"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

17 giugno 2007

14 giugno 2007

LA SCIENZA, IL LAVORO SCIENTIFICO E LA WELTASHAUUNG

Testo di un intervento ad una conferenza sull’evoluzionismo. La scienza può sostituire tutte le altre forme di approccio al reale? Può essere la sola nostra “visione del mondo”?


I. Mi pare opportuno iniziare il mio veloce intervento non già entrando nello specifico del tema di questa sera, che sarà trattato dal nostro illustro ospite con la sagacia e la competenze che gli sono proprie, e delle quali egli ha già dato più volte saggio, bensì toccando alcuni punti dell’attuale visione che l’uomo occidentale ha delle scienze naturali. Ed è tanto più impellente ridimensionare il ruolo che queste scienze – che, ricordiamolo, sono solo alcuni aspetti dei molteplici mostrati dalla conoscenza umana nel suo sviluppo storico – hanno assunto nella formazione della nostra civiltà, almeno nell’ultimo mezzo millennio, e nell’organizzazione delle nostre società, quanto più urgenti si fanno gli interrogativi etici che il loro sviluppo si porta dietro. Sarebbe scontato e, per giunta, inopportuno, visto il tema di questa sera, riallarciarci ai fatti ultimi di cronaca, se non fosse che ci è necessario soltanto accennarli al fine di evidenziare come, sempre più spesso, in nome di un individualismo radicale e di una fiducia smodata nelle scienze fisiche, pensiamo di poter fare a meno di un’attenta analisi di quale pericolo per l’intera polis – per la comunità tutta - si celi dietro anche i più personali e dolorosi casi dei quali i giornali .


II. Se gli uomini di ieri avevano come vitello d’oro da adorare il grande Levitano, lo stato onnipresente e onnisciente, propinatore di visioni totalizzanti della realtà e manicheistiche del vivere, per cui il bene era tutto condensato in una dottrina e il male nelle restanti, l’uomo di oggi, venuta meno la cieca fede nelle utopie del soggetto, crede di trovare refrigerio rifugiandosi nell’utopia dell’oggetto, nelle scienze fisiche che, proprio per la loro presunta “oggettività”, sono reputate le uniche capaci di superare la frammentarietà dell’individualismo, così comodo quando giustifica la nostra condotta ed esige il rispetto della nostra visione, ma ritenuto insufficiente quando, infine, i nodi giungono al pettine, e i tanti monologhi messi insieme non riescono a fare anche una sola discussione, a scapito, s’intende, del monologo stesso.

III. “Dio è morto” dicono, e pure la fiducia che la ragione umana possa rintracciare il filo del senso di questa comune esperienza che è la vita non gode di buona salute, offesa come è da un scetticismo di maniera a cui sono perdonate le illogicità rimproverate, invece, ad una concezione forte del pensiero. Che fuori dall’ambito delle scienze materiali si crede non ci sia che dubbio, se non addirittura errore, è pure dimostrato dall’accoglimento riservato al discorso che Sua Santità Benedetto XVI ha tenuto all’università di Ratisbona, dove sotto accusa era messo non già l’Islàm, bensì l’uso, anzi il fine che l’Occidente ha riservato alla ragione nel suo senso più ampio, più completo e, certamente, più genuino. Qualche esagitato e un paio di pennivendoli, male che pare comune ad Occidente e Oriente, hanno sollevato i guru del pensiero dal rispondere agli interrogativi che, ormai, un’intera civiltà si pone.

IV. Tuttavia, al problema più generale posto dal Papa – l’uso della ragione come mezzo di interazione tra soggetti di fede e cultura diversi – aggiungerei un problema più specifico e più direttamente pertinente al tema di questa sera: può la scienza, restando genuinamente se stessa, darci quell’oggettività alla quale, almeno apparentemente, l’umanità intera aspira? Questo mi pare il punto cruciale: la scienza può o no sostituirsi alla religione, alla filosofia e ad altre forme spirituali, nella formazione della nostra visione del mondo e della vita? O meglio, dato che di fatto la sostituzione ha avuto luogo, ne ha anche legittimità?


V. La scienza è artefice di credenze perché si nutre di credenze. Alla parola “credenza” non do un particolare senso epistemologico o teologico, ma vorrei indicare qualcosa della cui esistenza, e del come di questa esistenza, si possono addurre buone ragioni. Ma buone ragioni sono indizi, tuttalpiù prove, ma non potranno mai essere la verità. Per spiegare meglio, è bene entrare nel merito del lavoro scientifico.
Come lavora uno scienziato? Innanzi tutto, egli non si occupa di tutto quello che esiste: la presunta oggettività va conquistata a scapito della completezza. Egli, all’inizio della propria avventura conoscitiva, ha un problema, eredità di qualcheduno che lo ha preceduto, o nato da altri problemi già risolti. Questo non è uno sguardo, che egli getta sull’essere, ma riesce semplicemente a cogliere uno scorcio. Tanto gli basta, né mira ad avere di più. Ha sotto le mani quel determinato problema, e tanto già basterebbe per indicare che quell’oggettività, intesa come verità universalmente valida, non può mirare ad essere esaustiva.
Ora, chi è pronto ad accettare – forse perché entrando in un ospedale avrà avuto modo di vedere le molteplici branche in cui è divisa la sola scienza medica – che le scienze naturali non possono essere in sé esaustive, non sempre lo è altrettanto ad ammettere che la completezza della verità in un futuro che ha sempre da venire è solo una chimera, un retaggio positivista ormai largamente smentito dalla prassi scientifica. Mezzo millennio di ricerche non ci hanno portati che soltanto alle soglie dell’infinitivamente piccolo e dell’infinitivamente grande, e ancor più lontani siamo dal trovare le regole, le norme, i legami, la profonda razionalità che impernia della sua armonia ogni cosa che esiste. Ma quando si giunge alla risoluzione di un problema, si sono gettati i semi per altri di più nuovi: lo scienziato ha buone ragioni per credere di aver posto rimedio alla situazione iniziale, fermo restando il fatto che altre se ne sono generate frattanto, e che perfino quanto è stato, con duro lavoro, apparentemente stabilizzato, potrebbe nel proseguo del cammino essere rimesso in discussione.

VI. Risolvere un problema non è incontrare la verità. E poi, che vuol dire risolvere un problema? Vuol dire giustapporre i pezzi di un puzzle. Quando facciamo un puzzle, ci troviamo a maneggiare due cose: i pezzi, da un lato, e qualcosa di meno materiale, come l’immagine che essi dovranno andare a creare. Miriamo a metterli in armonia tra loro, godendo del vantaggio di avere già, sulla scatola della confezione, la figura che dovremmo comporre. Nella scienza non c’è dato neppure questo minimo vantaggio. Siamo dei sarti, quando facciamo scienza, che cuciono abiti sempre più precisi, ma mai perfetti. Non andiamo proprio a zonzo: sarebbe ridicolo affermarlo, la nostra intenzione non è già quella di distruggere la forza della ragione, ma di calmierare il prezzo delle scienze naturali. Abbiamo, invece, delle buone ragioni per andare in un verso piuttosto che per un altro: una teoria è questo, un verso, scelto non a caso fra altri, ma dopo una cernita il più attenta possibile. Imbocchiamo una strada, ma non sapremo mai con assoluta certezza se essa sia quella giusta, se dopo qualche passo dovremo tornare indietro, o se semplicemente stiamo allungando il cammino.

