio Almirante preferì l’attuale presidente della Camera. Che nel 1989 parlava ancora di ‘fascismo del 2000’.
Il giovane, però, cede la parola all’anziano, memoria storica della destra catanese. L’avvocato Pogliese parla per circa un’ora, senza fermarsi, senza bere, lucidamente. Passa in rassegna nomi, avvenimenti, perfino risultati elettorali. E dice, da ‘libero pensatore di destra’, la delusione per il presente, senza nascondere le difficoltà del passato. Che ne è, infatti, della partecipazione dei cittadini nell’Italia della legge elettorale ‘porcata’, delle segreterie che formano i listini, delle avvenenti igeniste dentali assurte negli scanni del potere? ‹‹Se per partecipazione intendiamo il volontariato e l’impegno personale in generale, sì: c’è partecipazione. Ma non c’è partecipazione in quella realtà che forma lo spazio collettivo››. Pogliese annuiva quando Di Caro, collaboratore della ministro Meloni, parlava della proposta di identificare elettorato attivo e passivo per svecchiare la nomenclatura del potere in Italia. E, commentandola nel suo intervento, propone un limite massimo di età alla possibile elezione:‹‹I prefetti vanno in pensione a 65 anni, ma dopo ricevono qualche altro incarico, se possibile ancor più prestigioso. Nel mondo bancario assistiamo a qualcosa di osceno: Cuccia fino a 94 anni restò indisturbato. E vogliamo parlare di Geronzi? Abbiamo un premier di 74 anni, e non è detto che lasci. In Italia non c’è un limito massimo. C’è per i cardinali elettori nella Chiesa, ma non c’è per parlamentari, ministri, presidenti, ecc. E guardate – dice ironicamente – che parlo contro i miei stessi interessi!››.
Pogliese conclude con un’idea da lui stesso ritenuta ‘velleitaria’ (‹‹come tutte le mie idee, del resto››): far parte delle assemblee decisionali in virtù della propria provenienza lavorativa e della competenza esperienziale. È il corporativismo, e Pogliese non si vergogna a nominare vecchie dottrine, apparentemente sepolte dalla storia. Anche perché – questo anziano e garbato signore dall’oratoria chiara e semplice lo sa bene – se si rispolvera il marxismo per superare la crisi finanziaria, e la teoria del colpo di stato per superare quella del sistema politico, quella del corporativismo è la proposta meno impropria che si possa fare davanti ad una platea di giovani. Tutti studenti universitari, e forse futuri disoccupati.


Pubblicato il 18 aprile 2011 su www.cataniapolitica.it 

Consiglio comunale "libico"

Consiglio comunale “libico” 

di Antonio G. Pesce- La pace nel mondo è un valore importante. E per promuoverla, la città di Catania ha una sua commissione in seno al consiglio comunale: è la XII, presieduta da Francesca Raciti (Pd). Che ieri sera ha ritirato l’ordine del giorno col quale si condannavano i massacri in Libia, Gheddafi, e la repressione tutta quanta. Si dirà che è quanto meno ardito pensare che un odg approvato sotto l’ombra del nostro Liotro, possa combattere il male del mondo e sconfiggerlo. Ma niente paura: il consiglio comunale, alla fine della fiera, sa quali sono le urgenze che si possono affrontare davvero, e sulla Libia non ne ha mai discusso. Frattanto il tempo è passato, le vicende si sono susseguite, e farlo ieri sera non aveva gran che senso. Dunque, si attendono altri momenti.
Dopo qualche minuto, però, la pace (giustamente) agognata in Libia non c’era nell’aula consigliare etnea. Seduta, tra l’altro, finita con una forte discussione sugli stalli a pagamento. CataniaPolitica ne dava conto già ieri, pubblicando il comunicato di Navarria (Sg), presidente della II commissione permanente, che ha presentato una mozione per impegnare l’amministrazione comunale a non aumentare il numero dei parcheggi a pagamento gestiti dalla Sostare. Solo che la mozione, una volta approdata in aula, è stata subissata di emendamenti, tanto da sembrare quasi stravolta. Discutere la bozza originaria, come hanno sostenuto Navarria e Lanfranco Zappalà (Pd), o permettere un più ampio dibattito, come invece proposto da Nello Musumeci (La Destra) e dal capogruppo del Pid, Valeria Sudano? La seconda soluzione è parsa quella che ha riscontrato i favori dei più, ma tutto è stato rinviato ad oggi.
Intanto, però, nel momento delle comunicazioni è apparso il vero volto di Catania. Deformato da problemi strutturali. Gemma Lo Presti (La Destra), citando un’analisi di Legambiente, ha posto all’attenzione il problema del calo del turismo in Sicilia: un milione di visitatori in meno nei musei dell’Isola. Catania, purtroppo, non è da meno. Eppure, non è che manchi la voglia di far bene, da parte di chi è preposto, né quella di cultura da parte dei fruitori. E ha citato il caso della biblioteca comunale ‘Vincenzo Bellini’ di via Passo Gravina: ottimo servizio, ottima affluenza, eppure la struttura mostra tutti i suoi limiti, soprattutto dopo che il piano superiore è stato sgomberato per problemi all’agibilità (e non sappiamo lo stato dei 30 mila volumi depositati altrove).
E non è, questa, l’unica questione inerente la sicurezza posta sul tappeto nella seduta di ieri. Alessandro Porto (Mpa) si è chiesto cosa ne sarebbe di Catania, se venisse investita da un sisma pari a quello de L’Aquila. E, ovviamente, cosa si stia facendo in fatto di prevenzione. Lanfranco Zappalà (Pd), invece, cosa intenda fare l’amministrazione per evitare che ci si rompa il collo (non ha detto questo, ma il senso questo era) dentro una delle tantissime buche – ‘voragini’ – delle strade della città. E Manlio Messina (Pdl) ha fatto notare le lungaggini dei lavori per la pista ciclabile che coinvolgono lo slargo tra le p.zze Santo Spirito e Stesicoro. Lavori che danneggiano i commercianti della zona, oltre che far registrare un fatto curioso: il luogo è transennato per evitare pericoli, ma si permette il posteggio a pagamento, senza badare all’incolumità dei cittadini.
Catania incerottata. Anche nella cultura. Nello Musumeci ha interrogato l’amministrazione circa i centri giovanili, una questione interessante per la quale è bene riportare tutta la dichiarazione dell’onorevole: ‹‹Nella primavere dello scorso anno questo consiglio venne impegnato a discutere e approvare anche col voto della destra un articolato regolamento relativo ai centri giovanili. Quel regolamento era finalizzato alla stipula di convenzioni con associazioni impegnati nel volontario giovanile, e prevedeva l’assegnazione di immobili del comune e che tuttavia non fossero particolarmente utili. Una iniziativa che poneva Catania all’avanguardia e che certamente era accompagnata da un condiviso senso di speranza e di fiducia. Ricordo anche che quel voto favorevole dell’aula venne seguito da una dichiarazione di intenti secondo la quale, entro qualche mese, sarebbe stato reso pubblico il bando per tentare di arrivare alla stipula di alcune convenzioni››. Musumeci ha concluso il suo intervento: non ci si è accorti che il bando è stato pubblicato, o ancora a distanza di un anno non si è fatto niente?
Ma non soffre solo la Catania giovane. Anche quella delle periferie. Agatino Tringale (Mpa) lo ha detto: dopo un primo momento di interesse, l’amministrazione è assente dalla riqualificazione della Pescheria. Che non è periferia, ma che sta ‘morendo’ comunque. E da Librino, dove l’unico competto di calcio è in uno stato di totale abbandono.
Soffre, infine, la Catania del lavoro. Puccio La Rosa (Fli) ha chiesto spiegazioni sul fondo efficienza servizi, dal quale vengono attinte le risorse per pagare, ad es., gli straordinari al personale. Solo che, attualmente, pare che il fondo non si attivo, dal momento che manca il bilancio del comune. ‘Pare’ non si attivo perché, ancora, ‘pare’ che gli straordinari degli impiegati del gabinetto del sindaco, invece, siano stati pagati, e quelli degli altri dipendenti no. E se il comparto pubblico non ride, piange quello privato. Rosario D’Agata (Pd) ha avuto naso fino, intervenendo in aula sullo stato dei lavoratori della Multiservizi-Dusmann. Manco un’ora dopo, infatti, i lavoratori occupavano la sede dell’azienda.
E, c’è da crederlo, questo sarà il tema delle prossime puntate.

