"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

30 aprile 2010

DEMOCRAZIA PARTECIPATIVA: PRESENTATO IL NUOVO LIBRO DI DON SAPIENZA

È stata presentata a Motta Sant’Anastasia l’ultima fatica del sacerdote catanese don Piero Sapienza, La politica che non c’è. Da cittadini attivi nella polis (LEV, 2009), che è per un verso una profonda analisi di filosofia politica dell’attuale panorama socio-culturale, e per un altro una precisa e organica introduzione alla dottrina sociale della Chiesa. Oltre all’autore, sono intervenuti il vicesindaco di Motta, Vito Caruso, il presidente delle Acli siciliane, Santino Scirè, e Antonio Giovanni Pesce, studioso di filosofia e storia delle idee nell’ateneo catanese.


Caruso, aprendo i lavori, ha messo in evidenza il favore col quale è stato accolto il libro di don Piero, e ha parlato di una ‹‹sveglia›› che viene ad essere suonata non solo nella coscienza, e in casa, dei cattolici, ma pure in quella di ogni uomo di ‹‹buona volontà››, che ha a cuore le sorti della nostra società e lo sviluppo solidale ed equo del nostro futuro.

Società, la nostra, che pare tendere sempre più alla disgregazione: problema fondamentale questo, che Antonio G. Pesce, analizzando il libro – coadiuvato dalla sapiente scelta di brani letti da Francesca Caruso – ha indicato come il problema a cui vuole rispondere tutta l’opera. Infatti, la ‹‹fuga dall’impegno socio-politico da parte di tanta gente›› e ‹‹le moltiplici forme di chiusure individualistiche›› sono tipiche di quella sindrome che don Piero definisce ‹‹dello spettatore››. E prova ne sarebbe – ha notato Pesce – il linguaggio usato negli ultimi dibattiti sul fine vita e sulla natura della famiglia, tutto teso a rivendicare istituzionalizzazione alle pur tollerabili istanze affettive e personali: ‹‹Lo Stato così – ha notato lo studioso – finisce per essere notaio di patti soggettivi, nei quali la libertà non è intesa come possibilità di relazione tra persone, ma come commercio fra parti. Questo è il vero dramma dell’epoca postmoderna: il venir meno dello spazio pubblico, attorno al quale per millenni si è organizzata la società occidentale. La Chiesa Romana, che si fa custode anche di un deposito laico – il diritto romano – oltre al sacro deposito della fede, appare oggi l’unica istituzione pronta a combattere contro la nullificazione delle relazioni. Il libro di don Piero, dunque, si inserisce non solo nel grande dibattito cattolico sulla dottrina sociale, ma pure in quello, ben più radicale, sul ruolo della ragione nel definire l’essenza dell’uomo››.

Ha preso poi la parola Sciré, che ha parlato dell’impegno profuso dalle Acli nel rispondere alle istanze che vengono dalla società in modo cristianamente corretto e incisivo. ‹‹Anche l’associazionismo e il volontariato – ha detto il presidente aclista – sono un modo di rendere più partecipativa la società civile. Il rischio, però, di smarrire la stella polare è anche qui sempre incombente, ed ecco perché un libro come quello di don Piero può essere utile, con le riflessioni che propone, per mantenere sempre vigile la tensione morale››. Scirè ha poi consegnato al vicesindaco Caruso e al presidente del consiglio comunale di Motta Anastasio Carrà, presente all’evento insieme al consigliere Luca Cantone, una copia per ogni membro del consiglio e della giunta, sperando di avviare un dibattito all’interno della politica mottese.

Ma l’intervento più atteso, e che non ha deluso le aspettative, è stato proprio quello di don Piero, che ha cominciato ricordando come in Luigi Sturzo, per esempio, sia maturata la scelta politica: una scelta di profonda carità, che mira a liberare l’uomo dalle ‹‹strutture di peccato›› che ancora lo legano. ‹‹Quantunque sia necessario rispondere anche alle esigenze immediate di ogni essere umano, la carità cristiana non può limitarsi ad essere elemosina. C’è una carità più grande, che è proprio tentare di risolvere i problemi, per quanto sia nelle proprie forze, fin dalla radice. Un progetto, dunque, di lungo respiro. E nel far questo i cristiani hanno qualcosa da dire. Ma questo qualcosa non può essere imposto: bisogna esercitare la virtù della pazienza, che è il far maturare all’interno della coscienza altrui quei valori che il cristiano ha visto sbocciare dentro sé. Bisogna convincere col dialogo, senza imporre nulla, ma senza neppure dimenticare la netta distinzione tra bene e male. Tra ciò che è giusto e ciò che non lo è››. Gli uomini possono ancora dialogare, e possono ancora giungere a posizioni condivise, ‹‹ed ecco perché il papa pone così attenzione al tema della retta ragione. Senza il lume della ragione naturale, si rischia di cadere nelle tenebre del relativismo››.

Nel dibattito che ne è seguito, il pubblico ha sperimentato la partecipatività di cui parla don Piero Sapienza, e in molti hanno sentito l’esigenza di apportare il proprio contributo alla discussione. Si sono ricordati così gli anni della scuola di dottrina sociale della diocesi, inaugurata nel 1989 proprio nel giorno in cui cadeva il muro di Berlino. Anni di vera passione civile, per coltivare la quale i giovani di allora non lesinavano impegno nello studio. Un’esperienza che in molti, in questa occasione, hanno auspicato possa essere rilanciata.

Da www.cataniapolitica.it.