VII. Inoltre, una teoria ha sempre un rapporto osmotico con i dati che la dovrebbero corroborare. Per intenderci, la teoria armonizza i dati e questi la giustificano. È un circolo, dal quale non si esce. Ora, senza dilungarmi sul che cosa sia un dato, affrontiamo direttamente il problema susseguente: come viene raccolto un dato? E inoltre: come viene armonizzato con gli altri? Infine: come corrobora la teoria di cui è, a un tempo, figlio e padre?
Per il dato si ripete quanto precedentemente detto circa la teoria: non ci sono segnali direzionali, la strada non è segnata, non ci sono manuali d’uso prestampati su come adoperare un dato. Facendo leva sul proprio patrimonio intellettivo, le sua capacità razionali e non solo le sue competenze culturali, e su quando appreso dalla comunità scientifica – molti dei dati su cui si costruiscono le teorie scientifiche sono di seconda, terzo o, addirittura, quarta mano – lo scienziato interpreterà, il più veridicamente possibile (ne siamo certi), il materiale che ha a sua disposizione, e tornerà al senso intero della teoria magari per riformularla meglio, o anche solo per vedere cosa può essere giustificato e cosa no.

VIII. Così va il lavoro scientifico, e mi auguro nessuno pensi che io abbia voluto screditarlo: semmai, credo sia più simpatico il giovane ricercatore animato di sano entusiasmo, che tenta di carpire al mistero le sue credenziali, piuttosto che il vecchio cattedratico, oggi ritornato di moda sugli scanni dell’accademia, così tronfio e pieno di sé e delle proprie congetture, da lamentare l’esistenza delle certezze della fede, mentre tenta di insediare loro il calcagno per giungere a un status al quale, per propria scelta, non potrebbe ambire.
La scienza, dunque, è fatta di buone ragioni. Di buone ragioni partorite da uomini, in determinato momento dello sviluppo scientifico, con determinati mezzi e conoscenze. Di uomini che hanno anche un loro vissuto, una esperienza di vita, certi credi ed idee. Tutto questo non è una zavorra a mio avviso, anzi. Credo che le scienze naturali si sono screditate, invece, proprio quando hanno cominciato a dare di sé un’immagine stereotipata di rigidità, assolutezza e infallibilità.
Lo scienziato dà per scontate alcune cose, per probabili altre, e solo momentaneamente per assodate altre ancora. Le credenze su cui si poggia, in ultima analisi, il lavoro scientifico, a loro volta alimentano le nostre. La scienza parte dal senso comune del reale, per poi ritornare a noi dandoci un’immagine della realtà assolutamente diversa. In questo contribuisce, ormai in larga parte, a creare le nostre credenze circa il mondo. È stato frainteso per molto tempo Heidegger, proprio perché non si è inteso fino in fondo in che senso egli negasse la neutralità alla tecnica. Non si tratta di affermare che l’energia nucleare possa essere utilizzata solo per distruggere, e non già anche per costruire. Ovvio è che non è lo strumento portatore di un valore, bensì chi lo usa. Ma il senso dell’affermazione heideggeriana, a mio avviso, è di ben altro spessore. La tecnica muta l’orizzonte in cui si muove: uno strumento, quale che sia l’uso che se ne faccia, una volta adoperato, lascia il mondo diverso da come lo aveva incontrato. Nel bene come nel male, nulla sarà come prima. Rimane da chiedersi: anche se non viene utilizzato? Credo di dover rispondere affermativamente, giacché anche la sola potenzialità del mutamento offertoci, se non cambia materialmente il reale, di certo ci permette di vederlo ormai sotto la categoria di questa nuova potenzialità. Dunque ne muta la forma: al suo essere si aggiunge un poter-essere che, prima, non era nel nostro sguardo. La scienza è sempre tecnica: è un fare sul mondo, che può anche lasciare il mondo nella sua struttura materiale immutato, ma del quale altera, definitivamente, la struttura logica.

IX. Urta contro le nostre più radicate intuizioni morali pensare che la teoria darwiniana sia stata della medesima portata della bomba atomica sganciata su Hiroshima, e per molti versi abbiamo anche ragione a rabbrividire davanti a tale paragone: non bisogna mai sottovalutare il mondo fatto di piccoli e radicati equilibri morali e psicologici, anche perché, il più delle volte, coloro che si scandalizzano davanti a talune affermazioni, sono anche i più umili che valutano un nulla quanto viene spacciato per ultimo ritrovato della scienza. Magari non ingaggeranno una guerra dialettica contro i portatori del nuovo paradigma, ma per loro non muta l’orizzonte del mondo in cui si muovono. Dunque, la malattia come la cura appaiono fuori dalla loro portata.
Quanti, però, abbracciano talune credenze scientifiche, rimanendo scandalizzati quando altri le mettano in dubbio, o ne perorano solamente, magari forzando i toni e i paragoni, la ri-discussione alla luce di nuove prove, quando si chiede, cioè, di non dichiarare chiusa la partita dell’indagine scientifica, si interroghino se sia stato più disastrosa la degradazioni ad animali di alcuni sparuti uomini per la loro insana e barbara decisione, che non quella dell’umanità intera ad opera di una teoria che, ancora oggi, cerca disperatamente una più efficiente corroborazione.
Vi ringrazio per avermi offerto la vostra attenzione.

13 giugno 2007

L'ERMENEUTICA STORIOGRAFICA DI BENEDETTO CROCE

Il testo seguente, assai esteso, e dunque probabilmente poco idoneo al presente contesto, è stato scritto in occasione di un corso di storiografia contemporanea della Scuola Interuniversitaria Siciliana di Specializzazione per l'Insegnamento Secondario (S.I.S.S.I.S.).
Non ho rivisto il testo, neppure per quanto riguarda la formattazione elettronica. Tuttavia, spero possa interessare qualcuno e di riceverne commenti.


