"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

13 giugno 2007

L'ERMENEUTICA STORIOGRAFICA DI BENEDETTO CROCE

Il testo seguente, assai esteso, e dunque probabilmente poco idoneo al presente contesto, è stato scritto in occasione di un corso di storiografia contemporanea della Scuola Interuniversitaria Siciliana di Specializzazione per l'Insegnamento Secondario (S.I.S.S.I.S.).
Non ho rivisto il testo, neppure per quanto riguarda la formattazione elettronica. Tuttavia, spero possa interessare qualcuno e di riceverne commenti.


Non v’è miglior saggio della giustezza dell’intuizione crociata circa l’interesse che rende viva e permette la ricerca storiografica, che comparare moventi spirituali e movimenti storici dei popoli europei, in un stretto rapporto già indicato dal filosofo abruzzese tra filosofia e filologia. Ci si accorgerebbe, allora, che se l’indagine sulla storia e la sua metodologia sono state sempre presenti in Occidente – tenendo comunque in debito conto le diversità categoriali tra il monto antico e la modernitas sancita dall’avvento del cristianesimo, tuttavia mai è stata così presente come nell’evo moderno, quando venuta meno la Weltanshaung onnicomprensiva della quale era intrisa l’architettura scientifica e politica degli evi passati, vi è stata in ogni popolo la riscoperta delle proprie radici. Perché il passato, anche se inesistente senza un presente e, come Croce mette bene in evidenza, soggetto vacuo senza il predicato della contemporaneità, cioè il bisogno pratico di “luce”, è fonte di legittimità del futuro: quel futuro che i grandi imperi del Settecento, quali Inghilterra e Francia, vedevano proprio con quella sicumera che solo i vincitori, immemori dei repentini capovolgimenti della fortuna, ostentano con così poco tatto.
Per Germania e Italia il discorso è assai più complesso. Innanzi tutto, l’illuminismo tedesco era stato ben altra cosa che quello francese, e basti a tal proposito leggere le considerazioni di Kant per rendersene conto. Non solo, ma il richiamo al passato– la tanta letteratura gotica che in epoca romantica germogliò ne è una testimonianza lampante – non aveva il sapore di un’impresa manieristica, bensì il tentativo di riappropriarsi di un mistico luogo della memoria, nel quale aveva preso lentamente corpo nei secoli lo Spirito tedesco, che si rivelerà importante come collante prima, durante e dopo l’unificazione.
Certo che le Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte di Hegel possono essere considerate – perché di fatti lo sono pure – il coronamento del sistema filosofico di un genio, a cui mancava la ciliegina sulla torta per suggellare la sua produzione filosofica, dandole un senso e una portata universale. Ma non sono solo questo. Deve pur esserci qualche altra spiegazione, oltre alle capacità e alle aspirazioni personali di ciascheduno, se Hegel non è il solo a vedere nel germanismo un fattore capitale nello sviluppo della kultur, e in quegli anni di primo Ottocento i richiami alla missione della nazione tedesca sono pressoché generali. Come i greci d’Ellade duemila anni prima, i tedeschi sono alla ricerca della loro koiné, e dove trovarla se non nel fatto di essere stati lì, in quella terra, come gruppo unito da vincoli di sangue (poi, a volte, si semplifica il passato per meglio piegarlo ai desideri del presente) ? Ma proprio per questo è necessario interrogarsi sulla storia. E non è, ancora, affatto casuale, che prima si faccia, mossi da vere esigenze ideologiche, della filosofia della storia, e poi, infine, quando la memoria si è ritrovata e il popolo si è cementato attorno ad entità politiche e spirituale più vicini nel tempo, quella disciplina che prima era fuoco vivente nel petto, diventi materia di sereno studio e di placata meditazione circa i suoi fini, il suo oggetto, la sua vera essenza. E il Droysen che prende posizione contro la concezione della storiografia come arte, vuole in realtà esorcizzare taluni spettri a lui non molto lontani.
Fatte le dovute distinzioni, il problema storiografico aveva toccato per motivi simili l’altrettanto frastagliato suolo italiano, e quando nel 1893 Croce diede fuori quella sua famosa memoria La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte, il clima era stato in parte riscaldato da uno scritto di Pasquale Villari, il quale sosteneva appunto la scientificità della storiografia, e si opponeva ad ogni accostamento all’arte. Croce, che in un primo momento ne aveva perorato la causa, prima che il testo andasse in stampa, lo mutò completamente, tanto da ribaltarne le conclusioni. Si trattò di un repentino, quando inaspettato, cambio di marcia[i], che pose al centro dell’attenzione europea, nuovamente, la questione della storia, e dall’altro lato risolse nel modo meno confacente allo spirito positivista che imperniava l’Italia.
La storia – scrisse nella Memoria – ha un solo scopo: narrare i fatti[ii] ”, ma proprio questa affermazione:

riapriva una questione che il dibattito ottocentesco aveva accantonato come priva di rilevanza teoretica e, anzi, come assolutamente deviante dalla direzione della ricerca della natura della conoscenza storica[iii].