Pubblicato il 15 aprile 2011 su www.cataniapolitica.it

Pd siculo in confusione

Pd siculo in confusione

di Antonio G. Pesce- Confusione Pd. Si diceva dovesse essere un partito a vocazione federale, con molta attenzione per il territorio. Ma pare che il territorio (con le sue vicende politiche) proprio non lo conosca. Soprattutto quello siciliano.
Nicola Latorre, vicepresidente del gruppo del Pd al Senato e componente della commissione Giustizia, ritenuto da molti vicino a D’Alema, si è lasciato andare ad uno strafalcione, che potrebbe aggiungere altro imbarazzo a quello che già incombe sul Pd siciliano. In un suo intervento durante la trasmissione Exit su La7, commentando gli sbarchi di clandestini sulle coste italiane, il senatore ha rimproverato al governo di non aver saputo gestire la vicenda. La soluzione invece? Bisognava adattare anzitempo strutture dismesse per accogliere i clandestini, dal momento che era assai preventivabile cosa è poi accaduto. Ma tra i posti da impiegare come luoghi di prima accoglienza Latorre ha incluso l’aeroporto di Comiso, che a detta del noto esponente Pd sarebbe “abbandonato”.
Non è questa la prima incespicata del Pd sull’annosa questione dell’aeroporto comisano, che da anni attende di essere aperto al volo civile. La settimana scorsa si è registrato il giallo della mozione con la quale si chiedeva al governo regionale di intervenire presso quello nazionale, al fine di spostare le operazioni belliche dall’aeroporto di Trapani a quello di Sigonella e dello stesso Magliocco. L’intento? Aprire Trapani, anche se parzialmente, ai voli di linea. Tra i firmatari si sono fatti i nomi anche di due deputati Pd ragusano, che comunque si sono defilati subito.
E pensare che il Pd ha annunciato la propria adesione alla manifestazione di oggi, denominata “Marcia lenta”, la colonna di autoveicoli che, per protesta, lentamente muoverà dal capoluogo ibleo per giungere all’aeroporto di Fontanarossa, al fine di sensibilizzare la politica e l’opinione pubblica sui disagi che affliggono la zona più produttiva dell’Isola. Con una provinciale, la Catania-Ragusa, che è un mattatoio, e con lo scalo di Comiso ancora al centro di una annosa questione burocratica, che di tanto in tanto fa capolino nelle cronache per abissarsi nella palude del politichese. Una protesta senza colore politico, ma le cui ragioni sono state sposate dal segretario provinciale del Pd ragusano, Salvo Zago: ‹‹Da troppo tempo la provincia di Ragusa continua ad essere penalizzata dall’assenza di infrastrutture moderne ed efficienti e non possono essere più giustificabili i colpevoli ritardi del governo nazionale. Come quello che, a causa della mancata firma del ministro Tremonti sul relativo decreto, ostacola l’apertura al traffico dell’aeroporto di Comiso››.
Dunque lo strafalcione di Latorre potrebbe rappresentare un’altra gatta da pelare per i democratici. Sempre che si tratti di una gaffe e non già dell’atteso ordine di rompere le righe (e le alleanze). Il governatore Lombardo, infatti, si è molto impegnato per l’apertura di Comiso, ed oggi il suo caso giudiziario ha creato molto malumore dentro il Pd.
A voler pensar male si fa peccato, ma non è che è iniziata la Grande Marcia di ritirata?