29 aprile 2010

25 APRILE ALLA SCALA: DA MILANO UN MONITO

Il vecchio adagio – tanto abusato da schiere di pedagoghi più che usato – vuole interminabile il processo di educazione. ‹‹Non si smette mai d’imparare››, si suole dire. E in effetti, succede che, anche solo ritornando con lo spirito di oggi ai fatti di ieri, l’uomo non smetta di estrarre dal proprio tesoro, come lo scriba divenuto discepolo, ‹‹cose nuove e cose antiche›› (cfr. Mt 13,52). Questo rendere vivo il proprio tesoro (la vita) divenendo discepolo (della verità) si chiama storia.
I “filosofi” – soprattutto se italiani – maturano lentamente. E solo a prezzo di gravi errori. Altrimenti, capirebbero subito che c’è da sporcarsi le mani con la storia; questo vissuto fatto di terra e sangue di ogni uomo. Poi, si muovono, conoscono altra gente, varcano le alpi, volano sulle nubi, e si accorgono che dalla Francia alla Germania agli Stati Uniti non si lesinano né attenzioni né risorse economiche all’insegnamento e allo studio della storia.
Colpisce il giovane studioso italiano l’ambiente che circonda il “filosofo” in Francia o Germania. Ma soprattutto lo storico. A volte, ha anche la birra pagata. Se sono grandi nazioni, è perché lì l’intellettuale ha rischiato anche la testa (e molte volte l’ha pure persa) per criticare il potere e raccontarne gli scempi al popolo. Soprattutto, sono grandi nazioni che hanno una storia condivisa. E per un popolo avere una memoria condivisa – avere una storia, è importante tanto quanto lo è per ogni persona avere chiarezza di sé, dei propri limiti e delle proprie possibilità.
Giorgio Napolitano, pronunziando alla scala di Milano, la vigilia di quest’ultimo 25 aprile, uno dei discorsi più belli che l’Italia repubblicana abbia mai potuto ascoltare, ha voluto educare le ubriache masse di politici e di clientele varie con l’atto della propria autocoscienza di anziano signore ormai ultraottantenne, donando una ricostruzione storica condivisibile, una storia. Nulla rende più lucidi davanti alla vita dell’incipiente certezza di appartenervi sempre meno. Così, un momento di mera contrapposizione tra parti diventa l’occasione, a distanza di 65 anni, per additare l’ennesimo momento di divisione in seno agli italiani. Un momento che può ed ha conosciuto ragioni ed errori – che il presidente non ha dimenticato di ricordare – ma che inserito nel vissuto di questo popolo, non può più essere letto come semplice ‹‹liberazione››. La resistenza – e non a caso il Presidente si sofferma sul contributo dei militari che ‹‹diede continuità›› all’azione partigiana nel solco della nazione – si nutrì di quei sentimenti di patria e di onore, che se erano sembrati mera retorica ai giovani cresciuti nel ventennio precedente, in quelle ore parve essere il problema di tutta una vita. E la gioventù seppe riunirsi attorno all’amore per l’Italia, e il fascismo, che fino a non molti anni prima pareva dover rappresentare tutto il paese, diventa solo una parte, rappresenta un solo momento di questa storia.
Il 25 aprile, allora, acquista un altro significato, che invera e supera quello precedente: c’è ‹‹liberazione›› perché c’è ‹‹riunificazione›› di tutti gli italiani sotto l’egida della libertà.
Un’operazione di enorme respiro storiografico. Perché non ci sono più Italie, ma una sola e somma, ed è quella che procede il suo cammino; un’Italia che riconosce figli tutti i caduti per suo amore senza badare al colore del fazzoletto al collo o il distintivo sul bavero.
Ampio respiro storiografico. Altrettanto ampio il respiro politico che chiede il superamento del particolarismo partitico a favore di riforme istituzionali condivise, per far nascere nel rispetto delle regole oggi in vigore le leggi che lo saranno in futuro. Ma è anche un chiaro monito alle ‹‹sgangherate›› battute sull’unificazione italiana: ‹‹Siamo chiari. Se noi tutti, Nord e Sud, tra l’800 e il 900, entrammo nella modernità, fu perché l’Italia si unì facendosi Stato; se, 150 anni dopo, siamo un paese democratico profondamente trasformatosi, tra i più avanzati in quell’Europa integrata che abbiamo concorso a fondare, è perché superammo i traumi del fascismo e della guerra, recuperando libertà e indipendenza, ritrovando la nostra unità. Quella unità rappresenta oggi, guardando al futuro, una conquista e un ancoraggio irrinunciabili››.
Forse, d’ora in poi potremo guardare con lealtà al passato, vivere con serenità il nostro presente, e costruire con vivida fiducia un futuro più degno della nostra millenaria storia.

Pubblicato sul L'Alba di aprile 2010.

26 aprile 2010

LA TRAGEDIA DELLA DESTRA

di Antonio G. Pesce- Da anni la destra non legge più. Da anni non si sa più che cosa legga la destra. Una volta, appena entrato in una sezione del vecchio Pci o dell’Msi ti davano il catechismo: una lista fitta fitta di nomi e opere da leggere. A mio zio, pasticciere, diedero da leggere I tre volti del fascismo di E. Nolte. Forse si esagerava, ma nessuno poteva disconoscere la mèta agognata e i compagni di viaggio.

Oggi, la politica ci dicono che è nuova. E la novità starebbe nella leadership carismatica: cioè, in poche e succinte parole, un uomo solo al comando e la reductio ad unum di ogni distinzione. Politica che tanto nuova non è, ma quando la memoria si annebbia, e anzi si perde il filo della storia, si spaccia per oro l’anticaglia dell’armadio buio del passato. Ogni merce ha la propria tracciabilità – della vita umana, dell’esperienza politica di una civiltà si possono perdere le orme. E tutto ricomincia. Corsi e ricorsi storici? Nulla di pre-determinato. Se gli uomini imparano dal già vissuto, non hanno da temere di ricadere negli stessi incubi.

