"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

1 aprile 2010

RIFORMA DELLO STATO “ALL’AMATRICIANA”

di Antonio G. Pesce- Parliamoci chiaro: nessuno di noi comprerebbe una macchina usata dall’attuale classe politica italiana. Magari siamo pronti a litigare col vicino di casa o con l’amico fraterno per la difesa ad oltranza del partito per cui abbiamo votato, ma quando si tratta di concreti “atti di fede”, sappiamo su cui contare. E non contiamo affatto sul nostro deputato (ammesso che se ne possa avere uno di riferimento con l’attuale legge elettorale).

Compreremmo allora una casa? il tetto sotto cui mettere non tanto la nostra testa ma quella dei nostri figli? D’accordo, in Italia le famiglie si disinteressano del tutto di quello al riparo del quale studiano i pargoli, ma è perché sono indifferenti allo studio, non al pericolo.

Andiamo al sodo e fuor di metafora. Dovremmo temere la volontà riformatrice di taluni personaggi politici. Perché è provato che non hanno saputo riformare i loro stessi partiti, né pare tanto più degno della civiltà il loro linguaggio. Dunque, d’un tratto diventano affidabili per far cambiare loro lo Stato?

Pensiamo al federalismo. È passato indolore – soprattutto al Nord – perché la Lega ha saputo vendere il prodotto meglio che Wanna Marchi le sue porzioni saline. Ma ricordiamo l’esordio. Ricordiamo il ministro Speroni che, riprendendo le pur interessanti idee federaliste del prof. Miglio, nel creare le macroregioni accoppiò Campania e Calabria. Scordandosi che, nel mezzo, ci starebbe la Basilicata. La sinistra ci fece sopra quattro sfottò – perché altro non sa fare – e tutto il resto d’Italia rise allegramente. Però il federalismo, alla fine, lo abbiamo fatto, ma ancora non entra in regime perché, forse, ci potrebbe pesare meno questo pachidermico stato centralista, con tutte le sue disfunzioni, che non il giocattolo leghista con i suoi innumerevoli centri di spesa. Gli enti locali già ci stanno costando un pozzo di soldi, che in Italia ha un fondo scarsamente profondo. Mentre corre verso gli abissi quello delle clientele e annessa corruzione.

Ora, il presidente del consiglio vuole cambiare il ruolo dell’amministratore del condominio. O il presidenzialismo o un non meglio specificato premierato: insomma, se non più potere, quanto meno più visibilità per il manovratore. Il primo no gli è arrivato da Fini. Vuoi perché il no, in quel rapporto, è di ordinanza ormai, o vuoi perché, mentre lui non sa più parlare all’elettorato sinceramente di destra, il “moderato” Berlusconi rispolvera una vecchia linea missina. Il fatto è che la posizione assunta da Fini appare troppo scontata per poter innescare una massiccia fronda. Se ne continuerà a parlare, comunque, anche perché non è facile ricordare un tema sollevato dal Cavaliere che non abbia, poi, galoppato intere settimane sopra qualsiasi altro, fosse il dramma della disoccupazione o della recessione.

Siamo un paese di appena sessanta milioni di cittadini. Unito da una storia che non si limita ad affondare le proprie radici ad appena centocinquanta anni fa; da una lingua millenaria; grosso modo dal medesimo culto. Il tutto, racchiuso in appena milletrecento chilometri di lunghezza – avessimo speso per oliare i collegamenti, che non le correnti di partito, a quest’ora potremmo andare da Bolzano a Reggio in appena sei ore. E, anche se senza Ponte, attraverseremmo lo Stretto con traghetti un po’ più giovani dei nostri attempati genitori.

Questi, in soldoni, i nostri punti di forza. E siamo riusciti a trasformarli in punti deboli. Il nostro federalismo è l’esempio più lampante del nostro bieco campanilismo: qui, la secessione non si fermerebbe a Roma per spartire l’Italia, ma nello spiazzo antistante casa nostra per dividere il nostro palazzo da quello vicino. Ci dividiamo allo stadio, quando un derby diventa un momento importante nella storia delle recriminazioni localistiche: dietro ogni goal una provincia mancata, uno smacco subito. Ci dividiamo in parrocchia, quando i devoti di San Pietro gareggiano con quelli di San Paolo per chi ha i botti più forti. E se ancora non se li sparano addosso, è perché a Roma c’è un Papa.

Ci vuole poco ad essere federalisti – lo siamo tutti, in uno Stato che non funziona. Ma non funziona la forma dell’organizzazione statale, o la cultura morale che la regge? Gli Italiani federalisti sarebbe più eticamente civili di quelli centralisti?

Ci vuole poco ad essere presidenzialisti – lo siamo tutti, in uno Stato che non cammina. Ma sapremo poi fermarci al momento giusto? Sapremo poi incamminarci con chi, legittimamente, è stato scelto per fare da battistrada? Suvvia! Berlusconi – e faccio solo un esempio: vogliamo pensare a Prodi? – non saprà governare, ma c’è chi in Italia lo ha paragonato a Pinochet, a Salazar, ad Hitler. Siamo un popolo in cui ciascuno è allergico al potere che non sia il proprio. I francesi, i tedeschi e gli statunitensi sono ben altra cosa: sentono di dover vivere il loro comune destino sotto l’egida dello Stato. Da noi, invece, sino alla presidenza Ciampi era definito fascista chi, semplicemente, cantava l’inno nazionale con la bandiera in mano. Da dove sarebbe spuntato tutto questo amor di patria? Da dove è sbucato questo senso dello Stato, che non solo vogliamo più ramificato ma pure più compatto e deciso?

Non servono ricette nuove ma buone ricette. Il meschino provincialismo di cui siamo vittime ci fa dimenticare che il meglio d’Italia è prodotto fatto in casa. Non abbiamo bisogno del federalismo, ma di un reale e rigoroso controllo dei centri di spesa. Non abbiamo bisogno del presidenzialismo, ma di una struttura decisionale più snella, magari superando il bicameralismo perfetto.

Abbiamo soprattutto bisogno di una nuova etica civile. Senza la quale sperpero clientelare e accidia amministrativa, uscite ufficialmente dalla porta, torneranno ben più tremendi ad infiltrarsi dalla finestra.


Pubblicato su www.cataniapolitica.it del 27 marzo 2010.

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