Pubblicato il 15 aprile 2011 su www.cataniapolitica.it 

Catania Futura


di Antonio G. Pesce- Ieri sera, nel bel programma televisivo di Antonello Piroso, sono intervenuti Cirino Pomicino e Gianni De Michelis, reliquie di punta dell’antico passato nazionale. Te la ponevano talmente bene la faccenda della crisi della Seconda Repubblica, che quasi ci credevi a quanto fosse bella la Prima.
Sempre ieri, per le vie della nostra città, affollata dai primi turisti, si parlava del nostro ateneo, del Siculorum Gymnasium. Si ricordavano le cattedre dei grandi, da Giurisprudenza a Lettere, e di quando era moda andare ad ascoltare le lezioni di questo o quest’altro grande intellettuale. Si è pure accennato alla ‘primavera di Catania’, giusta la definizione di Carlo Lo Re – quel periodo della nostra vita pubblica nella quale credemmo che sarebbero potuti ritornare i tempi quando, nonostante la zavorra della mafia a briglie sciolte per le strade, Catania aveva un problema di smaltimento del traffico non tanto al centro ma nella periferia, ed esattamente nella zona industriale straripante di operai.
Bei tempi. Bei ricordi. Cosa c’è che non va in questo racconto? C’è che un popolo che vive di ricordo, e solo di questo, è un popolo che alla fine rivivrà i suoi incubi. Perché è un incubo restare al palo della vita, e aspettare che la vita stessa passi, incapaci di crearne di nuova, di fare ancora cose belle, di produrre futuro. Tralasciando ogni giudizio (ovvio) sugli eroi della Prima Repubblica, bisogna tenere a mente che sono passati tre lustri dalla ‘primavera’ nostrana; che nei prossimi anni un cospicuo numero di docenti dell’Ateneo andrà in pensione; che gli uomini più rappresentativi della chiesa catanese sono già anziani, e molti non sono più; che molte associazioni culturali storiche segnano ormai il passo, anzi lo trascinano pesantemente; che gli artisti che parrebbero onorare della loro presenza la città (solo se questa si pieghi alle loro indicazioni), non sono più dei giovincelli, e nuovi talenti aspettano di essere scoperti; che i nonni sono andati in pensione e, alla bell’e meglio, i padri vi saranno accompagnati, grazie alla casse integrazione e ai posti pubblici in cui sono stati inseriti, ma i nipoti, i figli aspettano ancora di versare i loro primi contributi previdenziali.
Ovunque in Italia una intera generazione è esclusa dalla responsabilità di gestire la cosa pubblica nel suo senso più ampio. Catania non è da meno. Perché? Perché i giovani temano più il fallimento di quanto bramino il successo. Temono di sbagliare, quando semmai hanno avuto esempi che potrebbero indurre all’ottimismo: in alcuni casi, fare peggio della generazione precedente è davvero difficile. E quando questi giovani avanzano pretese, non si tratta di quella legittima di creare storia, di lasciare una impronta, di farsi ricordare, ma di entrare presto nella stanza dei bottoni, seppur come portacarte ufficiali in giacca e cravatta.
Giovanni Grillo, ieri, analizzava la politica catanese e faceva dei nomi. Forse qualcosa di muove. Stancanelli non avrà bis, nonostante l’ultima giunta abbia visto l’impegno di persone di una certa serietà. Forse la prossima battaglia elettorale per Palazzo degli Elefanti potrebbe vedere l’impegno di due giovani, abbastanza cresciuti per sapere che peso potrebbe ricadere sulle loro spalle, ma altrettanto imberbi per avere quella spudoratezza di rischiare.
Tuttavia, se mai fossero vere le voci che già da qualche tempo si rincorrono, ciò non è ancora concreta azione politica, né tanto meno l’agognata speranza che si realizza finalmente. Non è detto che un giovane si rivolto al futuro e un anziano al passato. Futuro e passato sono del tutto relativi, come il tempo e lo spazio nella teoria della relatività: di assoluto c’è solo la luce, l’idea, la prospettiva, il segno che indichi il ‘senso’ di marcia. Fuori di metafora, Berretta e Pogliese – mi scusino se vengono tirati in ballo, ma scrivere per un pubblico, a volte, è anche fare un pubblico pettegolezzo – non saranno quel futuro che vogliamo, fintanto che non ci diranno che futuro immaginano per Catania.
Ricordino – questo sì che è un ricordo di vita – quel passato della loro vita in cui, secondo gli amici, ardevano e si consumavano ‘come candele romane’ (direbbe il poeta), per la loro passione politica. Ricordino speranze, illusioni, e le tante disillusioni. Si assumano loro – e noi con loro – la responsabilità che le attuali contingenze ci assegnano. E ritorniamo a dividerci per le idee da condividere con gli amici e non già per le prebende da suddividere con le clientele.