Non ci sono più maestri, e Fini si era sbarazzato anni addietro di quelli che gli erano rimasti. Ora il giovane discente ha il suo Socrate nel pur garbato professore Campi e la sua agorà nella fondazione FareFuturo. Ma se avesse continuato a leggere Giovanni Gentile, probabilmente, non solo avrebbe trovato parecchi motivi per non co-fondare con Silvio Berlusconi il Popolo della Libertà, ma in queste ore, magari, avrebbe ripreso in mano I fondamenti della filosofia del diritto, e sarebbe trasalito rileggendo quello che scriveva il filosofo siciliano nel 1916: ‹‹Tutto un passato eroico può essere cancellato da un istante di viltà››.

La viltà di non aver saputo rischiare quel giorno, quando perfino il ‹‹democristiano›› Casini ebbe il coraggio di dir no al partito di gestazione automobilistica. Un predellino può fare un partito? La politica può essere non-pensata? Poi, prima ancora di Tartaglia, La Russa ci ha raccontato la storia di quella nascita: ‹‹un atto di amore››, va dicendo, ‹‹perché in quei giorni era morta prima la madre di Berlusconi, poi quella di Gianfranco››. La gente non si riunisce più nell’intimo della propria famiglia per piangere la dipartita dei cari. Fonda partiti.

Davanti al silenzio di chi teme di perdere la stima del capo carismatico, ed è dunque pronto a dimenticare pure l’ultimo barlume di dignità, anche il Fini di questo ultimo decennio – così liberista e radical-chic, così schierato per il pensiero unico mieloso della piccola borghesia intellettualoide – anche questo Fini assume i tratti eroici di un Ettore che, pur vedendo di aver contro gli dèi dell’Olimpo, combatte Achille a viso scoperto. E muore. Ma l’ira del Pelide non trasmette lo stesso pathos di chi, pur non cercando il martirio, opta per l’ultimo brano d’onore. Uno contro tutti: c’è del sublime, come il mare il tempesta o la contemplazione del cielo stellato.

Fini è finito. Almeno per i prossimi anni. Esattamente come quelli appena trascorsi. Altri avvenimenti potranno sbloccare la situazione politica italiana: avvenimenti che, ora, non possiamo neppure intravvedere. Ma non saranno motivi politici. Gli italiani non usano la ragione in politica, ma il cuore. Fini dovrebbe saperlo, perché negli anni in cui non sparlava – e parlava all’unisono con la nazione che voleva difendere dal nichilismo e dalla disgregazione sociale – fu tra i pochi a far innamorare gli italiani. Allo stato attuale, una parte di essi, piuttosto che rischiare per avere quanto loro dovuto, preferiscono i balocchi che si possono comprare con i pochi spiccioli rimasti ad un mamma egoista e scialacquatrice, che li sperpera in profumi per sé (senza considerare i lifting mediatici).

Eppure, il ragionamento fatto da Fini lì dove questi tipi di discorsi vanno fatti – e non sporgendosi da una macchina – non faceva una grinza. Intanto, il tono. Conciliante. Buon sangue (di retore) non mente: concedere argomenti e ragioni anche all’avversario, sapere scendere a patti, dire quel che si può dire e nel modo in cui va detto, ed evitare quello che non si può dire. Poi, la strategia. ‹‹La Lega fa bene il suo lavoro››, dice Fini. Sicuro? Alla Lega la situazione scapperà di mano, prima o poi. Solo un Nord illuso (o forse moglie di un marito fedifrago: meglio non capire…), e che pure è stato il cuore civile di questa nazione, può non accorgersi che le sante battaglie celtiche si sono imborghesite con l’avanza del potere. Da Roma-ladrona a Ladrona-di-Roma: in ultimo, perfino la più statalista delle richieste, la direzione delle banche. Tuttavia, nel senso di bieco monopolio di cacciagione elettorale, è fuor di dubbio che la Lega ha segnato il suo territorio. Ma quanto sarà capace di reggere il Sud una situazione da curva?

E poi, verrà il giorno il cui sarà posta all’ordine del giorno la questione di un partito che, ormai, discrimina apertamente, offende razzialmente e, di fatto, conquistando regione su regione, avrà la possibilità, da qui a qualche anno, di fare quello che nella sua radio dicono in molti apertamente.

Fini lo sa. E sa anche che più la Lega sproloquia al Nord, più il Sud chiederà garanzie all’unico partito nazionale della coalizione. E a quel punto?

A quel punto, cioè quando i meridionali si accorgeranno degli scippi autorizzati dal loro stesso voto, Berlusconi non avrà da temere alcuna crisi di governo. Saranno caduti in prescrizione molti dei processi rinviati con le leggi ad hoc approvate dallo stesso Fini. E non c’è da contare sulla sinistra – ché i suoi bei cedimenti retorico-nordisti li ha pure avuti in questi anni. E poi l’ex-Pci è ormai senza spina dorsale che, nel caso di un partito, si chiama organizzazione. E neppure dell’Mpa, perché Lombardo avrà anche saputo tener testa a Silvio & Co., ma è ancora nella maggioranza. E, francamente, lo abbiamo sentito tuonare – e anche molto bene, con stile – per difendersi in seno all’Ars dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, ma fino ad ora nessuno lo ha sentito fare e dire altrettanto per la difesa della terra che, in fin dei conti, continua a premiarlo.

