"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

14 giugno 2007

LA SCIENZA, IL LAVORO SCIENTIFICO E LA WELTASHAUUNG

Testo di un intervento ad una conferenza sull’evoluzionismo. La scienza può sostituire tutte le altre forme di approccio al reale? Può essere la sola nostra “visione del mondo”?


I. Mi pare opportuno iniziare il mio veloce intervento non già entrando nello specifico del tema di questa sera, che sarà trattato dal nostro illustro ospite con la sagacia e la competenze che gli sono proprie, e delle quali egli ha già dato più volte saggio, bensì toccando alcuni punti dell’attuale visione che l’uomo occidentale ha delle scienze naturali. Ed è tanto più impellente ridimensionare il ruolo che queste scienze – che, ricordiamolo, sono solo alcuni aspetti dei molteplici mostrati dalla conoscenza umana nel suo sviluppo storico – hanno assunto nella formazione della nostra civiltà, almeno nell’ultimo mezzo millennio, e nell’organizzazione delle nostre società, quanto più urgenti si fanno gli interrogativi etici che il loro sviluppo si porta dietro. Sarebbe scontato e, per giunta, inopportuno, visto il tema di questa sera, riallarciarci ai fatti ultimi di cronaca, se non fosse che ci è necessario soltanto accennarli al fine di evidenziare come, sempre più spesso, in nome di un individualismo radicale e di una fiducia smodata nelle scienze fisiche, pensiamo di poter fare a meno di un’attenta analisi di quale pericolo per l’intera polis – per la comunità tutta - si celi dietro anche i più personali e dolorosi casi dei quali i giornali .


II. Se gli uomini di ieri avevano come vitello d’oro da adorare il grande Levitano, lo stato onnipresente e onnisciente, propinatore di visioni totalizzanti della realtà e manicheistiche del vivere, per cui il bene era tutto condensato in una dottrina e il male nelle restanti, l’uomo di oggi, venuta meno la cieca fede nelle utopie del soggetto, crede di trovare refrigerio rifugiandosi nell’utopia dell’oggetto, nelle scienze fisiche che, proprio per la loro presunta “oggettività”, sono reputate le uniche capaci di superare la frammentarietà dell’individualismo, così comodo quando giustifica la nostra condotta ed esige il rispetto della nostra visione, ma ritenuto insufficiente quando, infine, i nodi giungono al pettine, e i tanti monologhi messi insieme non riescono a fare anche una sola discussione, a scapito, s’intende, del monologo stesso.

III. “Dio è morto” dicono, e pure la fiducia che la ragione umana possa rintracciare il filo del senso di questa comune esperienza che è la vita non gode di buona salute, offesa come è da un scetticismo di maniera a cui sono perdonate le illogicità rimproverate, invece, ad una concezione forte del pensiero. Che fuori dall’ambito delle scienze materiali si crede non ci sia che dubbio, se non addirittura errore, è pure dimostrato dall’accoglimento riservato al discorso che Sua Santità Benedetto XVI ha tenuto all’università di Ratisbona, dove sotto accusa era messo non già l’Islàm, bensì l’uso, anzi il fine che l’Occidente ha riservato alla ragione nel suo senso più ampio, più completo e, certamente, più genuino. Qualche esagitato e un paio di pennivendoli, male che pare comune ad Occidente e Oriente, hanno sollevato i guru del pensiero dal rispondere agli interrogativi che, ormai, un’intera civiltà si pone.

IV. Tuttavia, al problema più generale posto dal Papa – l’uso della ragione come mezzo di interazione tra soggetti di fede e cultura diversi – aggiungerei un problema più specifico e più direttamente pertinente al tema di questa sera: può la scienza, restando genuinamente se stessa, darci quell’oggettività alla quale, almeno apparentemente, l’umanità intera aspira? Questo mi pare il punto cruciale: la scienza può o no sostituirsi alla religione, alla filosofia e ad altre forme spirituali, nella formazione della nostra visione del mondo e della vita? O meglio, dato che di fatto la sostituzione ha avuto luogo, ne ha anche legittimità?