Pubblicato il 13 aprile 2011 su www.cataniapolitica.it 

8 aprile 2011

A SCUOLA DI STORIA E LINGUA SICULA

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di Antonio G. Pesce- Vogliono far diventare materia di studio ciò che è alimento di vita. Vogliono farlo attraverso una legge. La nuova maggioranza lombardiana si allinea al vento autonomista. E legifera di conseguenza. Ne è nato così un disegno di legge, che vorrebbe introdurre lo studio della storia e della lingua siciliana nelle scuole dell’Isola. Se n’è discusso nella V commissione, quella deputata alla Cultura (sic!), alla Formazione e, per giunta, al Lavoro. A firmarlo l’on. Nicola D’Agostino (Mpa), e i colleghi Salvatore Lentini (Udc) e Francesco Rinaldi (Pd).
Passerà. Vedrete che si farà presto. Ai siciliani che vorrebbero il companatico, ma si accontenterebbero pure del solo pane (purché basti fino alla fine del mese), la classe politica siciliana dà parole. Parole di carta da scriversi su altra carta. Ed è probabile che, ad approvarlo, saranno anche quelli dell’opposizione (ex maggioranza) del Pdl: figurarsi se, con i tempi che corrono, in Italia si trovi un politico pronto a dire qualcosa di diverso dalla vulgata imposta con la dialettica delle armi mediatiche.
Passerà. Ma sarà uno scempio. E sarà uno scempio innanzi tutto per la storiografia in generale. Poco consapevoli di come si faccia ricerca storica, e altrettanto a digiuno di conoscenze costituzionali, i nostri deputati sperano di ottenere, con una leggina, che molti “pregiudizi” vengano rimossi, ritenendo che questi, solo perché si sono formati nella storia, si possano con lo studio della storia anche eliminare. Non prendono neppure in considerazione il fatto che lo studioso – e a Catania ce ne sono di valenti – di storia siciliana possa anche scrivere cose poco gradite, o poter giungere alla conclusione che non esista una storia tipicamente siciliana. Non sanno i nostri deputati neppure che, una volta divenuta materia di studio in classe per circa due ore settimanali, la storia siciliana sarà insegnata da docenti che, secondo il dettato costituzionale, sono liberi e nel ricercare e nell’insegnare (art. 33). È stata una lezione di storia la relazione in commissione: nel 1130 è successo questo, e nel 1860 quest’altro. Bene, se si ha tanto ardore di insegnare, e se si è tanto bravi, ci si candidi ad un posto di precario a vita nell’insegnamento, e non ad uno di deputato regionale, che viene lautamente ricompensato per l’immane sforzo legislativo e non per quello scientifico.
La scienza non si piega facilmente alle direttive della politica. Può perseguire ideali, ma non gli si possono imporre. E quando c’è scienza – quale che ne sia la tipologia: umana o naturale, pur sempre di scienza si tratta – c’è qualcosa che va al di là dell’immediato vissuto: c’è riflessione, c’è ricerca, c’è qualcosa che non si possiede e che va ritrovata. Chi è cresciuto senza vergognarsi del proprio dialetto, e chi ancora lo parla discretamente nella conversazione famigliare e amicale, non avrà mai bisogno di ore suppletive, e il fallimento dell’insegnamento a scuola di ogni lingua, che non sia quella vissuta concretamente nel quotidiano, sta nel fatto che la teoria viene scissa dalla pratica e viceversa. Si torna a casa, e si parla in modo affatto diverso. Si sta con gli amici, e non si masticano nozioni di grammatica. Si va al bar, e si chiede il solito nel solito idioma. Insomma, se qualcosa non è vissuta, diventa un’astrazione del nostro vissuto. Diventa ripetizione, formalismo.
Ma se è materia di vita, allora non si vede perché la si debba insegnare: non si insegna la morale nei banchi di scuola, ma nel rapporto con gli altri (genitori, educatori, anche docenti e professori, ma non in quanto tali, ma in quanto persone). Non si apprende l’educazione e il civile vivere dai libri di scuola, ma per le strade e nelle piazze.
La politica può prevedere ore di lezione di una materia piuttosto che di un’altra, ma non può dire preventivamente che cosa ci si debba aspettare da quell’insegnamento e cosa ‘necessariamente’ dovrà dimostrare quella ricerca: non è mai esista una riforma della scuola ‘fascistissima’, e non dovrà esisterne una ‘siculissima’. Certi biechi localismi lasciamoli a quei monti e a quelle valli dove, oltre alle vacche, pascolano anche le riforme della storia nazionale e dell’assetto istituzionale dello Stato.
Perché questo è il vero pericolo per la Sicilia: chiudersi in se stessa. I suoi secoli dicono altro, perfino le sue disgrazie indicano altre strade: emigrare o vedersi fatta lido di approdi dell’immigrazione altrui ha permesso a chi è dell’Isola di ‘farsi’ – e non di ‘avere’ come un intellettualotto di provincia – un’esperienza cosmopolita della vita. E, proprio perché frutto di esperienza personale, le radici profondo non sono mai gelate, perché hanno assorbito i freddi del Nord del mondo, come mai sono seccate al caldo del Sud. Pian Piano, si sono radicate lì dove venivano trapiantate dopo l’espatrio, e lì hanno continuato a fruttificare. Un siciliano vive la vita e abita il mondo anche se nasce e muore in questa terra, perché egli non teme il futuro e non respinge gli altri. Vive e si confronta, accetta la sfida e l’affronta.
Se i signori deputati vogliono far conoscere meglio questa stupenda terra, comincino dall’avere attenzione per le centinaia di chilometri di coste invase dal cemento, per i musei chiusi a causa della mancanza di personale, per la scarsezza di fondi delle scuole. Poi vedrete: basterà una gita fuori porta, per riappropriarsi di un giardino celeste che Dio ha voluto incastonare in un mare azzurro, e non tra le pagine di banali manuali di scuola.

Pubblicato il 7 aprile 2010 su CataniaPolitica.it


nn. 635-588-344-149/A

 RELAZIONE  DELLA V COMMISSIONE

Presentata il 6 aprile 2011

Onorevoli colleghi,

il  presente  disegno di legge si propone di  promuovere
la   valorizzazione  e  l'insegnamento  della  storia,  della
letteratura  e  della lingua siciliana nelle scuole  di  ogni
ordine e grado.
 A  tal  fine,  sono  previsti  appositi  moduli  didattici,
all'interno  dei piani obbligatori di studio  definiti  dalla
normativa   nazionale,  nell'ambito  della  quota   regionale
riservata   dalla   legge   e  nel  rispetto   dell'autonomia
   didattica delle istituzioni scolastiche.

     La  normativa nazionale, infatti, nel definire i  Piani  di
   studio  ha  previsto, accanto ad un nucleo fondamentale,  una
   quota   riservata  alle  Regioni  relativa  ad   aspetti   di
   specifico  interesse  delle stesse al fine  di  ampliare  gli
   obiettivi di apprendimento.

     La  storia, la letteratura e la lingua siciliana sono  così
   individuati   come  strumenti  didattici  di   valorizzazione
   dell' identità  siciliana   e  come  tratti  distintivi   del
   nostro  sistema educativo, in relazione alla quota  regionale
   dei  piani  di  studio personalizzati prevista  dalla  legge,
   così  valorizzando  la  specificità della  nostra  cultura  e
   l'autonomia delle Istituzioni scolastiche.

     L'assessore  regionale  per l'istruzione  e  la  formazione
   professionale  è demandato a stabilire, con proprio  decreto,
   previo parere della competente Commissione legislativa,   gli
   indirizzi di attuazione degli interventi didattici aventi  ad
   oggetto  la  storia,  la letteratura e la  lingua  siciliana,
   dall'età  antica  sino  ad oggi, con particolare  riferimento
   agli  approfondimenti  critici e ai confronti  fra  le  varie
   epoche   e  civiltà,  agli  orientamenti  storiografici   più
   significativi,  dall'Unità d'Italia fino  alla  fine  del  XX
   secolo  ed  all'evoluzione dell'Istituzione  regionale  anche
   attraverso uno studio dello Statuto della Regione.