Non v’è miglior saggio della giustezza dell’intuizione crociata circa l’interesse che rende viva e permette la ricerca storiografica, che comparare moventi spirituali e movimenti storici dei popoli europei, in un stretto rapporto già indicato dal filosofo abruzzese tra filosofia e filologia. Ci si accorgerebbe, allora, che se l’indagine sulla storia e la sua metodologia sono state sempre presenti in Occidente – tenendo comunque in debito conto le diversità categoriali tra il monto antico e la modernitas sancita dall’avvento del cristianesimo, tuttavia mai è stata così presente come nell’evo moderno, quando venuta meno la Weltanshaung onnicomprensiva della quale era intrisa l’architettura scientifica e politica degli evi passati, vi è stata in ogni popolo la riscoperta delle proprie radici. Perché il passato, anche se inesistente senza un presente e, come Croce mette bene in evidenza, soggetto vacuo senza il predicato della contemporaneità, cioè il bisogno pratico di “luce”, è fonte di legittimità del futuro: quel futuro che i grandi imperi del Settecento, quali Inghilterra e Francia, vedevano proprio con quella sicumera che solo i vincitori, immemori dei repentini capovolgimenti della fortuna, ostentano con così poco tatto.
Per Germania e Italia il discorso è assai più complesso. Innanzi tutto, l’illuminismo tedesco era stato ben altra cosa che quello francese, e basti a tal proposito leggere le considerazioni di Kant per rendersene conto. Non solo, ma il richiamo al passato– la tanta letteratura gotica che in epoca romantica germogliò ne è una testimonianza lampante – non aveva il sapore di un’impresa manieristica, bensì il tentativo di riappropriarsi di un mistico luogo della memoria, nel quale aveva preso lentamente corpo nei secoli lo Spirito tedesco, che si rivelerà importante come collante prima, durante e dopo l’unificazione.
Certo che le Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte di Hegel possono essere considerate – perché di fatti lo sono pure – il coronamento del sistema filosofico di un genio, a cui mancava la ciliegina sulla torta per suggellare la sua produzione filosofica, dandole un senso e una portata universale. Ma non sono solo questo. Deve pur esserci qualche altra spiegazione, oltre alle capacità e alle aspirazioni personali di ciascheduno, se Hegel non è il solo a vedere nel germanismo un fattore capitale nello sviluppo della kultur, e in quegli anni di primo Ottocento i richiami alla missione della nazione tedesca sono pressoché generali. Come i greci d’Ellade duemila anni prima, i tedeschi sono alla ricerca della loro koiné, e dove trovarla se non nel fatto di essere stati lì, in quella terra, come gruppo unito da vincoli di sangue (poi, a volte, si semplifica il passato per meglio piegarlo ai desideri del presente) ? Ma proprio per questo è necessario interrogarsi sulla storia. E non è, ancora, affatto casuale, che prima si faccia, mossi da vere esigenze ideologiche, della filosofia della storia, e poi, infine, quando la memoria si è ritrovata e il popolo si è cementato attorno ad entità politiche e spirituale più vicini nel tempo, quella disciplina che prima era fuoco vivente nel petto, diventi materia di sereno studio e di placata meditazione circa i suoi fini, il suo oggetto, la sua vera essenza. E il Droysen che prende posizione contro la concezione della storiografia come arte, vuole in realtà esorcizzare taluni spettri a lui non molto lontani.
Fatte le dovute distinzioni, il problema storiografico aveva toccato per motivi simili l’altrettanto frastagliato suolo italiano, e quando nel 1893 Croce diede fuori quella sua famosa memoria La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte, il clima era stato in parte riscaldato da uno scritto di Pasquale Villari, il quale sosteneva appunto la scientificità della storiografia, e si opponeva ad ogni accostamento all’arte. Croce, che in un primo momento ne aveva perorato la causa, prima che il testo andasse in stampa, lo mutò completamente, tanto da ribaltarne le conclusioni. Si trattò di un repentino, quando inaspettato, cambio di marcia[i], che pose al centro dell’attenzione europea, nuovamente, la questione della storia, e dall’altro lato risolse nel modo meno confacente allo spirito positivista che imperniava l’Italia.
La storia – scrisse nella Memoria – ha un solo scopo: narrare i fatti[ii] ”, ma proprio questa affermazione:

riapriva una questione che il dibattito ottocentesco aveva accantonato come priva di rilevanza teoretica e, anzi, come assolutamente deviante dalla direzione della ricerca della natura della conoscenza storica[iii].

Croce, che proprio nelle citazioni alla memoria mostra di conoscere bene il clima culturale tedesco in merito, non poteva ignorare che, innanzi tutto, questa sua concezione della storiografia contrastava con quella di Hegel, come ci appare, tra l’altro, nelle Lezioni sulla filosofia della storia[iv]. Qui Hegel passa “in rassegna le altre maniere [oltre quella filosofica] di trattare la storia”, distinguendone tre, e precisamente la narrazione originale, la materia di riflessione e la storia filosofica[v].
A proposito della prima, cioè quella storiografia forse più simile alla narrazione dei fatti di matrice crociana, Hegel rubrica i suoi illustri maestri – Erodoto, Tucidide, Guicciardini – e nota che:

essi descrivevano principalmente i fatti, gli avvenimenti e le circostanze dei quali erano stati testimoni, ai quali appartenevano per mentalità, e così trasferivano nel regno della rappresentazione spirituale quanto era accaduto nel mondo esterno. Il fenomeno esteriore viene così tradotto in una rappresentazione interiore
[vi].

Essi, dunque, non riflettono sulla storia, ma la rappresentano. Fanno “entrare in scena” persone e popoli, e pure questo ha il suo peso: anche quando Pericle non avesse davvero pronunciato il discorso che Tucidide gli attribuisce, quelle parole non dovevano essergli aliene per cultura e comune sentire.

Certo – continua Hegel – udiamo spesso dire che si è trattato soltanto di un discorso e così volerne quasi dimostrare l’innocenza. Discorsi di tal fatta sono pura e semplice chiacchiera e la chiacchiera ha l’unico vantaggio di essere innocente. Ma discorsi tenuti da un popolo a un altro, o diretti a popoli e a principi, sono parti costitutive della storia[vii]

Tuttavia, nonostante una certa nobiltà d’intenti, questo è il primo modo di fare storia, e se non è storia riflessiva, ma rappresentativa – diciamola così – per poco che si possa conoscere il sistema hegeliano, non ci vuole molto a farsi un’idea di quale considerazione la investa. “la filosofia della storia non significa altro che la considerazione pensante della storia”, perché siamo uomini, ci distinguiamo dalle bestie proprio perché esseri pensanti, e proprio perché esseri pensanti investiamo ogni cosa col nostro pensiero. Ma a questo metodo, così connaturato al nostro essere, viene rimproverato di alterare i rapporti con la storia:

Così, sentiamo dire, quando la filosofia si accosta alla storia con pensieri suoi propri, è per trattarla alla stregua di un materiale, per non lasciarla così com’è, bensì per darle un indirizzo secondo il pensiero, ossia, come suol dirsi, per costituirla a priori. Ne viene che il compito della filosofia sembra in contraddizione con l’attività della storia: questa ha solo da comprendere ciò che è e ciò che è stato, gli avvenimenti e i fatti, e la storia tanto più è vera quanto più è capace di attenersi ai dati[viii].