Berlusconi vince perché, restando in politica, non ha nulla da perdere. Ecco perché non ha paura. Perché nulla gli è e si è precluso. Fini sì. Fini ha paura. Non vuole restare tagliato fuori, ma neppure vuole restare dentro ad ogni condizione. Achille voleva solo la gloria. Ettore no. Voleva salvare la faccia, e salvare la vita. La politica italiana, se non ha partorito un dio, ci consegna, ormai, certamente un Titano.



Pubblicato su www.cataniapolitica.it del 24 aprile 2010.

21 aprile 2010

EMERGENCY: L’OSCENO DUBBIO DI FRATTINI E IL MACETE DI STRADA

Di Antonio G. Pesce- È finita bene. Tra un paio di giorni – nubi laviche permettendo – torneranno a casa i tre operatori di Emercency arrestati (o sequestrati, a seconda dei punti di vista) dai servizi di sicurezza afgani quattro giorni fa. Eppure, siamo stati capaciti di trasformare questo caso – un caso squisitamente politico, nient’altro che politico – in una disputa attorno ai buoni sentimenti e alla redenzione degli uomini. In un paese in cui la sinistra rispolvera il motto della questione morale, solo per censurare i comportamenti boccacceschi del presidente del Consiglio (ormai più adatto a fare scuola alle nuove leve di dongiovanni, che non a quelle dei buoni amministratori), e la destra straparla di valori senza mai dire quali siano e riadattando ad uso proprio quelli che dice apertamente di condividere, il fatto che tre nostri concittadini vengano arrestati senza un preciso motivo non poteva che diventare motivo di contrapposizione teologica – tutti figli di uno gnosticismo, di fronte al quale anche il meno avvezzo alla spudoratezza di certe idee, preferirebbe un sano machiavellismo, o ancor più un realismo crociano, che non questa farsa da oratorio cattosocialista.

Inizia il nostro ministro degli esteri. Oltre che bello, è pure pio. È un pregaiuolo. Ci arrestano tre connazionali: sono medici, infermieri. Uno è addirittura un ragazzotto di neppure trent’anni. Tutti con l’ideale sano di salvare vite umane, e con la convinzione (meno sana) che tutto il male venga dagli occidentali. Che sono gli stessi a cui si rivolgono per avere aiuti economici. Illusi di un pacifismo parolaio. Ma non terroristi. Anzi, è ridicolo anche solo pensarlo. Eppure vengono arrestati dopo un blitz dei servivi segreti. Non si sa bene perché proprio loro. Ma si sa che, tra bende e pannolini, avrebbero avuto l’imprudenza di conservare armi da guerra, che – è notorio – non vanno nascosti, ma conservati all’asciutto. Forse, avrebbero pure pianificato l’omicidio del governatore del distretto. Pensate un po’! Dopo l’arresto, non se ne sa nulla per tre giorni. Ora, almeno sappiamo che sono liberi e che torneranno a casa. E davanti a tutto questo, come risponde il ministro degli esteri di uno dei paesi che tanto sta facendo per la rinascita di quella terra? Prega. Prega che non siano vere le accuse. Perché ha nutrito dubbi in merito?

A sentire Gino Strada, l’anima di Emercency, si capisce bene che questa è gente che non ha mai avuto nulla a che vedere con armi e complotti. Non foss’altro perché armi e complotti sono roba umana. Roba di questa terra, nella quale gli uomini, da millenni, si industriano per raggiungere una guerra meno duratura dei periodi di pace. Essi, invece, sono i guru di una religione senza dio, di un cristianesimo senza Cristo, della strategia della nonviolenza senza i presupposti storici che permettano di distinguerla dalla permissione della violenza medesima. Sono una redenzione senza il dubbio dell’esistenza del peccato.

I laici di una volta, almeno, avevano chiara la situazione antropologica dell’uomo; sapevano che la storia umana non era l’Eden e che per giungere alla terra promessa dalla pace c’era da attraversare il deserto del male e salire per il calvario delle scelte. Anche dolorose. Perché la storia eterna della Provvidenza sarà pure disseminata di croci e cicatrici, ma è almeno illuminata dalla lampada della speranza. Il provvidenzialismo laico del pacifismo novecentesco è un chiedere al dio avvenire senza pretendere nulla dall’uomo presente. La laicità di Croce aveva chiaro che, senza Dio, l’unica preghiera era quella delle mani dell’uomo. Un rosario fatto di impegni e di scelte, anche piccoli, ma dal grande peso e dal passo lento. E ce stato chi non ha temuto di sporcarsi le mani di sangue, se ciò poteva significare la fine di una tirannide. Von Stauffenberg e Canaris oggi sarebbero dei criminali alla stregua dell’ Imbianchino che volevano uccidere.

Non è in dubbio che certe guerre siano mosse da ragioni infondate e tutte dovrebbero essere evitate. Questo lo ammette chiunque abbia un minimo di buonsenso. Lo stesso che, però, distingue la forza priva di giustizia, chiamandola violenza, da quella che la contempla e che si chiama diritto. Il diritto abbisogna della forza quando, in extremis, ci si trova davanti a soggetti che disconoscono la sua natura intersoggettiva. È meglio peccare di troppo zelo che per mancanza: il troppo può sempre essere riparato da un giusto equilibrio, mentre la mancanza di diritto è la guerra di tutti contro tutti.

Dire, allora, che la guerra contro il regime talebano sia stato un errore è un’opinione discutibile politicamente, ma moralmente ha una sua dignità. Come affermare altrettanto della guerra irakena. Certo, nessuno che lo fa spiega, poi, come mettere d’accordo questo pur prudente, a tratti anche saggio, relativismo, con la fondatività dei diritti umani in un’epoca in cui la loro violazione appare evidente per via dei mezzi di comunicazione. Ma ancora siamo nel solco del lecito.