     Per  le  ragioni su esposte vi invito, onorevoli  colleghi,
   ad  approvare  con  sollecitudine  la  presente  proposta  di
   legge.
                               ----O----

               DISEGNO DI LEGGE DELLA V COMMISSIONE

                 Norme sull'insegnamento della storia,
         della letteratura e della lingua siciliana nelle scuole

                               ----O----

                                Art. 1.
             Insegnamento della storia, della letteratura
                 e della lingua siciliana nelle scuole

     1.  La  Regione promuove la valorizzazione e l'insegnamento
   della  storia,  della  letteratura e della  lingua  siciliana
   nelle scuole di ogni ordine e grado.

     2.   Al  raggiungimento dell'obiettivo di cui  al  comma  1
   sono  destinati  appositi moduli didattici,  all'interno  dei
   piani   obbligatori  di  studio  definiti   dalla   normativa
   nazionale, nell'ambito della quota regionale riservata  dalla
   legge   e   nel   rispetto  dell'autonomia  didattica   delle
   istituzioni scolastiche.

                                Art. 2.
        Indirizzi regionali sui piani di studio personalizzati

     1.  L'assessore regionale per l'istruzione e la  formazione
   professionale,  con  proprio decreto, da  emanarsi  entro  90
   giorni  dalla presente legge, previo parere della  competente
   Commissione   legislativa,  stabilisce   gli   indirizzi   di
   attuazione  degli interventi didattici aventi ad  oggetto  la
   storia,  la  letteratura  e  la  lingua  siciliana,  dall'età
   antica  sino  ad  oggi,  con  particolare  riferimento   agli
   approfondimenti critici e ai confronti fra le varie epoche  e
   civiltà,  agli  orientamenti storiografici più significativi,
   dall'Unità  d'Italia  fino  alla  fine  del  XX   secolo   ed
   all'evoluzione  dell'Istituzione regionale  anche  attraverso
   uno studio dello Statuto della Regione.

                                Art. 3.
                             Norma finale

     1.   La  presente  legge  sarà  pubblicata  nella  Gazzetta
   ufficiale della Regione siciliana.

     2.  E' fatto obbligo a chiunque spetti di osservarla  e  di
   farla osservare come legge della Regione.

7 aprile 2011

FASCISMO TRANSITORIO

di Antonio G. Pesce - Un gruppo, neppure nutrito, di senatori del Pdl, e con loro perfino uno di Fli, ha presentato un ddl per l’abrogazione della XII Norma transitoria della Carta costituzionale. È la norma che, al comma 1, proibisce la ricostituzione del disciolto partito fascista, e che nel secondo comma prevedeva una limitazione al voto dei gerarchi (quelli che non vennero fucilati, ovviamente) per non più di cinque anni.
Il solo fatto che si discuta, a più sessant’anni, di qualcosa che, nella sua essenza, doveva essere transitorio, dimostra non solo il carattere di perentorietà che assume, in Italia, tutto ciò che si dà per precario, ma anche la resistenza di un passato che non vuole passare. Non vuole passare per chi e in chi ancora guarda ai codicilli finali di una Carta che, invece, bisognerebbe aggiornare dal primo all’ultimo articolo col dovuto buon senso, evitando espropri autoritari e venerazioni mitologiche; e in chi ha gridato al pericolo per la nostra democrazia, che dunque dovrebbe essere assai poco forte, se perfino la storia non sa essere un vaccino abbastanza resistente all’insorgenza di (presunte) malattie del passato. Perché – sia detto per inciso – il passato non è mai una patologia: col senno di poi siamo tutti sani, ma ciò non implica che prima si fosse affetti da chissà quale morbo.
La cosa potrebbe anche avere un suo senso. La norma è stata utilizzata anche a sproposito, sciogliendo partiti che non avrebbero potuto recare danno a nessuno, ben che meno al consolidato apparato di potere, che dagli anni ’70 in poi ha ingessato la nazione. E, inoltre, oggi nessuno potrebbe trarne profitto dalla ricostruzione del Partito Nazional Fascista: i calendari del Duce vanno a ruba più di quelli dell’ultima soubrette desnuda (anche perché, in tempi di imperante moralismo, si fa prima a giustificarsi per un’idea sbagliata che non per un ardore impuro), e c’è chi porta a tavola l’ardito vino di Predappio. Ma non si vede come la nostalgia per la propria gioventù, e in taluni casi per la gioventù altrui (del papà, perfino del nonno…) possa tramutarsi in una deriva autoritaria, che per essere tale dovrebbe avere bisogno del placet dei tempi andati. Si tratta, probabilmente, di malinconia: quando si è superata la soglia dei cinquanta, inizia un lungo processo di revisione della propria vita. Ogni atto di vita è un atto ermeneutico: dopo i cinquant’anni, diventa un atto filologico.
Di certo, l’operazione non servirà al dibattito storiografico. Permettendone, in linea teorica, la rinascita politica, il fascismo ridiventa nostro contemporaneo, e i contemporanei sono oggetti di simpatia e di antipatia, non di studio. Se fino ad oggi si sono scritte pagine indecenti di analisi, è proprio perché, in una certa ottica, Mussolini e il suo movimento dovevano essere ancora additati come nemici. La politica è fatta di scontri, non di rappacificazioni. Dobbiamo lavorare perché ci si batta sempre con le armi della dialettica e non già con la dialettica delle armi; possiamo della dialettica perfino calibrare toni e proibire metodi, ma la vita che celebriamo, vivendola, impone scelte. E nel grande calderone della vita bolle anche la politica, nel suo senso più misero e in quello suo più nobile.
Al fascismo è stato imputato di tutto, proprio perché, tolto dal contesto storico in cui nacque e da quello in cui si spense, lo si è fatto una dimensione perenne dello spirito umano. Dario Fo, nostro esimio premio nobel per la letteratura, parla di “fascismi” come sinonimo di “angherie”. Ma se per giudicare moralmente bisogna trasportare tutto nel proprio presente, per giudicare storicamente è necessario lasciare tutto nel passato. Nel passato della nostra esperienza, del nostro vissuto. Anche i singoli individui hanno un passato, e arrossiscono ripensando agli errori commessi e alle figuracce. Si credono sciocchi, se non addirittura perfidi, ma in realtà sono stati semplicemente degli ingenui. La vita non li aveva ancora svezzati. E chi, quarant’enne, arrossisce per la propria vita da vent’enne, a sessant’anni arrossirà e si darà dello stupido per le azioni che, venti anni prima, riteneva più degne di quelle compiute in precedenza.
Per soppesare vizi e virtù bisogna confrontare un’epoca con quella precedente, e non già con quella successiva. Quanto male o bene abbia fatto il fascismo, lo sapremo solo quando studieremo meglio – in tutti gli ordini e gradi di istruzione – l’epoca dei notabili che lo precedette. Capiremo allora cosa i nostri avi speravano, per cosa si battevano, e perché così facilmente credettero (e perché, con altrettanta facilità, abiurarono).
Il fascismo non fu il “male assoluto” additato da improvvisati storiografi e moralisti, se perfino alcuni suoi lontani epigoni, ancorché in avanzata età umana e politica, sono riusciti a tirarsene fuori rinnegandolo, per poi assurgere a paladini di quella Costituzione che dileggiavano, e a sedere sui più alti scanni di quella Repubblica che quasi non riconoscevano. Il fascismo fu, sic et sempliciter, un’epoca passata della storia patria. Un’epoca fatta da uomini, con tutto il bene che gli uomini possono fare, e con tutto il male che possono sperimentare. Proprio perché è storia fatta da uomini non bisognerebbe scandalizzarsene. Né, però, volerla rivivere.