Hegel sente di dover “confutare questa contraddizione e il rimprovero che ne nasce contro la speculazione” e, dopo aver scritto le più belle parole che si possano mai leggere come elogio della ragione umana, chiarisce che il suo proposito non è già quello di non tenere in debito conto il “materiale storico”, ma che parole come “fedelmente” e “comprendere” sono ambigue. L’uomo può capire il mondo, intriso di ragione, solo col simile della ragione; questa corrispondenza è la chiave di ogni vera comprensione. Non è che non esistano i fatti bruti, ma sono appunto bruti, ci direbbe Hegel. Il problema è che, senza razionalità, essi non parlerebbero. Il fatto senza la ragione è un suono senza l’orecchio: esistente ma non significante.
Hegel, se mai fosse necessario, è più esplicito ritornando sull’argomento:

Anche lo storico comune e mediocre, il quale presume e pretende di comportarsi in maniera solo ricettiva, di affidarsi ai dati, non rimane passivo con il suo pensiero, bensì porta con sé le sue categorie e guarda al mondo esistente attraverso queste ultime. Specialmente in tutto ciò che dev’essere scientifico, la ragione non può dormire e ci si deve servire della riflessione. Chi guarda il mondo con gli occhi della ragione ne è ricambiato con lo stesso sguardo, l’uno e l’altra si determinano reciprocamente[ix].

Non è pedante citazione hegeliana questo indugiare su alcuni aspetti delle Lezioni, né una voluta marcazione delle differenze tra l’iniziale concezione crociana e quella del filosofo di Stoccarda, bensì un primo accenno alla matrice di talune idee, che saranno poi presenti in Croce, soprattutto quando dirà che i fatti-soggetti non possono essere disgiunti dai predicarti-concetti.
Ma Croce, colla sua memoria, non si attirava solo le critiche dell’hegelismo, ma anche quelle del positivismo che, partendo dall’iniziale progetto comtiano di filosofia come “fisica sociale”, aveva trovato nel pensiero di Hippolyte Taine una traduzione in termini storiografici. Che Comte non avesse poi molta dimestichezza con il Romanticismo e la cultura tedesca pare assodato, o almeno non quanto il Taine, che studiò appositamente il tedesco per leggere nel testo originale il “mostro” della dialettica hegeliana, e così criticarla. Il progetto storiografico non era assai difforme da quello, ben più ampio, perseguito in ogni aspetto della scienza: la “recherche des grandes causes”, delle cause cioè “universalles et permanentes”, e il “genere artistico indicava una maniera di conoscenza storica superata, perché inadeguata all’esigenza di spiegazione scientifica propria dello stadio positivo ormai raggiunto dalla cultura, secondo la teoria positivistica e, segnatamente, comtiana del progresso[x] ”.
Ovviamente, queste cause devono essere rintracciate grazie alla scienza, e dunque essere, oltre che generali, naturali:

Il programma della nuova storiografia positivista era in tal modo fissato. Essa non ammetterà altre cause che quelle naturali e dovrà mostrare che la serie di queste cause non si estende all’infinito, ma può essere ricondotta a pochi principi generali che governano e determinano gli avvenimenti. Queste cause generali, la cui azione può sempre esser dimostrata e che bastano a spiegare ogni esistenza e ogni divenire particolare, sono definite dal Taine nella triade: race, milieu, moment. Lo storico ha fatto abbastanza e ha assolto al suo compito scientifico quando è riuscito a mostrare l’influsso di questi tre fattori fondamentali in tutti i fenomeni che studia[xi].

Croce aveva letto Taine, e lo cita e lo critica lungamente nell’opera del 1917, Teoria e storia della storiografia. Ne rigetta la formazione, ma lo rispetta per l’entusiasmo che il filosofo francese mostra nei riguardi della scienza. Tuttavia, quello che preoccupa Croce è il determinismo: un’origine esterna alla storia dell’uomo è altrettanto pericolosa di un fine, soprattutto quando ormai nel filosofo italiano s’era fatto chiaro che la storia è storia della libertà. E allora, queste determinismo naturalistico che va di causa in causa non è poi tanto diverso da quello della filosofia della storia, che segue un filo esterno alle vicende umane. Non che un fatto non possa generarne un altro – non è questo che Croce obietta, bensì che vi sia un regresso all’infinito prodotto da una fede cieca in qualcosa – una legge, in questo caso – trascendente l’azione dell’uomo:

<>: questo è il modo nel quale concezione deterministica si raffigura il lavoro della storia. <>, per ripetere la comunissima formola nelle parole testuali di uno dei più immaginosi ed eloquenti teorici di quella scuola, del Taine. I fatti sono bruti, opachi, reali bensì, ma non rischiarati dal lume della scienza, non intellettualizzati; e questo carattere intelligibile deve essere conferito mercé la ricerca delle cause. Ma è anche notissimo che cosa accada nel legare un fatto a un altro come a causa di quello, componendo una catena di cause ed effetti: che si entra, cioè, in un regresso all’infinito, e non si riesce mai a trovare la causa o le cause, alle quali si possa in ultimo sospendere la catena che si è venuta industriosamente componendo
[xii].

Croce, anche dopo circa un ventennio, quando pubblicò La storia come pensiero e come azione, avrà sempre rispetto per “la nobiltà dell’uomo e l’assidua sua fatica”, ma che in fin dei conti non può sanare gli errori dovuti alla “tirannia di un idolo che egli chiamava la <> e che gli si atteggiava nella figura del metodo”. Taine, in quelle pagine[xiii], viene accusato da Croce di non essere mai stato “trasportato nei suoi lavori dal fresco afflato della verità”, di aver scritto di filosofia “discacciandosi sin dalle prime mosse, col gesto di chi scacci una mosca, del Kant e della sintesi a priori”, di Hegel e della sua dialettica ma in realtà non vi avrebbe capito molto.

In verità, piuttosto che alla storia del pensiero, della filosofia, della critica, della storiografia, il Taine appartiene a quella delle tendenze e mode culturali, come rappresentante spiccato del fanatismo per le scienze naturali, e in particolare per la medicina, che, dopo il 1850, riempì un buon quarantennio della vita europea, accompagnato dagli inani sforzi di riplasmare su quel modello tutta la cultura[xiv].