Ciò che non è lecito è andare in televisione a mostrare i propri dubbi di profeta della radiosa pace avvenire sulla distinzione tra truppe regolari e terroristi. Non si tratta, qui, di una distinzione politica – discutibile, ma politica. Si tratta di una pericolosa deriva morale. Segno che, a forza di chiacchierare di strategie geopolitiche e di buoni propositi, anche gli esperti chirurghi perdono l’antica padronanza del bisturi. E usano un macete per sezionare i problemi. Che, notoriamente, sono ancor più delicati dei delicati tessuti umani.



Pubblicato su www.cataniapolitica.it del 19 aprile 2010.

17 aprile 2010

SULLA BOCCIATURA DEI MATRIMONI GAY

di Antonio G. Pesce- La Corte costituzionale ha rigettato come ‹‹inammissibili e infondati›› i ricorsi presentati per introdurre, nel nostro ordinamento, la possibilità di contrarre matrimonio tra persone dello stesso sesso. Tutto nato dalle denunce presentate da coppie omosessuali che, vistesi respinte dall’ufficiale di Stato civile la richiesta di pubblicazioni, avevano investito i tribunali delle rispettive città, Trento e Venezia. Questi si erano rivolti alla Consulta per chiedere se non fosse ipotizzabile una violazione degli articoli 2 (diritti inviolabili dell’uomo), 3 (principio di uguaglianza), 29 (diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio) e del primo comma dell’art. 117 (ordinamento comunitario e obblighi internazionali) della Costituzione.

Prima di entrare nello specifico, è bene attendere la pubblicazione delle motivazioni. Per ora sappiamo soltanto che la Consulta farebbe dipendere tutto dalla ‹‹discrezionalità del legislatore››: in poche parole, dal potere politico. Non è la prima volta che capita: per diverse ragioni, anche davanti al caso della giovane Eluana Englaro Giovanni Maria Flick, allora presidente della Corte, ammise l’impossibilità della Consulta di dirimere la controversia.

Ma quante altre controversie la nostra Costituzione non potrà dirimere? Molte altre. Perché molte sono le questioni che, storicamente, la nostra civiltà non ha creduto di dover far risolvere alla politica. Uno Stato non nasce con l’intento di tracciare il confine tra la vita e la morte, né può – ma ce lo dimentichiamo spesso – mettere la parola fine sulle dispute millenarie circa la virtù e la buona vita. Non ci sarà mai Stato che saprà risolvere le nostre angosce o, con un atto legale, dirci come sia giusto o sbagliato amare. Una vita è un mistero insondabile perfino per colui che la vive. È qualcosa che sfugge all’immediatezza: valutiamo quella passata col metro di quella appena acquisita. Diciamo che un amore era sbagliato quando torniamo ad innamorarci.

Proprio per questo, la più grossa barbarie degli ultimi due secoli è l’aver demandato al potere politico la soluzione dei dilemmi della nostra libertà – quella libertà dinanzi alla quale neppure Dio, avendola donata, può lederla. Liberi lo siamo appunto perché, in fin dei conti, mai totalmente definibili dai nostri stessi simili. E quando, ai piedi dell’altare dello Stato, deponiamo la nostra più intima essenza – la libertà – per averne in cambio leggi anche giuste (figuriamoci quando se ne abbia in cambio, addirittura, la lusinga legislativa del caporione del momento), noi perdiamo più di quanto speriamo di ottenere. Ammesso che valga la pena conquistare il mondo perdendo se stessi.

Fuori di metafora, nessuno potrà mai sapere se amare da omosessuali e da eterosessuali sia lo stesso. Come nessuno potrà mai giudicare l’amore che c’è tra due persone a noi care, delle quali, magari, siamo in grado di raccontare tutta la vita e di rubricare tutti i gusti e i tic più nascosti. Perché nessuno può mai dire, fino in fondo, quanto sia ricambiato l’amore che egli prova per la persona amata. Non si ama per essere amati. L’amore si giustifica da sé punto. L’eternità di un amore sta tutto nella capacità di sfuggire al commercio tra le parti: non è un caso che quello più duraturo sia anche il più franco da interessi, l’amore di una madre per suo figlio.

Per questo non c’è bisogno di contratti per amare. Si dona l’intera vita, o quanto meno i momenti più belli, alla persona che si ama senza chiedere nulla. Ed è proprio nel non chiedere che sta tutta la bellezza dell’amore. Amare è donare. E ci si dona in assoluta gratuità sin dai primi anni di scuola elementare – un palpito in più del cuore davanti alla ragazzina di cui ci si è infatuati, non è meno degno di essere vissuto dei sentimenti maturati davanti ai carati di un diamante. Ci si dona con assoluta devozione, senza nulla a pretendere, anche nel più assoluto segreto del cuore. Nessuno potrà mai ricambiare, perché nessuno saprà mai. Amori che nascono nel cuore, e finiscono solo con la fine del cuore. Amori che finiscono solo con la morte. O, forse, proprio per questo, mai finiti.

Nessuno può impedire che tutto ciò avvenga. Perché il cuore è di chi lo sente.

Con o senza matrimonio, le persone amano comunque. Il matrimonio non garantisce l’eternità dell’amore né è sigillo di qualità di un sentimento. Il matrimonio sancisce altro. È l’accettazione pubblica di un sentimento. Perché se è vero che nessuno può negare a un cuore di battere, nessuno può scandire il tempo col palpito del proprio. Non è un caso, infatti, che il matrimonio si celebri davanti ad un ufficiale e che per essere ritenuto valido serva, oltre alla propria, pure la disponibilità dell’altrui persona.