Pubblicato il 6 aprile 2011 su TheFrontPage

6 aprile 2011

IL CASO MAJORANA

Il caso Majorana


di Antonio G. Pesce- Riaperto il caso di Ettore Majorana, genio catanese, docente di fisica teorica all’Università di Napoli, che nel 1938 scomparve senza lasciare traccia di sé. Il nucleo investigativo dei carabinieri di Roma ascolteranno un testimone, il quale, durante una intervista televisiva, ha dichiarato di aver visto l’eminente scienziato a Buones Aires alla fine del secondo conflitto mondiale.
Non è la prima volta che si parli della misteriosa scomparsa. Il caso fu trattato anche da “Chi l’ha visto?”, e anche in quel caso vi fu chi dichiarò di averlo addirittura frequentato, convincendosi dell’identità vera di quell’uomo, pur se non dichiarata. Storia tanto complessa, da vedere intrecciate tutti i generi letterari: cronaca, spy-story, saggistica, mistica, ecc. Tante le ipotesi in campo: dal suicidio in mare, mentre si dirigeva a Napoli, a quella del rapimento da parte di una delle nascenti (siamo nel 1938) potenze atomiche. La più suggestiva, però, rimane quella del siciliano Leonardo Sciascia, che in un suo libro del 1975, “La scomparsa di Majorana”, parlò di un “ritiro assoluto” del grande scienziato. Perché? Majorana era una mente brillante, ed altrettanto le sue intuizioni: prima fra tutti ad ipotizzare l’esistenza del neutrino. Frequentò pure Enrico Fermi, che gli fu di relatore alla laurea. Potrebbe anche aver capito la potenza distruttiva della fissione atomica, e di essere entrato così in una profonda crisi mistica.
In una lettera ad Antonio Carelli, suo caro collega a Napoli, scritta prima della scomparsa, si può leggere: “Caro Carrelli, Spero ti siano arrivati insieme il telegramma e la lettera. Il mare mi ha rifiutato e ritornerò domani all’albergo Bologna, viaggiando forse con questo stesso foglio. Ho però intenzione di rinunziare all’insegnamento. Non mi prendere per una ragazza ibseniana perché il caso è differente. Sono a tua disposizione per ulteriori dettagli”. Ben diverso il tono con cui si era rivolto ai suoi famigliari: non voleva il lutto Majorana; se proprio i suoi volevano onorare le tradizioni, che si vestissero di nero per qualche giorno. Teneva, invece, che la sua memoria fosse loro cara e che lo ricordassero.
Una storia umana, dunque, ben più complessa di quanto perfino i biografi più sottili possano aver immaginato. E che richiama, con le dovute distinzioni, quella narrata da Luigi Pirandello ne “Il fu Mattia Pascal”.