È un Croce, questo, assai critico, che oltre alle attenuanti generiche, non risparmia una stroncatura di tutto rispetto al positivista francese, ma vi è sotto, e non va dimenticato, anche una concezione delle scienze dure ben diversa da quella sottesa alle prime opere. Dalla memoria, per intenderci, al 1938 sono passati più di quarant’anni, e non invano: il sodalizio col Gentile, che non poco rilievo ebbe nel fargli maturare certe posizioni contrarie alla scienza; la deriva di quelle speranze coltivate proprio sulla base del progresso scientifico di fine secolo e naufragate nel macello della Grande Guerra, mentre altre nubi si ammassavano sul cielo europeo alla fine di quegli anni Trenta; l’accentuazione, sempre più marcata, della libertà del soggetto; e infine una certa lettura di Hegel, su proposta dell’allora giovane Gentile all’inizio del secolo, che doveva lasciare la propria impronta.
Ma vi era, in quella fine di XIX secolo, la possibilità, ancora, di trasformare in scienza la storia, senza per questo annientarne le peculiarità? Insomma, una criticità che tenesse conto dell’oggetto specifico trattato e che, conseguentemente, producesse un metodo adatto? È a queste domande che gli storici metodologi tedeschi rispondono affermativamente:

Per loro tramite il progetto di fondazione della storiografia assunse una connotazione nuova. Si trattava di una connotazione <>, che, non pregiudicata in direzione filosofistica né in direzione naturalistica, sanciva lo statuto di scientificità della disciplina storica in connessione alla regola del suo procedimento e sulla base dell’irriducibilità del suo oggetto, sottraendola, al contempo, alla soggezione della retorica e al dominio della bella letteratura[xv].

L’operazione era davvero difficile. Bisognava, innanzi tutto, lasciarsi alle spalle il mostro sacro Hegel, evitando di concedere troppo alla filosofia. Non solo, ma al contempo, pur trasformando in scienza – e vedremo che significhi ciò – la storia, non si doveva cadere nell’altro possibile errore, cioè di guardare troppo alle scienze fisiche e di negare all’oggetto storico quella sua caratteristica imprescindibile, che è l’essere prodotto di soggetti viventi, di esseri umani. In tutto questo, bisognava infine non scadere nell’erudizione, o fare della buona storiografia, ma con uno scopo, quello dell’edificazione morale e civile che era stato di von Ranke e di altri grandi storici tedeschi, che proprio scientifico non è, o almeno non della scienza storica.
Tuttavia, e di questo si rese conto subito Droysen, mettere insieme termini quali “scienza” e “storia” poteva sembrare un ossimoro, perché scienza è ogni disciplina che miri ad innalzarsi oltre il particolare per giungere all’universale. Per questo Aristotele credeva più nella poesia che nella storia: in fin dei conti, il poeta parte dal particolare dramma per giungere a rappresentare il dramma dell’essere umano, di ogni essere umano. La storia, invece, narra di fatti singoli accaduti a soggetti che, per quanto numerosi, sono sempre singoli. Arte e storia pare che, nella nostra civiltà, non siano mai andate troppo d’accordo, e Droysen, nel suo Sommario d’istorica, si lamentava del troppo, invece, frequente accostamento di storia e arte:

Non mancherebbe d’interesse indagare per quale intima ragione, fra tutte le scienze, alla Storia sola sia toccata la fortuna di dover essere ad un tempo anche arte; una fortuna che nemmeno la Filosofia, malgrado i dialoghi platonici, condivide con essa[xvi].

Droysen non scriveva “fortuna” se non con qualche punta d’ironia. Non solo questo accostamento rischiava di inficiare ogni tentativo di scientificità portato in senso alla storia, ma proprio il richiamo estetico poteva spingere a forme di bella letteratura vuote di rilevanza storiografica, se anche Croce, che in gioventù aveva scritto pagine bellissime sui teatri napoletani e sulle leggende della città partenopea, pur concedendo, ovviamente, che “è certo da augurare e da procurare che le opere di storia siano scritte in modo culto”, stimmatizzava il metodo di Paul Luois Courier, pronto a far vincere la battaglia di Farsaglia a Pompeo, purché questo desse l’opportunità di scrivere anche una sola bella frase[xvii].
Ma l’operazione dei metodologi tedeschi non era assai diversa da quella condotta dagli hegeliani, che a loro volta condividevano il medesimo obiettivo con i positivisti: mutatis mutandis, si doveva rendere la storia scienza, e cioè innalzarla dal culto del particolare all’universale. E questo, al di là delle peculiari posizioni che connotavano ciascun approccio.
In questo contesto si inserisce la memoria crociana del 1893, la quale, mentre tenta di coniugare arte e storia, deve allo stesso tempo far capire che non è un abbassamento del valore critico della storiografia, e che il suo valore conoscitivo non verrà intaccato. Pensare che ogni conoscenza sia scienza è un errore:

Alcuni - e dovrei dir molti – confondono la scienza con la conoscenza o col sapere in genere. Cosicché, per essi, qualunque proposizione esprimente una verità, è una proposizione scientifica[xviii].

La scienza “cerca sempre il generale, e lavora per concetti”. Infatti, “dove non c’è formazione di concetti, non c’è scienza”. E che è un concetto, se non un genere sotto cui viene sussulto il particolare? Infatti Croce, dopo aver citato Schopenhauer che, ne Il mondo come volontà e rappresentazione si era espresso in simili termini, mostrando anche come fosse contraddittorio attribuire alla storia carattere di scienza, afferma perentoriamente citando dall’opera Über die Ideen in der Geschichte di Lazarus:

La storia non tratta di fatti, avvenimenti, azioni e persone come tali; ma sempre di questo fatto, di questa persona, ecc. Alla scienza tale determinazione è perfettamente indifferente; perché essa cerca il generale, ossia quel ch’esiste in tutti i singoli oggetti. Insomma, in breve: da una parte abbiamo astrazioni logiche, dall’altra semplici processi di concentrazione psicologica; da una parte concetti generali, dall’altra rappresentazioni concrete concentrate, se pure non addirittura individuali; qui il singolo come esemplare astratto, là il singolo come individualità concreta; qui lo scopo della ricerca è la legge generale, là il processo individuale
[xix].

E, in modo deciso e con sue parole, afferma ancora:

O si fa della scienza, dunque, o si fa dell’arte. Sempre che si assume il particolare sotto il generale, si fa della scienza; sempre che si rappresenta il particolare come tale, si fa dell’arte[xx].

Restava, dei due poli, quello dell’arte. E a Droysen, che chiedeva ragioni della singolare “fortuna” della storia ad essere sempre associata all’arte, Croce rispondeva:

Ma, quando due parole son ravvicinate con frequenza, qualche ragione reale del ravvicinamento suol esserci, quasi sempre; quando una questione risorge con insistenza, per quanto sia posta male e confusamente, bisogna guardarsi dalle risposte facili che sembran troncare il nodo: in fondo alla questione mal posta, ci deve essere una difficoltà da scovrire, ch’è il vero motivo di essa. Ora, se la gente si è domandata, e si domanda tuttavia, se la storia sia scienza od arte, è una risposta che non risolve niente, è quasi una petitio principii il dire: che la storia, essendo una scienza, ha coll’arte i rapporti stessi che han tutte le scienze coll’arte. Se la domanda è sorta per la storia e non per le altre scienze, vuol dire, da una parte, che la storia non sembra una scienza come le altre; e dall’altra parte, che la connessione coll’arte appare maggiore e diversa di quella delle altre scienze coll’arte stessa; e su questi due punti importa fermarsi, e questi due punti chiarire[xxi].