È un atto pubblico: posso amare anche nel silenzio dell’anima, ma non posso sposarmi se non in uno spazio collettivo. Quello dello spirito sarà, infatti, anche migliore di quello della polis o della ecclesia nel quale contraggo matrimonio, ma non è lo spazio di tutti: è il mio. E, come ogni cosa che è naturalmente mia, non abbisogna di carte bollate perché me ne venga riconosciuta la proprietà.

Quando, però, decidiamo di sposarci, chiediamo all’altra persona di seguirci in questo passo. Con l’altra persona decidiamo dove coabitare, come arredare il luogo, che cosa fare del tempo insieme, come gestire le casse e se avercene una comune. Non ci sono regole ai sentimenti, se non quando si tratta di comunicarli a coloro che ne sono oggetto. Allora tutto cambia, ed il mezzo, in questo caso, avrà lo stesso garbo del fine.

Regola, alla radice c’è il vomero; – regolare significa tracciare limiti, come il vomero anticamente quelli della città. Della polis. Ci sono regole anche nell’amore, appena il nostro sentimento fa oggetto qualcosa. Figuriamoci qualcuno. E c’è un limite che l’amore omosessuale, per quanto degno lo si voglia e lo si possa credere, non può superare per entrare in città: è la terra. Una terra che, per quanto umana, ha le sue regole. E queste regole dirigono la Storia. L’impossibilità di generare è la stessa impossibilità di continuare il diritto e, in ultima analisi, la città.

Lasciamo alla miseria della terra la prerogativa di dettare il ritmo della storia, dato che ai sentimenti è dato in dono la possibilità di scrivere le pagine eterne del cuore


Pubblicato su www.cataniapolitica.it del 15 aprile 2010.

14 aprile 2010

SCUOLA: ANNUNCIATI TAGLI PER 25.000 POSTI

di Antonio Giovanni Pesce. La gallina dalle uova d’ora – o il pollo da spennare, in base ai punti di vista – dell’attuale governo pare essere la scuola. Il governo ha annunciato alle organizzazioni sindacali il piano di tagli per l’anno scolastico 2010/2011 al fine di attuare quanto stabilito dall’art. 64 della Legge 133/08, ed è un piano pesante: 25.600 posti in meno tra i docenti, anche se dal ministero ci tengono a far sapere che i tagli ‹‹di fatto›› – cioè delle cattedre oggi esistenti – riguarderà solo 3.600 unità. Gli altri 22.000 saranno ottenuti ‹‹di diritto››, cioè facendo in modo che non ne vangano create ulteriormente.

Ci saranno, nello specifico, 8.700 maestri, 3.700 professori di scuola media e 13.750 di scuola superiore in meno in Italia. Ma come ottenere tutto ciò? Innanzi tutto innalzando il rapporto alunni/classi, cioè facendo in modo che le classi scolastiche siano più affollate di quanto non siano già adesso. Cosa che non colpirà molto l’opinione pubblica, in un Paese nel quale la stragrande maggioranza degli elettori ricorda la propria insicura e stracolma aula del secondo dopoguerra. Inoltre, si ridimensionerà la rete scolastica che, in soldoni, significa meno scuole. Infine, verranno riformati i cicli di studio e tagliato il monte ore di lezioni in molti licei, anche se ancora il ministero non ha reso noto quali, e l’introduzione del maestro unico che si estenderà per scorrimento, ovviamente, alle seconde classi.

I sindacati hanno dato parere contrario. La Uil parla di ‹‹un mix di tagli e gestione tutta burocratica [che] rischia di minare la qualità della scuola››. E aggiunge: ‹‹Si interviene con tagli lineari e, anziché operare per la riqualificazione della spesa, si insiste con una gestione tutta burocratica. Occorre, invece, fotografare la situazione reale e, su quella base, determinare il bisogno effettivo di organico››. La Gilda, il sindacato autonomo dei docenti, attende maggiori chiarimenti, che verranno forniti nei prossimi giorni, ma già in precedenza si era espressa duramente conto la riforma Gelmini, parlando addirittura di ‹‹caos››.

Quello che, però, le sigle sindacali stimmatizzano con più forza è la possibilità, paventata dal ministero, di lasciar sforare il monte ore per docente, che attualmente è di 18 ore di lezione settimanali –esclusi collegio docenti, consigli di classe, di dipartimento, di istituto, ecc., che, se computati, raddoppierebbero il cumulo delle ore – al fine di non procedere ad ulteriori assunzioni per ricoprire spezzoni di cattedra. Nuove assunzioni, insomma, sono più onerose per l’amministrazione che non il famoso ‹‹straordinario››.


Pubblicato su www.cataniapolitica.it del 09 aprile 2010.

9 aprile 2010

NON AVRAI ALTRO DIO CHE LA VITTORIA ELETTORALE

di Antonio Giovanni Pesce- Ha vinto la Lega. È uno choc per chi è cresciuto nella civiltà delle buone maniere, perché la Lega dimostra di non coltivarle molto. Ma è un dato di fatto. Come è un dato di fatto che a queste ultime regionali, che assegnavano il governo di tredici regioni, il Pdl non solo non ha arretrato, ma anzi ha consolidato la sua forza nello scacchiere politico, rinvigorendo la figura di Silvio Berlusconi, ultimamente apparsa anemica. Possiamo, dunque, stracciarsi le vesti, dire che gli italiani non capiscono un accidente (e sono sempre «gli altri» gli italiani che non capiscono niente), e lasciare intatte le nostre teoriche analisi pre-elettorali, o avere quel barlume di lucidità per capire che la realtà, anche quando non piace, è sempre meglio della lusinghiera illusione.