Pubblicato il 5 aprile 2011 su www.cataniapolitica.it 

NON E' UN PESCE D'APRILE, L'AMT E' SPA

Non è un pesce d’aprile, l’Amt è SpA

di Antonio G. Pesce- Oggi è il primo d’aprile, ma quello che state per leggere non è uno scherzo. Dopo che, per molte volte, in Consiglio comunale era mancato il numero legale, ieri sera è arrivata la fumata bianca: l’Amt passa a società per azioni. Una maratona dialettica, che pare aver sfinito molti dei consiglieri, se alla fine, mentre alle ore 00.16 il presidente Consoli chiudeva la seduta, in aula erano presenti appena dodici consiglieri. Con Gemma Lo Presti e Vincenzo Castelli tra i più contrariati per il fuggi fuggi generale dopo l’approvazione della delibera con cui si trasforma l’Amt in Spa.
Era passata da appena nove minuti la mezzanotte, ed ecco l’approvazione: 23 sì, 3 no e 1 astenuto. Hanno votato positivamente i consiglieri della maggioranza Mpa, Pdl, Pid, Udc a cui si sono aggiunti altri de La Destra e D’Avola del Pd. Hanno invece votato contro gli altri tre del Pd presenti in aula, mentre si è astenuto Bonica del Mpa. Contrario dicevamo il Pd, che aveva dato battaglia proprio all’inizio dei lavori con un D’Agata più agguerrito che mai, che in alcuni momenti ha sfiorato punte di sublime dialettica, calibrando la voce, e facendo partire qualche impennata di tanto in tanto. Ma non è servito. D’Agata aveva preso la parola, innanzitutto per smentire ‘qualcuno’ (lo ha definito un “buontempone”: chi sarà mai costui?), che avrebbe attribuito la mancata assunzione da parte dell’azienda municipale trasporti di nuovi autisti, già selezionati e pronti per la firma del contratto, all’opposizione dialettica del capogruppo Pd. D’Agata ha chiarito subito: se l’amministrazione vuole, può assumerli quanto prima. Il problema del consigliere non è far mancare il posto di lavoro a chi lo attende, ma avere ben esposto il quadro contabile dell’azienda. E, per D’Agata, il parare del collegio dei revisori dei conti, letto in aula da Marco Consoli, non è per nulla “circostanziato e motivato”. Dunque – ha continuato il capogruppo Pd – si attenda di leggere il consultivo prima di esprimersi.
È una delle “pregiudiziali D’Agata”, l’ennesima messa ai voti. Finisce respinta con 19 voti contrari. Favorevoli solo 5. Da questo momento, inizia una maratona di quattro ore. Prende la parola l’ass. Roberto Bonaccorsi, ormai presenza fissa dell’amministrazione in consiglio comunale. Traccia la storia dell’azienda, spiega come nascerà quella nuova, ne delucida la fondazione del capitale sociale: una “bella lezione di diritto societario”, dirà poco dopo ironicamente D’Agata.
Dopo di lui, è la volta dei presidenti delle commissioni interessate. Francesco Navarria, che presiede la II commissione permanente, ci tiene a far notare di approvare la trasformazione dell’Amt: “nonostante qualcuno dica che io sono pregiudizievolmente contro l’amministrazione”. Aggiunge inoltre di riconoscere l’importante lavoro svolta da Sanfilippo e Bonaccorsi, e chiede di creare un organo di controllo dell’esecuzione del piano industriale, “all’interno del quale ci sia un rappresentante del consiglio comunale”. Antonio Bonica, della X, si esprime altrimenti: “Il piano industriale è fumoso. È fumo negli occhi”. Vincenzo Castelli (IX) esprime il parere favorevole della commissione, ma invita a far sì che l’Amt controlli il proprio piano stradale.
Congiuntamente alla trasformazione dell’Amt in Spa, è stato votato anche lo Statuto dell’azienda stessa in cui vengono specificate le attività che la società potrà svolgere, la consistenza del capitale sociale di 33.889.000 euro, rappresentato da azioni di mille euro ciasscuno; che la partecipazione azionaria del comune di Catania non potrà essere inferiore al 51%. Secondo le previsioni dello Statuto la direzione dell’azienda verrà affidata a un direttore generale e che la nuova azienda assoribirà tutti i rapporti attivi e passivi di cui era titolare l’Amt.
Nell’atto deliberativo approvato è stato inserita anche la clausola che successiva deliberazione si procederà all’approvazione del nuovo contratto di servizio.
Infine, sono in molti a prendere la parola. Un gioco delle parti. Chi ricorda i bei tempi andati, e chi proprio belli non li considera. Si giunge alla mezzanotte. Sembra saltare tutto, e per l’ennesima volta. La gente del pubblico sonnecchia un poco. Di tanto in tanto, qualcuno ha un sussulto, quando l’oratoria del consigliere di turno s’infiamma. Poi arriva il voto. L’Amt è spa. Il comune è responsabile solo del bilancio pregresso. Solo – si fa per dire – di un deficit di milioni di euro. E i nuovi autisti? Brindano all’imminente assunzione. Sperando sia davvero così, noi qualche dubbio l’abbiamo.

Pubblicato l'1 aprile 2011 su www.cataniapolitica.it 

CONSIGLIO RINVIATO, MA FORSE ....




di Antonio G. Pesce- Forse siamo ad una svolta nella discussione sull’Amt. Ieri sera il Consiglio comunale di Catania doveva discutere ancora della trasformazione dell’Azienda municipale trasporti in spa. La seduta è stata rinviata a questa sera, ma non è detto che si concluda con un nulla di fatto. Secondo indiscrezioni, pare che la maggioranza abbia raggiunto un accordo, e potrebbe non mancare il numero legale.
Anche perché, onestamente, si sta facendo pesante vedere un Consiglio riunito, e fermarsi a stento alle pregiudiziali di discussione, se non addirittura alle comunicazioni. Ieri sera dominate dall’arresto dei quattro vigili urbani, avvenuto il 25 marzo, per concussione e abuso in atti d’ufficio. Rosario D’Agata (Pd) ha chiesto che il Comune si costituisca parte civile, qualora si arrivasse a processo. Gli hanno fatto eco il compagno di partito, Lanfranco Zappalà, e Nello Musumeci (LaDestra-Alleanza Siciliana), entrambi convinti che sia giunto il momento di una discussione di ampio respiro in consiglio sul corpo della polizia municipale.
Se questo è stato il tema caldo, altri e altrettanto importanti sono stati portati in seno al consesso civico. Manlio Messina (Pdl) ha parlato dell’occupazione da parti dei membri dell’ex centro sociale Experia della palestra di via delle Verginelle, ora chiusa perché pericolante, ma già inserita tra i beni sportivi da dare in gestione ai privati ed essere così recuperata. Francesco Navarria (Scelta Giovane) ha fatto sapere della raccolta di firme in cui si sta impegnando, assieme al proprio partito, per chiedere la riapertura della via al Tondo Gioeni. Inoltre, un altro tema gli sta a cuore: le isole ecologiche, non funzionanti in città, ma che già dovevano esserlo nel settembre dal settembre del 2010.
Problema abusivismo commerciale per Andrea Barresi (Pdl), che ha raccontato di un sopralluogo da parte della commissione annona al mercatino rionale di p.zza Montessori. Ovviamente, si faceva prima a contare i regolari. Del resto – secondo Barresi – era tutto preventivabile, dal momento che già nel settembre del 2010, secondo una relazione stesa della polizia municipale incaricata e letta in aula dallo stesso consigliere, si lamentava la mancanza di un elenco dei regolari, dei posti assegnati, della numerazione degli stessi, ecc. Non si vede, dunque, come si possa operare per ripristinare la legalità.
E di legalità hanno discusso, in un certo qual modo, gli altri consiglieri appartenenti al gruppo della Destra-Alleanza Siciliana, Manfredi Zammataro e Gemma Lo Presti. Il primo ha chiesto spiegazioni all’amministrazione, se sia vero che la gara di appalto per l’organizzazione della fiera di sant’Agata sia andata deserta e che, nonostante ciò, l’incarico sia stato dato alla ditta che ha organizzato l’edizione negli anni scorsi pur non essendosi presentata alla gara. Lo Presti, invece, si è posta il problema della Villa Bellini: a quanto pare, riaperta senza collaudo. Sarà vero?
Di sicuro c’è quanto ha fatto notare il consigliere Francesco Montemagno (Api): si parla tanto in consiglio, ma non si ottengono risposte per mancanza degli assessori competenti. Forse, approvando il nuovo regolamento, che prevede l’introduzione del “question time” (interrogazioni a cui risposta immediata), potrebbe cambiare qualcosa. E che più che qualcosa debba cambiare a San Cristoforo lo ha sostenuto, in un appassionato intervento (tanto per usare un eufemismo) il consigliere dell’Mpa, Agatino Tringale, il quale ha denunciato la mancanza di attenzione per i bambini del quartiere, lasciati a giocare in strada senza avere strutture ricreative a disposizione.