Non è questo il luogo nel quale passare in rassegna tutte è quattro le possibili risposte – sensualista, razionalista, formalista e dell’idealismo concreto – rubricate da Croce alla domanda circa il Bello. Quello che è importante dire, e che Croce considera “una categoria speciale d’appercezione” del reale l’arte, che fa diventare bella tutta “la realtà naturale ed umana”, “perché è appercepita come realtà in generale, che si vuol vedere espressa completamente”. Vi è qui quella risposta dell’idealismo concreto, per cui “il bello vien considerato come espressione di una qualche cosa, che con terminologia hegelliana si chiama idea[xxii]”, ed è anche, in parte, una prefigurazione di quell’estetismo crociano scevro da ogni moralismo: infatti Croce cita De Sanctis, quando questi elogia la figura di Jago, “forma uscita dal più profondo della vita reale, così piena, così concreta, così in tutte le sue parti, in tutte le sue gradazioni finita, una delle più belle creature del mondo poetico[xxiii]”.
Dunque, l’arte è rappresentazione della realtà, nella quale la forma è tutt’uno col proprio contenuto: Jago – ma che cambia, a questo punto, se parliamo di fatti storici? – non può essere giudicato in base a criteri morali, giacché la rappresentazione, malvagia per quanto si voglia, è perfettamente confacente al contenuto che si voleva rappresentare. Egli è quale doveva essere.

Tenendoci fermi a questo concetto dell’arte, considerandola cioè come rappresentazione della realtà, è evidente che cadono la massima parte delle ragioni, per le quali molti negano, scandalizzati, che la storia sia una produzione artistica. Tale scandalo è pienamente giustificato, quando si parte da una delle tre teorie di Bello e sull’arte, che noi abbiamo scartate, ossia quando si creda o che l’arte abbia per iscopo 1°) di elaborare il piacevole dei sensi e della fantasia, ovvero 2°) di rappresentare il Vero e il Buono, ovvero 3°) di creare una somma di rapporti formali piacevoli. La storiografia ha fini inconciliabili coi tre sopradetti, o solo eccezionalmente e casualmente conciliabili. Ma non pare egualmente giustificato quando si ammetta la definizione sopraddetta: che l’arte è la rappresentazione della realtà. La storia non è forse anch’essa una rappresentazione della realtà?[xxiv]

Già. Ma è di un tipo affatto diverso dell’arte, anche se può comunque – e ciò va annoverato tra le migliori intuizioni di Croce – “esprimersi per mezzo delle arti figurative… e per tal rispetto rientrerebbe nella pittura (ritratto, pittura storica) e nella scultura (scultura monumentale ecc.)[xxv]”. È d’un tipo diverso, perché è “quel genere di produzione artistica che ha per oggetto della sua rappresentazione il realmente accaduto[xxvi]”, e come l’artista si prepara con molta attenzione l’oggetto della rappresentazione con “lavori preparatori” per “raggiungere la schiettezza e ad evitar il falso”, i lavori preparatori dello storico “si chiamano la ricerca, la critica, l’interpretazione, la comprensione storica”.
Dunque, la riduzione ha, intanto, valore teoretico, e non inficia il lavoro concreto del buon storico. Inoltre, proprio Croce che dedicherà le sue prime opere speculative all’estetica, considera l’arte e il lavoro dell’artista frutto di attento studio e di preparazione, e non certo di approssimazione e pochezza intellettiva.
Vi è però, nella memoria, anche un altro richiamo alla concezione storiografica futura dell’autore, e sarà bene descriverla con molta attenzione. Croce ci ha appena detto che la storia può essere ridotta – deve essere ridotta sotto il concetto generale di arte. Ora, però, si pone una domanda: “quale debba essere il contenuto dell’arte?[xxvii]”, perché un contenuto particolare deve pur esserci. E praticamente, l’artista come lo storico non dipingono mai tutta la realtà – il generale, appunto – ma sempre questa realtà, una particolare realtà. È qui che s’innesta il concetto dell’interessante:

Un estetico tedesco, Il Koestlin, il contenuto estetico è l’interessante; ciò che interessa l’uomo come uomo, così dal lato teoretico come dal lato pratico, così il pensiero come il sentimento e la volontà, ciò che conosciamo e ciò che non conosciamo, ciò che ci rallegra e ciò che ci rattrista, tutto il mondo insomma dell’interesse umano[xxviii].

Certo, ci sono diversi contenuti, diversi modi di indirizzare questo interesse, e qui sì che si va dal generale al particolare: “l’uomo come uomo”, e poi quelli che lo interessano in quanto appartenente ad una “razza, o nazione, o religione; poi, quelli che interessano l’uomo di una determinata classe, e giù giù, fino a ciò che interessa l’uomo solo in quanto individuo[xxix]. L’interessante è fondamentale, perché anche quando l’opera fosse “esteticamente perfetta”, ma per nulla interessante, “sarà di quelle che il giudizio del pubblico condanna sommariamente come fredde o noiose”. Lo stesso, dunque, vale per la storia che, “rispetto alle altre produzioni dell’arte, si occupa dello storicamente interessante; ossia non di ciò ch’è possibile, ma di ciò ch’è realmente accaduto[xxx]”, e con nota a piè di pagina, Croce cita il Labriola di I problemi della storia e Dell’insegnamento della storia.
È difficile, a questo punto, non vedere come, al di là della differenza di lessico utilizzato, la storiografia per Croce è un atto vitale, che nasce non già al tavolino dell’esperto, ma nello spirito dell’uomo – dell’uomo che realmente vivere, che ama, che soffre, che esperisce il suo rapporto col mondo. Croce non dirà più che la storia è arte, anzi. Ridurrà la filosofia a metodologia della storiografia, proprio a partire dal nuovo secolo. Però, quando si leggono le motivazioni del perché la storia sia sempre contemporanea, è difficile non pensare che, in fin dei conti, molto del primo Croce permane. Forse, permane proprio l’aspetto migliore.
In Teoria e storia della storiografia Croce continua a parlare di interesse, per giustificare lo studio storiografico. Cosa è la storia contemporanea? Innanzi tutto, è quella accademicamente intesa:

<> si suol chiamare la storia di un tratto di tempo, che si considera un vicinissimo passato[xxxi].