Il Pdl vince. Vince perché, intanto, gli italiani siamo un popolo che disprezza la forma. Erroneamente, perché la forma è anche sostanza. Ma così è. E preferiamo la pragmatica azione di uomini di governo al governo delle leggi. Così tutti. L’altro giorno un amico lamentava il «formalismo» del presidente della Repubblica, reo di non interpretare la Costituzione come egli vorrebbe che venisse interpretata (sostanzialmente, contro le leggi del Cavaliere). E a chi cercava di fargli capire che la Costituzione non è quella forma che, ormai, non si rispetta neppure a tavola, ma la forma che in-forma la nazione, proprio per guidarla con l’astrattezza delle leggi che non col concreto atto di volontà di un uomo, lui obiettava il filosofismo, il chiacchiericcio, ecc. Tutto quello per evitare il quale in Italia pensammo di sperimentare il fascismo.

Ai grillini e ai dipietrini si contrappongono i berluscones. Tutti convinti che la politica sia nient’altro che lotta cruda e pura all’interno di un medesimo popolo; che non sia altro che la scelta redentrice di novelli profeti. La ricerca del compromesso qui, da noi, è inciucio. È tradimento. Ma chi non tradisce, avrà in eredità la nuova Italia, il paradiso terreno. Ecco perché l’astensionismo fino a ieri colpiva solo la maggioranza silenziosa del paese, i cosiddetti moderati, e a questa ultima tornata perfino la sinistra: il popolo di destra si sta clericalizzando, quello di sinistra si è laicizzato. O meglio, mentre i devoti dell’Unto di Arcore vanno a votare, i fedeli di sinistra non ci vanno perché, se non credono agli dei dell’Olimpo giacobino (Grillo e Di Pietro, in poche parole…), non vedono altro che la «morte di Dio», e dunque perché scomodarsi?

Se la politica è strategico spostamento di voti, per creare una sana concorrenza tra gli operatori della politica, in Italia non esiste più. Il Italia vige un credo: quello del fare o quello del fare giustizia. Anche chi non va a votare è un fedele. Lo rimane tuttora, nonostante e proprio perché non più praticante. La Lega vince perché non governa – perché così ha lasciato credere. Non è un male la sua straripante vittoria, neppure per i suoi nemici. Perché se sono così bravi come dicono, allora avranno cinque anni per dimostrarlo, e l’Italia avrà guadagnato una nuova classe politica, fatta magari di gente poco colta e sostanzialmente razzista, ma più pulita e capace di quelli che l’hanno preceduta. Altrimenti, vedremo come è facile portare anche l’acqua del Po al proprio misero mulino.

Si apre ora un stagione difficile per il presidente del Consiglio. Non gli sono serviti a nulla le moine fatte all’elettorato del Nord nell’ultimo anno, sproloquiando di inadeguatezza delle classi dirigenti del Sud (vero, ma quelle classi, negli ultimi vent’anni, sono state scelte da lui), strizzando l’occhio alla regionalizzazione della scuola, o l’aver pensato perfino alle ridicole gabbie salariali. C’è sempre qualcuno più fondamentalista. Perfino sugli immigrati, che ne vengono espulsi sempre meno di quanti ne entrano, l’italiano medio vuole essere confortato – mica accontentato, e in questo la Lega dimostra di saper cantare la ninnananna meglio di lui. Ora, può seguitare ad accontentare i leghisti, dimenticandosi del Sud, come è sostanzialmente accaduto nell’ultimo anno e mezzo. E, dunque, scavarsi la fossa da solo. O tirare un po’ la coperta pure dalla sua parte, tentare di rafforzarsi al Nord senza perdere il Sud come riserva di voti, e recuperare lentamente il ruolo di partito politico nazionale che il Pdl sta perdendo. Tutto sta a vedere se il problema del Cavaliere sia di carattere politico o giudiziario. Perché tirare la corda con la Lega si può: i primi a non voler che si spezzi sono proprio Bossi e compagnia. Quando l’hanno spezzata, il loro elettorato, assai incline alla soluzione dei problemi piuttosto che alla rivendicazioni di identità celtiche o di diritti democratici, si è riversato quasi per intero in Forza Italia. Però, tutto può sempre accadere, e giocarsi un governo è questione esclusivamente politica. Giocarsi la libertà (altri direbbero l’impunità, ma credo che il concetto sia comunque chiaro) è tutt’altra questione: significa uscire fuori di scena e perdere ogni partita. Vedremo nei prossimi mesi.

Un’ultima questione. Perdono Bresso e Bonino. Perde l’Italia delle rivendicazioni intellettualistiche di diritti inesistenti (come quello all’aborto o al matrimonio omosessuale, o alla liberalizzazione della droga, ecc), e vince l’Italia della Lega grossolana, identitaria ma, soprattutto, di destra: poco ideologismo, governo anche duro, attenzione ai problemi, ecc. Cioè vince Bossi che fa, per una sola parte del territorio nazionale e in modo pacchiano, quello che avrebbe dovuto fare Gianfranco Fini per l’Italia intera. Fini, un altro sconfitto.


Pubblicato su www.cataniapolitica.it del 21 marzo 2010.

1 aprile 2010

RIFORMA DELLO STATO “ALL’AMATRICIANA”

di Antonio G. Pesce- Parliamoci chiaro: nessuno di noi comprerebbe una macchina usata dall’attuale classe politica italiana. Magari siamo pronti a litigare col vicino di casa o con l’amico fraterno per la difesa ad oltranza del partito per cui abbiamo votato, ma quando si tratta di concreti “atti di fede”, sappiamo su cui contare. E non contiamo affatto sul nostro deputato (ammesso che se ne possa avere uno di riferimento con l’attuale legge elettorale).