V. La scienza è artefice di credenze perché si nutre di credenze. Alla parola “credenza” non do un particolare senso epistemologico o teologico, ma vorrei indicare qualcosa della cui esistenza, e del come di questa esistenza, si possono addurre buone ragioni. Ma buone ragioni sono indizi, tuttalpiù prove, ma non potranno mai essere la verità. Per spiegare meglio, è bene entrare nel merito del lavoro scientifico.
Come lavora uno scienziato? Innanzi tutto, egli non si occupa di tutto quello che esiste: la presunta oggettività va conquistata a scapito della completezza. Egli, all’inizio della propria avventura conoscitiva, ha un problema, eredità di qualcheduno che lo ha preceduto, o nato da altri problemi già risolti. Questo non è uno sguardo, che egli getta sull’essere, ma riesce semplicemente a cogliere uno scorcio. Tanto gli basta, né mira ad avere di più. Ha sotto le mani quel determinato problema, e tanto già basterebbe per indicare che quell’oggettività, intesa come verità universalmente valida, non può mirare ad essere esaustiva.
Ora, chi è pronto ad accettare – forse perché entrando in un ospedale avrà avuto modo di vedere le molteplici branche in cui è divisa la sola scienza medica – che le scienze naturali non possono essere in sé esaustive, non sempre lo è altrettanto ad ammettere che la completezza della verità in un futuro che ha sempre da venire è solo una chimera, un retaggio positivista ormai largamente smentito dalla prassi scientifica. Mezzo millennio di ricerche non ci hanno portati che soltanto alle soglie dell’infinitivamente piccolo e dell’infinitivamente grande, e ancor più lontani siamo dal trovare le regole, le norme, i legami, la profonda razionalità che impernia della sua armonia ogni cosa che esiste. Ma quando si giunge alla risoluzione di un problema, si sono gettati i semi per altri di più nuovi: lo scienziato ha buone ragioni per credere di aver posto rimedio alla situazione iniziale, fermo restando il fatto che altre se ne sono generate frattanto, e che perfino quanto è stato, con duro lavoro, apparentemente stabilizzato, potrebbe nel proseguo del cammino essere rimesso in discussione.

VI. Risolvere un problema non è incontrare la verità. E poi, che vuol dire risolvere un problema? Vuol dire giustapporre i pezzi di un puzzle. Quando facciamo un puzzle, ci troviamo a maneggiare due cose: i pezzi, da un lato, e qualcosa di meno materiale, come l’immagine che essi dovranno andare a creare. Miriamo a metterli in armonia tra loro, godendo del vantaggio di avere già, sulla scatola della confezione, la figura che dovremmo comporre. Nella scienza non c’è dato neppure questo minimo vantaggio. Siamo dei sarti, quando facciamo scienza, che cuciono abiti sempre più precisi, ma mai perfetti. Non andiamo proprio a zonzo: sarebbe ridicolo affermarlo, la nostra intenzione non è già quella di distruggere la forza della ragione, ma di calmierare il prezzo delle scienze naturali. Abbiamo, invece, delle buone ragioni per andare in un verso piuttosto che per un altro: una teoria è questo, un verso, scelto non a caso fra altri, ma dopo una cernita il più attenta possibile. Imbocchiamo una strada, ma non sapremo mai con assoluta certezza se essa sia quella giusta, se dopo qualche passo dovremo tornare indietro, o se semplicemente stiamo allungando il cammino.

VII. Inoltre, una teoria ha sempre un rapporto osmotico con i dati che la dovrebbero corroborare. Per intenderci, la teoria armonizza i dati e questi la giustificano. È un circolo, dal quale non si esce. Ora, senza dilungarmi sul che cosa sia un dato, affrontiamo direttamente il problema susseguente: come viene raccolto un dato? E inoltre: come viene armonizzato con gli altri? Infine: come corrobora la teoria di cui è, a un tempo, figlio e padre?
Per il dato si ripete quanto precedentemente detto circa la teoria: non ci sono segnali direzionali, la strada non è segnata, non ci sono manuali d’uso prestampati su come adoperare un dato. Facendo leva sul proprio patrimonio intellettivo, le sua capacità razionali e non solo le sue competenze culturali, e su quando appreso dalla comunità scientifica – molti dei dati su cui si costruiscono le teorie scientifiche sono di seconda, terzo o, addirittura, quarta mano – lo scienziato interpreterà, il più veridicamente possibile (ne siamo certi), il materiale che ha a sua disposizione, e tornerà al senso intero della teoria magari per riformularla meglio, o anche solo per vedere cosa può essere giustificato e cosa no.