Ma non è il solo modo di intendere quell’espressione. Infatti, a rigore, “dovrebbe dirsi sola quella storia che nasce immediatamente sull’atto che si viene compiendo, come scienza dell’atto”[xxxii]. Ma ve ne è un’altra, che è sempre contemporanea a chi la vive non solo nell’atto di farla, ma anche di riappropriarsene di quella già fatta dall’umanità intera. Croce ci dice che gli amici – i compagni di viaggio non ce li sceglie l’anagrafe, ma lo spirito. Posso trovare sterile un discorso di un politico attuale, posso essere indifferente ad un evento che leggo sul giornale, ma sentire che nel discorso – per tornare all’esempio già utilizzato – di Pericle vi sono parole, che mi dicono più del caos che mi ronza attorno:

E se la storia contemporanea balza direttamente dalla vita, anche direttamente dalla vita sorge quella che si suol chiamare non contemporanea, perché è evidente che solo un interesse della vita presente ci può muovere a indagare un fatto passato; il quale, dunque, in quanto si unifica con un interesse della vita presente, non risponde a un interesse passato, ma presente[xxxiii].

La storia è legata alla vita in un nesso di unità e distinzione: i documenti sono i palpiti della storia-vita come l’interesse lo è della vita-storia. E proprio per questo, se viene meno un palpito – che è uno e, allo stesso tempo, non lo è – viene meno l’altro, e la storia non è più viva, ma morta. Un esempio può offrirlo la pittura greca: un insieme di nomi, come Apollodoro, Poligneto, Zeusi, Apelle, e di aneddoti, ma senza documenti, senza “fonti” dalle quali attingere un contenuto, il nostro interesse scema presto, e si dissolve come si dissolta è quella vita di cui non rimane traccia[xxxiv]. Ma non c’è solo la possibilità che la vita non ci sia, ma che si tenti di falsificarla: non si rischia solo di perdere documenti, ma che se ne trovino di falsi. La qual cosa, dice Croce, dà opportunità allo scettico di scusare la propria pigrizia[xxxv] – perché lo storiografo Croce lo sa bene, è solo con la critica, il lavoro, lo studio e il sacrificio che si supera l’impasse.

La critica ha acquistato tale acume ed esperienza in questa parte che può passare in gloriosa rassegna lo sterminio compiuto di folte schiere di falsificazioni, che l’assaltavano da ogni lato procurando di avvolgerla e di toglierle la vista del vero; e può quasi sorridere dei vani conati, armata come si sente dei suoi metodi infallibili
[xxxvi].

E fin qui la critica. Ma Croce pensa che anche la storia, che è sempre documento e pensiero, può sopportare un falso, perché ciò non falserebbe mai il pensiero. In fin dei conti, che cambiamento potrà mai apportare un sonetto inautentito nel numero di quelli autentici del Petrarca? E chi è, poi, il falsario per mutare la storia, il pensiero col quale l’umanità si riappropria dei suoi contenuti di senso nell’azione?

Se il documento vero e reale è l’opera stessa del passato, è mai possibile falsificare un’opera del passato? Per falsificarla, bisogna crearla; e il falsario è falsario e non è né poeta né pittore o altro artista, né istruttore di costume e di religione. Che cosa può egli fare, dunque, e che cosa fa in effetto? Lavora sul già creato, combina, simula, dà al suo manufatto la lustra di cosa nuova; ma il suo è lavoro inane. Potrà ingannare, come accade per gli oggetti artistici adornanti le case ed esposti nei musei, qualche collezionista, anche avveduto, sebbene per lo più inganni solo gl’inesperti o troppo candidi; ma non potrà mai aggiungere una nuova nota alla nostra anima e arricchire la nostra coscienza storicamente formata
[xxxvii].

Proprio qui si evince che la critica, anche di carattere filologico, sottintende un’ermeneutica storica – una precognizione storica che non può essere facilmente elusa, e nella quale la vita falsa ed inautentica non può far breccia. Lo spiega più avanti lo stesso Croce, quando propone l’esempio del tratterello rinascimentale – creato ad hoc – nel quale si formulerebbe già il “cogito ergo sum” che è di là da venire. Certo, la cosa creerà stupore e confusione, ma non potrà mai cangiare nulla al nostro pensiero, “giacché il <> e la sintesi a priori sono già da noi posseduti coi nomi di Cartesio e del Kant[xxxviii]”.
Al di là della discutibile storiografia filosofica, si può notare come la storia, per Croce, sia vita e nient’altro che vita. E se è la vita che, pulsando, genera i suoi afflati, che chiameremmo documenti, allora il respiro posteriore non sarà mai l’alito che impernia la vita precedente. Esso, alla fine, sarà pur sempre scoperto nella propria inautenticità, che può essere poco marcata – in fin dei conti, lo si è detto prima, il falsario non è poeta, non crea, ma ri-crea, o meglio ri-formula con materiale preso in prestito, ma allora la falsificazione sarà una mezza verità, o comunque niente che possa alterare quell’organismo. Ma anche quando il virus fosse di una qualche virulenza, tale da voler, nelle proprie intenzioni, alterare l’organismo, questi lo rigetterebbe – col tempo, magari, ma ineluttabilmente. Ormai, infatti, quel corpo è formato, ed è formato non già da materiale esterno, ma la propria forma è ciò che, a un tempo, lo forma e, formandolo, lo preserva. Non si capisce il passato, senza un “bisogno della vita pratica il quale non può soddisfarsi trapassando in azione se prima i fantasmi e i dubbi e le oscurità contro cui si dibatte, non siano fugati mercé della posizione e risoluzione di un problema teorico, che è quell’atto di pensiero”, ma quel presente da cui si genera il bisogno del passato è lo stesso presente in-formato dal passato del quale vuole riappropriarsi.
Ora sarebbero da aprire alcuni problemi, il primo fra tutti quello di pensiero ed azione. Distinzione e unità, dice Croce. Ma è chiaro che il pensiero fa luce all’azione nel presente, quanto quella del passato ha fatto luce al bisogno susseguente del presente. E resta da chiarire se poi, in fin dei conti, non sia il pensiero che, nell’azione passata, non si riappropri di quell’atto di pensiero che l’ha generata, portandoci infine a prendere posizione se- lo diciamo trivialmente – non sia nato prima l’uovo o la gallina. Qui, però, si entra nei problemi dello storicismo assoluto, e di quelli, altrettanto impervi, che divisero Croce e Gentile. Questo, pur tangendolo, non può essere oggetto del presente lavoro.
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NOTE