Pubblicato il 29 marzo 2011 su www.cataniapolitica.it

2 aprile 2011

ROBERTO DE MATTEI E IL CASTIGO DI DIO

Dato che è impossibile fare le pulci alla logica e alla retorica della politica italiana, non fosse che perché paiono ormai infestate, da un po’ di tempo i maestri del pensiero educato hanno cominciato a censurare i reprobi che non giacciono come converrebbe tra le lenzuola di casa, e che non pensano come si dovrebbe dalle cattedre di competenza.

Così, l’ultimo inquisito della serie è Roberto De Mattei, storico e vicepresidente del Cnr. Dai microfoni di Radio Maria – cioè, in pratica, da una sacrestia, e fino a ieri le sacrestie e gli altari, come l’intimo delle coscienze, erano ritenute estranei al seminato laicista – ha dato una lettura poco consona alle orecchie dei millenaristi attuali: i terremoti, perfino quello del Giappone (ancora mediaticamente molto forte), potrebbero essere un castigo di Dio.

Forse l’incauto studioso non sa che quel Dio, di cui egli si professa credente, è assai più misericordioso degli adepti del catastrofismo illuminista, il quale accetta di buon grado le profezie Maya, e che un conduttore le pubblicizzi (e con esse il proprio libro) da un canale televisivo pubblico, ma che poi monta su tutte le furie se tra un Pater e un’Ave qualcuno ceda alla tentazione dell’apocalismo di altra marca.

Intanto, però, nell’era della cittadinanza digitale, coloro che furono indifferenti cittadini ieri, oggi si impegnano con petizioni in rete: una delle tante chiede le dimissioni dalla vicepresidenza del Cnr del Prof. De Mattei. Chi la firma, dimostra suo malgrado di non conoscere il reale stato della cultura e della ricerca scientifica in Italia. In questi lidi pieni di cattedre, il minor danno che un accademico possa fare è spararle grosse dai microfoni di una radio. E, inoltre, è bene lasciare decidere alla fallibile discussione pubblica ciò che è giusto dire e ciò che non lo è, piuttosto che sancire, attraverso atti ufficiali, ciò che è lecito pensare.

Comprensibile che ad alcuni siano scattati i nervi, e abbiano chiesto ad un improvvisato profeta di pagare il fio delle proprie colpe: da noi mai nessuno si dimette, e dunque ci si accontenterebbe di un piccolo gesto per una colpa così insignificante, sancita da un tribunale così improvvisato. Ma come la classe politica italiana dovrebbe dimettersi per ben altre faccende che non per questioni di donne, così a quella culturale andrebbero chieste ben altre spiegazioni, che non circa le proprie vedute ultraterrene.

E poi il professor De Mattei ha detto roba vecchia perfino per le sacrestie: Dio permette le catastrofi per la redenzione dell’uomo, perché questi non si leghi ad una terra e ad una condizione che dovrà presto lasciare; da questo male, Dio può ricavarne un bene, in un modo o in un altro. Non sono concetti propriamente suoi, ma di mons. Orazio Mazzella, arcivescovo di Rossano Calabro dal 1898 al 1917, ormai passato agli onori degli annali perché deceduto da più di mezzo secolo. Parole scritte all’indomani del terremoto di Messina (1908), perché ieri come oggi, ciascuno cerca risposte all’inspiegabile, e l’assurdità del male, per chi non sa darne e, ancor più, non ne cerca, non è meno banale della banalizzazione della volontà divina.

Dovremmo ancora disputare – noi secolaristi di un secolare tempo – attorno alla domanda di senso di uno di noi, per quanto sbagliata possa sembrarci? Quale decalogo, e scritto su quale pietra, bisogna seguire nel tentativo di trovare un senso plausibile al grande mistero del dolore? E possiamo imputare a colpa le spiegazioni personali che ciascuno di noi cerca di darsi, per trovare il bandolo della matassa qui sulla terra? Perché tanto scandalo? Le idee ‘incresciose’ del professore (espresse, tra l’altro, in tono dubitativo) hanno ricadute su ciò che è stato, su ciò che potrebbe essere e sulla comunità intera? No. Avesse taciuto De Mattei, nulla sarebbe cambiato: la morte sarebbe ancora lì dov’è, pochi metri sotto le macerie. Ed è probabile che, se da quel microfono egli avesse proferito ben altre parole – quelle della ‘solidarietà’, la quale non è detto che, perché offerta, sia poi sincera – non per questo sarebbe mutato qualcosa nell’economia della tragedia. Mancano migliaia di esseri umani all’appello dell’affetto dei cari: le nostre buone parole o quelle ‘scandalose’ di De Mattei hanno lo stesso valore.

Semmai, non è chiaro a quale Dio lo studioso si riferisse. Al Dio dei cristiani? Quello rivelato da Gesù il Nazareno, un tipo molto più severo dell’allegra brigata che oggi lo rappresenta in terra, ma che un giorno disse ai suoi: “Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi” (cfr. Gv 15,15)?

Non c’è bisogno di tirare in ballo ogni volta la volontà divina: nella prospettiva del credente, Dio non ha creato il male, e ha fatto di tutto per evitare che entrasse nella storia. C’è entrato però: si chiama peccato originale. Laicamente si dice ‘debolezza ontologica’. La fragilità è la cifra della nostra essenza: noi siamo così. E così è il mondo intero. Vorremmo volare, ma non abbiamo le ali per farlo. Vorremmo l’immortalità e la sicurezza della beatitudine, ma non ci appartengono. Noi siamo quel che siamo. Possiamo diventare migliori, ma non perfetti. Possiamo rendere più pacifico il mondo, ma non più stabile.

Bisognerebbe sforzarsi di essere uomini migliori, non già dèi scadenti.


Pubblicato il I aprile 2011 su www.thefrontpage.it