VIII. Così va il lavoro scientifico, e mi auguro nessuno pensi che io abbia voluto screditarlo: semmai, credo sia più simpatico il giovane ricercatore animato di sano entusiasmo, che tenta di carpire al mistero le sue credenziali, piuttosto che il vecchio cattedratico, oggi ritornato di moda sugli scanni dell’accademia, così tronfio e pieno di sé e delle proprie congetture, da lamentare l’esistenza delle certezze della fede, mentre tenta di insediare loro il calcagno per giungere a un status al quale, per propria scelta, non potrebbe ambire.
La scienza, dunque, è fatta di buone ragioni. Di buone ragioni partorite da uomini, in determinato momento dello sviluppo scientifico, con determinati mezzi e conoscenze. Di uomini che hanno anche un loro vissuto, una esperienza di vita, certi credi ed idee. Tutto questo non è una zavorra a mio avviso, anzi. Credo che le scienze naturali si sono screditate, invece, proprio quando hanno cominciato a dare di sé un’immagine stereotipata di rigidità, assolutezza e infallibilità.
Lo scienziato dà per scontate alcune cose, per probabili altre, e solo momentaneamente per assodate altre ancora. Le credenze su cui si poggia, in ultima analisi, il lavoro scientifico, a loro volta alimentano le nostre. La scienza parte dal senso comune del reale, per poi ritornare a noi dandoci un’immagine della realtà assolutamente diversa. In questo contribuisce, ormai in larga parte, a creare le nostre credenze circa il mondo. È stato frainteso per molto tempo Heidegger, proprio perché non si è inteso fino in fondo in che senso egli negasse la neutralità alla tecnica. Non si tratta di affermare che l’energia nucleare possa essere utilizzata solo per distruggere, e non già anche per costruire. Ovvio è che non è lo strumento portatore di un valore, bensì chi lo usa. Ma il senso dell’affermazione heideggeriana, a mio avviso, è di ben altro spessore. La tecnica muta l’orizzonte in cui si muove: uno strumento, quale che sia l’uso che se ne faccia, una volta adoperato, lascia il mondo diverso da come lo aveva incontrato. Nel bene come nel male, nulla sarà come prima. Rimane da chiedersi: anche se non viene utilizzato? Credo di dover rispondere affermativamente, giacché anche la sola potenzialità del mutamento offertoci, se non cambia materialmente il reale, di certo ci permette di vederlo ormai sotto la categoria di questa nuova potenzialità. Dunque ne muta la forma: al suo essere si aggiunge un poter-essere che, prima, non era nel nostro sguardo. La scienza è sempre tecnica: è un fare sul mondo, che può anche lasciare il mondo nella sua struttura materiale immutato, ma del quale altera, definitivamente, la struttura logica.

IX. Urta contro le nostre più radicate intuizioni morali pensare che la teoria darwiniana sia stata della medesima portata della bomba atomica sganciata su Hiroshima, e per molti versi abbiamo anche ragione a rabbrividire davanti a tale paragone: non bisogna mai sottovalutare il mondo fatto di piccoli e radicati equilibri morali e psicologici, anche perché, il più delle volte, coloro che si scandalizzano davanti a talune affermazioni, sono anche i più umili che valutano un nulla quanto viene spacciato per ultimo ritrovato della scienza. Magari non ingaggeranno una guerra dialettica contro i portatori del nuovo paradigma, ma per loro non muta l’orizzonte del mondo in cui si muovono. Dunque, la malattia come la cura appaiono fuori dalla loro portata.
Quanti, però, abbracciano talune credenze scientifiche, rimanendo scandalizzati quando altri le mettano in dubbio, o ne perorano solamente, magari forzando i toni e i paragoni, la ri-discussione alla luce di nuove prove, quando si chiede, cioè, di non dichiarare chiusa la partita dell’indagine scientifica, si interroghino se sia stato più disastrosa la degradazioni ad animali di alcuni sparuti uomini per la loro insana e barbara decisione, che non quella dell’umanità intera ad opera di una teoria che, ancora oggi, cerca disperatamente una più efficiente corroborazione.
Vi ringrazio per avermi offerto la vostra attenzione.

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