Compreremmo allora una casa? il tetto sotto cui mettere non tanto la nostra testa ma quella dei nostri figli? D’accordo, in Italia le famiglie si disinteressano del tutto di quello al riparo del quale studiano i pargoli, ma è perché sono indifferenti allo studio, non al pericolo.

Andiamo al sodo e fuor di metafora. Dovremmo temere la volontà riformatrice di taluni personaggi politici. Perché è provato che non hanno saputo riformare i loro stessi partiti, né pare tanto più degno della civiltà il loro linguaggio. Dunque, d’un tratto diventano affidabili per far cambiare loro lo Stato?

Pensiamo al federalismo. È passato indolore – soprattutto al Nord – perché la Lega ha saputo vendere il prodotto meglio che Wanna Marchi le sue porzioni saline. Ma ricordiamo l’esordio. Ricordiamo il ministro Speroni che, riprendendo le pur interessanti idee federaliste del prof. Miglio, nel creare le macroregioni accoppiò Campania e Calabria. Scordandosi che, nel mezzo, ci starebbe la Basilicata. La sinistra ci fece sopra quattro sfottò – perché altro non sa fare – e tutto il resto d’Italia rise allegramente. Però il federalismo, alla fine, lo abbiamo fatto, ma ancora non entra in regime perché, forse, ci potrebbe pesare meno questo pachidermico stato centralista, con tutte le sue disfunzioni, che non il giocattolo leghista con i suoi innumerevoli centri di spesa. Gli enti locali già ci stanno costando un pozzo di soldi, che in Italia ha un fondo scarsamente profondo. Mentre corre verso gli abissi quello delle clientele e annessa corruzione.

Ora, il presidente del consiglio vuole cambiare il ruolo dell’amministratore del condominio. O il presidenzialismo o un non meglio specificato premierato: insomma, se non più potere, quanto meno più visibilità per il manovratore. Il primo no gli è arrivato da Fini. Vuoi perché il no, in quel rapporto, è di ordinanza ormai, o vuoi perché, mentre lui non sa più parlare all’elettorato sinceramente di destra, il “moderato” Berlusconi rispolvera una vecchia linea missina. Il fatto è che la posizione assunta da Fini appare troppo scontata per poter innescare una massiccia fronda. Se ne continuerà a parlare, comunque, anche perché non è facile ricordare un tema sollevato dal Cavaliere che non abbia, poi, galoppato intere settimane sopra qualsiasi altro, fosse il dramma della disoccupazione o della recessione.

Siamo un paese di appena sessanta milioni di cittadini. Unito da una storia che non si limita ad affondare le proprie radici ad appena centocinquanta anni fa; da una lingua millenaria; grosso modo dal medesimo culto. Il tutto, racchiuso in appena milletrecento chilometri di lunghezza – avessimo speso per oliare i collegamenti, che non le correnti di partito, a quest’ora potremmo andare da Bolzano a Reggio in appena sei ore. E, anche se senza Ponte, attraverseremmo lo Stretto con traghetti un po’ più giovani dei nostri attempati genitori.

Questi, in soldoni, i nostri punti di forza. E siamo riusciti a trasformarli in punti deboli. Il nostro federalismo è l’esempio più lampante del nostro bieco campanilismo: qui, la secessione non si fermerebbe a Roma per spartire l’Italia, ma nello spiazzo antistante casa nostra per dividere il nostro palazzo da quello vicino. Ci dividiamo allo stadio, quando un derby diventa un momento importante nella storia delle recriminazioni localistiche: dietro ogni goal una provincia mancata, uno smacco subito. Ci dividiamo in parrocchia, quando i devoti di San Pietro gareggiano con quelli di San Paolo per chi ha i botti più forti. E se ancora non se li sparano addosso, è perché a Roma c’è un Papa.

Ci vuole poco ad essere federalisti – lo siamo tutti, in uno Stato che non funziona. Ma non funziona la forma dell’organizzazione statale, o la cultura morale che la regge? Gli Italiani federalisti sarebbe più eticamente civili di quelli centralisti?

Ci vuole poco ad essere presidenzialisti – lo siamo tutti, in uno Stato che non cammina. Ma sapremo poi fermarci al momento giusto? Sapremo poi incamminarci con chi, legittimamente, è stato scelto per fare da battistrada? Suvvia! Berlusconi – e faccio solo un esempio: vogliamo pensare a Prodi? – non saprà governare, ma c’è chi in Italia lo ha paragonato a Pinochet, a Salazar, ad Hitler. Siamo un popolo in cui ciascuno è allergico al potere che non sia il proprio. I francesi, i tedeschi e gli statunitensi sono ben altra cosa: sentono di dover vivere il loro comune destino sotto l’egida dello Stato. Da noi, invece, sino alla presidenza Ciampi era definito fascista chi, semplicemente, cantava l’inno nazionale con la bandiera in mano. Da dove sarebbe spuntato tutto questo amor di patria? Da dove è sbucato questo senso dello Stato, che non solo vogliamo più ramificato ma pure più compatto e deciso?

Non servono ricette nuove ma buone ricette. Il meschino provincialismo di cui siamo vittime ci fa dimenticare che il meglio d’Italia è prodotto fatto in casa. Non abbiamo bisogno del federalismo, ma di un reale e rigoroso controllo dei centri di spesa. Non abbiamo bisogno del presidenzialismo, ma di una struttura decisionale più snella, magari superando il bicameralismo perfetto.

Abbiamo soprattutto bisogno di una nuova etica civile. Senza la quale sperpero clientelare e accidia amministrativa, uscite ufficialmente dalla porta, torneranno ben più tremendi ad infiltrarsi dalla finestra.


Pubblicato su www.cataniapolitica.it del 27 marzo 2010.