[i] Cfr. Raffaello Franchini, La teoria della storia di Benedetto Croce, Morano Editore, Napoli 1966, p. 35.
[ii] Benedetto Croce, La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte, a cura di Giuseppe Gambillo, Perna Edizioni, Messina 1993, cit. p. 17.
[iii] Francesca Rizzo Celona, Il concetto filosofico della storiografia. Il dibattito sulla storia in Italia tra ‘800 e ‘900, Giannini Editore, Napoli 1982, cit. p. 3.
[iv] Per una breve storia editoriale dell’opera cfr. G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, Laterza, Roma-Bari 2003, p. XL.
[v] G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, op. cit., p. 3.
[vi] Idem.
[vii] Ivi, cit., p. 4.
[viii] Ivi, p. 9.
[ix] Ivi, p. 11-12.
[x] Cfr. Francesca Rizzo Celona, op. cit., p. 9.
[xi] Ernst Cassirer, Storia della filosofia moderna, Einaudi, Torino 1963, vol. IV, p. 383.
[xii] Benedetto Croce, Teoria e storia della storiografia, Adelphi, Milano 2001, pp. 71-72.
[xiii] Cfr. Benedetto Croce, La Storia come pensiero e come azione, Laterza, Roma-bari 1963, pp. 173-179.
[xiv] Ivi, p. 175.
[xv] Francesca Rizzo Celona, op. cit., p. 17.
[xvi] J.G. Droysen, Istorica, Milano-Napoli, 1966, p. 429.
[xvii] Cfr. Benedetto Croce, La storia come pensiero e come azione, op. cit., p. 8.
[xviii] Benedetto Croce, La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte, op. cit., p. 15.
[xix] Ivi, p. 17.
[xx] Ivi, p. 22.
[xxi] Ivi, p. 4.
[xxii] Cfr. ivi, p. 10.
[xxiii] Cfr. ivi, p. 13.
[xxiv] Ivi, p. 14.
[xxv] Cfr. Ivi p. 27.
[xxvi] Cfr. ivi p. 34.
[xxvii] Cfr. ivi, p. 30.
[xxviii] Ivi, p. 31.
[xxix] Idem.
[xxx] Ivi, pp. 32-33.
[xxxi] Benedetto Croce, Teoria e storia della storiografia, op. cit., p. 13.
[xxxii] Idem.
[xxxiii] Ivi, p. 14.
[xxxiv] Cfr. ivi, pp. 17-18.
[xxxv] Cfr. Benedetto Croce, La storia come pensiero e come azione, op. cit., p. 101.
[xxxvi] Ivi, p. 103.
[xxxvii] Ivi, pp. 105-106.
[xxxviii] Ivi, pp. 106.

12 giugno 2007

PENSIERO VI

Le donne, quando sono nude, sono tutte uguali. E' quando sono vestite che si vede la differenza.

11 giugno 2007

L'ANNO CHE PASSA, IL TEMPO, LA VITA ED ETTORE

Niente è più relativo del giudizio sul proprio passato. In una notte, diversi sentimenti si danno battaglia per conquistare anche un poco di quella considerazione che non mostriamo loro, per paura di quello che potrebbero dirci. Più l’oggetto pulsa sangue, più pesante si fa il giudizio che esso attende.
È questione di relatività galileiana: per chi è a bordo, la vita pare scorra lentamente, languidamente distesa sulle sabbie del tempo come una giovane indolente, o sicura e grassa matrona sui cuscini di velluto che vediamo dipinti dai grandi del Rinascimento. La pittura incastona le sue perle migliori nel diadema dell’eternità. E lo sguardo ansioso di chi attende risposte si fissa nell’attimo sempre uguale, immobile descrizione di quella strada dalla quale non si vede ancora far capolino il berretto d’un postino, la sua borsa a tracolla nella quale giace il responso del fato.
Quando uno vive non pensa: vive punto. E gli eventi scorrono nell’arco di ventiquattro ore, di centosessantotto ore, di settecentoventi ore, di ottomilasettecentosessanta ore. Abbiamo più ore da contare che eventi da numerare. E le sensazioni che accompagnano ogni momento, se non passano alla coscienza, muoiono come le ore che pendolano alla parete.
Quando, però, ci si ferma un poco, e si pensa, allora tutto assume un altro aspetto: la vita non è poi così lenta. Espunti i rami secchi, dei quali non portiamo ricordo, né altro ce ne impone più il duro fardello, svetta alta e rigogliosa, e per ogni foglia possiamo contare i fruscii del vento, e i raggi che la battono, e gli insetti che vi si posano. Allora la vita non è più così lenta: scuote ed è scossa, e tutto appare chiaro e grandioso. Nulla di inutile: il senso traspare dalle ore, e l’ansia trasuda la sua ragione.
Momenti meno affollati, ed altri che traboccano di volontà. È come se si fosse stati addormentati per anni; per altri, nel dormiveglia del meriggio abbiamo appena scacciato il ronzio della calura; per altri ancora, abbiamo ruggito, infine, e cantato, e ballato come pazzi, non aspettando il tempo, ma anticipandone dolori e piaceri, e tristezze e gioie, per il solo ed unico fine di passare avanti e dire di non essere stati sorpresi dalla vita sull’amaca in terrazzo, attendendo che il sole e la luna facessero giustizia per noi, e per noi vivessero il SI’ e il NO dell’esistenza.
Un anno può essere pieno di scelte. Un anno può dirci più di quanto abbiamo udito dai lustri. Un anno può sfoltire i rami della vita; fare cernita delle occasioni; indicarci strade diverse da quelle che percorriamo, o ricondurci al sentire primigenio che avevamo inavvertitamente o volutamente lasciato. Un anno può portarci via tutto quello costruito in decenni. Ma non ci toglierà mai di dosso il profumo inebriante della vita. Che non è lo stesso olezzo aggraziato di cui si bagnava le dorate carni il pelide Achille, ma il sudore forte del malconcio Ettore. Del coraggioso Ettore.
Pagò per tutti, ma pagò da eroe. Egli che davvero conosceva l’amore, pagò per la sconsiderata passione del ridicolo fratello Paride. Egli che davvero conosceva l’onore, pagò per la boria d’Achille, offeso semmai dall’imbelle cugino Patroclo. Gli dei patteggiavano per Achille. Per Paride tutti i vili che si fanno scudo dell’amore per campare di luoghi comuni e di storielle trite, d’irresponsabilità e di fugaci ardori sessuali. Ettore lo ricordano tutti gli uomini, che sanno quale duro campo di battaglia sia il vivere, e come soffiano molte volte venti avversi, eppure non indietreggiano, perché sanno che quel giorno – quel giorno che non hanno cercato, per il quale non hanno pregato – proprio quel giorno è il loro. E dicono SI’ con coraggio e NO alla paura. E pur conoscendo la fine, aspettano il tramonto assisi sul loro cuore, piantati sulla loro scelta.
Dice Ettore davanti all’inevitabile:


Al fianco ho già la morte, e nullo
v'è più scampo per me. Fu cara un tempo
a Giove la mia vita, e al saettante
suo figlio, ed essi mi campâr cortesi
ne' guerrieri perigli. Or mi raggiunse
la negra Parca. Ma non fia per questo
che da codardo io cada: periremo,
ma glorïosi, e alle future genti
qualche bel fatto porterà il mio nome.
(Iliade, XXII)



E combatte ancora. E aspetta il tramonto.
Quale coraggio ci vuole per compiere fino alla fine il proprio dovere di vivere!
Auguri Ettore.