"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

26 marzo 2010

NON TUTTE LE PIAZZE SONO UGUALI

di Antonio G. Pesce- Con la manifestazione del Pdl di sabato 20 si è conclusa una stagione. Forse un’epoca, un intero secolo. Siamo arrivati alla fine di un percorso, senza che ce ne fossimo accorti. Chi scrive queste righe è la stessa persona che, con sincerità d’affetti, invitava a non scendere in piazza, a non dividere ancora gli italiani. Ed è la prima a dover recitare il mea culpa di hegeliana memoria: dare un senso, una ragione, una spiegazione alla Storia che ha marciato con passo assai più spedito delle elucubrazioni filosofiche e sociologiche. Un’intera classe di cittadini che vive a spese di un popolo, con la scusante di doverlo amministrare, dovrebbe temere però, e correre ai ripari. Sempre che la falla che si è aperta sia ancora richiudibile. Non è detto.

Certo, l’opposizione di piazza ha di che essere soddisfatta. Loro saranno stati quattro gatti. Ma non è stata una carica di dalmata quella della maggioranza. Finito il miracolo italiano dei milioni di posti di lavoro, e appannato quello della ricostruzione abruzzese – ne vogliamo parlare, però, dei cambiamenti mitologici nella comunicazione politica del Pdl? Davvero non deve indurre a riflettere che il lavoro è stato sostituito dal terremoto? – non restava che quello del consenso. Ora, centocinquantamila persone, anche se vi togliamo quelli “in affitto” pagati per sventolare bandiere, sono comunque una cospicua folla. Ma Denis Verdini, coordinatore nazionale, deve aver tentato un ultimo, disperato atto di autoconvincimento per riempire, dai microfoni del palco, di un milioni di manifestanti una piazza sostanzialmente vuota. È il primo che salterà, anche perché tra i più implicati negli scandali circa gli appalti pubblici.

Inoltre, Berlusconi non ha moltiplicato né pani né pesci – nonostante abbia promesso di sconfiggere il cancro-, e ha sfamato la scarsa folla dei suoi adepti con una minestrina riscaldata. Non tutti questi venti anni di politica sono stati contrassegnati da un suo governo, ma dieci anni bastano ai francesi, ai tedeschi, agli inglesi e agli statunitensi per decretare la fine di un’esperienza politica. Qui, a sentire il presidente del consiglio, si sta iniziando ora. Perché si sono risentiti i toni del 1994, si è tornati a parlare di ‹‹rivoluzione liberale›› e perfino di profonde riforme istituzionali. Ma allora negli ultimi dieci anni che si è fatto? E se non sono bastati dieci anni, perché illudersi che ne basteranno solo altri tre? ‹‹Congiunture internazionali hanno impedito un sereno svolgimento del programma››. Ma se non si cambia quando tutte le carte, nazionali e internazionali, si rimescolano – si devono rimescolare, quando sarebbe opportuno farlo allora? E De Gasperi, del quale si è preteso di essere migliore, ha governato questa nazionale in un’epoca più facile dell’attuale? E i grandi statisti si vedono nell’ordinaria amministrazione o nella straordinaria? E la politica è la pianificazione a tavolino della vita o la capacità di affrontare a muso duro la Storia?

Pensavamo essere saliti su un carrozza. Ci siamo sbagliati: è un calesse. Come tanti, per carità. Come tutti, forse. Ma nulla di eccezionale. E dunque nulla per cui valga la pena combattere, scendere in piazza, andare allo scontro istituzionale.

Tuttavia, a guadare così le cose, nella loro particolarità, c’è chi si illude che stia crollando solo il sistema di potere berlusconiano. C’è chi si sfrega le mani, preparandosi a sostituirlo. Morto Sansone, i filistei credono di farla franca. Eppure le cose sono assai più complesse. Bene o male che sia, un modo di fare politica, di intendere la politica è andato al macero. Neppure la “liquidità” nell’intendere il partito si mostra adeguata all’attuale condizione della società. Per gli Stati Uniti non sarà una novità, ma per l’Europa lo è. Come abbiamo inteso, noi europei, la politica? È stata intesa come una continua identificazione – identificazione di Patria e Nazione, e la Nazione identificata con lo Stato; lo Stato, poi, lo abbiamo inteso identificabile con la formazione e l’azione dei partiti. Il partito, così come lo intendiamo in Europa, è un ideale strutturato secondo dinamiche gerarchiche e secondo prassi consolidate. Nascono movimenti, e alla fine la cordata diventa una segreteria, con annessi e connessi domini di forze e di correnti.

Questo modo di intendere la politica è venuto meno. Il partito non è più, insieme alla piazza e all’oratorio, una forma di socializzazione, di interazione culturale. Il partito è la cristallizzazione dei rapporti di forza tra due o più tentativi di dominio. Che, data la scarsità della contropartita dell’impegno profuso da ciascun militante – non più la conquista dell’avvenire, ma un posto, una raccomandazione, un appalto nel più prosaico presente, incomincia a lasciare fuori sempre più ampi brani del tessuto sociale.

Mentre la politica dei partiti concludeva la sua settimana di contrapposizione, la politica della nazione – quella del comun sentire – si riuniva sotto le bandiere di “Libera”, l’associazione di don Ciotti contro tutte le mafie. Gente lontana dalle piazzate, ma vicina all’ agorà, alla piazza nel suo senso più nobile – al foro, all’impegno. Una società civile – diremmo- che si fa nazione perché sente all’unisono la propria partecipazione a un tessuto ideale -fatto di valori, di credenze, di strutture culturali – che né i partiti, né tanto meno le intellighenzie giornalistiche, riescono più a conciare.

E allora, noi che temevamo chi sa che cosa da questa settimana – anche noi dobbiamo ricrederci: l’Italia non si è divisa. Si è soltanto ritrovata sotto un’altra bandiera.


Pubblicato su www.cataniapolitica.it il 21 marzo 2010.

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