Croce, che proprio nelle citazioni alla memoria mostra di conoscere bene il clima culturale tedesco in merito, non poteva ignorare che, innanzi tutto, questa sua concezione della storiografia contrastava con quella di Hegel, come ci appare, tra l’altro, nelle Lezioni sulla filosofia della storia[iv]. Qui Hegel passa “in rassegna le altre maniere [oltre quella filosofica] di trattare la storia”, distinguendone tre, e precisamente la narrazione originale, la materia di riflessione e la storia filosofica[v].
A proposito della prima, cioè quella storiografia forse più simile alla narrazione dei fatti di matrice crociana, Hegel rubrica i suoi illustri maestri – Erodoto, Tucidide, Guicciardini – e nota che:

essi descrivevano principalmente i fatti, gli avvenimenti e le circostanze dei quali erano stati testimoni, ai quali appartenevano per mentalità, e così trasferivano nel regno della rappresentazione spirituale quanto era accaduto nel mondo esterno. Il fenomeno esteriore viene così tradotto in una rappresentazione interiore
[vi].

Essi, dunque, non riflettono sulla storia, ma la rappresentano. Fanno “entrare in scena” persone e popoli, e pure questo ha il suo peso: anche quando Pericle non avesse davvero pronunciato il discorso che Tucidide gli attribuisce, quelle parole non dovevano essergli aliene per cultura e comune sentire.

Certo – continua Hegel – udiamo spesso dire che si è trattato soltanto di un discorso e così volerne quasi dimostrare l’innocenza. Discorsi di tal fatta sono pura e semplice chiacchiera e la chiacchiera ha l’unico vantaggio di essere innocente. Ma discorsi tenuti da un popolo a un altro, o diretti a popoli e a principi, sono parti costitutive della storia[vii]

Tuttavia, nonostante una certa nobiltà d’intenti, questo è il primo modo di fare storia, e se non è storia riflessiva, ma rappresentativa – diciamola così – per poco che si possa conoscere il sistema hegeliano, non ci vuole molto a farsi un’idea di quale considerazione la investa. “la filosofia della storia non significa altro che la considerazione pensante della storia”, perché siamo uomini, ci distinguiamo dalle bestie proprio perché esseri pensanti, e proprio perché esseri pensanti investiamo ogni cosa col nostro pensiero. Ma a questo metodo, così connaturato al nostro essere, viene rimproverato di alterare i rapporti con la storia:

Così, sentiamo dire, quando la filosofia si accosta alla storia con pensieri suoi propri, è per trattarla alla stregua di un materiale, per non lasciarla così com’è, bensì per darle un indirizzo secondo il pensiero, ossia, come suol dirsi, per costituirla a priori. Ne viene che il compito della filosofia sembra in contraddizione con l’attività della storia: questa ha solo da comprendere ciò che è e ciò che è stato, gli avvenimenti e i fatti, e la storia tanto più è vera quanto più è capace di attenersi ai dati[viii].

Hegel sente di dover “confutare questa contraddizione e il rimprovero che ne nasce contro la speculazione” e, dopo aver scritto le più belle parole che si possano mai leggere come elogio della ragione umana, chiarisce che il suo proposito non è già quello di non tenere in debito conto il “materiale storico”, ma che parole come “fedelmente” e “comprendere” sono ambigue. L’uomo può capire il mondo, intriso di ragione, solo col simile della ragione; questa corrispondenza è la chiave di ogni vera comprensione. Non è che non esistano i fatti bruti, ma sono appunto bruti, ci direbbe Hegel. Il problema è che, senza razionalità, essi non parlerebbero. Il fatto senza la ragione è un suono senza l’orecchio: esistente ma non significante.
Hegel, se mai fosse necessario, è più esplicito ritornando sull’argomento:

Anche lo storico comune e mediocre, il quale presume e pretende di comportarsi in maniera solo ricettiva, di affidarsi ai dati, non rimane passivo con il suo pensiero, bensì porta con sé le sue categorie e guarda al mondo esistente attraverso queste ultime. Specialmente in tutto ciò che dev’essere scientifico, la ragione non può dormire e ci si deve servire della riflessione. Chi guarda il mondo con gli occhi della ragione ne è ricambiato con lo stesso sguardo, l’uno e l’altra si determinano reciprocamente[ix].

Non è pedante citazione hegeliana questo indugiare su alcuni aspetti delle Lezioni, né una voluta marcazione delle differenze tra l’iniziale concezione crociana e quella del filosofo di Stoccarda, bensì un primo accenno alla matrice di talune idee, che saranno poi presenti in Croce, soprattutto quando dirà che i fatti-soggetti non possono essere disgiunti dai predicarti-concetti.
Ma Croce, colla sua memoria, non si attirava solo le critiche dell’hegelismo, ma anche quelle del positivismo che, partendo dall’iniziale progetto comtiano di filosofia come “fisica sociale”, aveva trovato nel pensiero di Hippolyte Taine una traduzione in termini storiografici. Che Comte non avesse poi molta dimestichezza con il Romanticismo e la cultura tedesca pare assodato, o almeno non quanto il Taine, che studiò appositamente il tedesco per leggere nel testo originale il “mostro” della dialettica hegeliana, e così criticarla. Il progetto storiografico non era assai difforme da quello, ben più ampio, perseguito in ogni aspetto della scienza: la “recherche des grandes causes”, delle cause cioè “universalles et permanentes”, e il “genere artistico indicava una maniera di conoscenza storica superata, perché inadeguata all’esigenza di spiegazione scientifica propria dello stadio positivo ormai raggiunto dalla cultura, secondo la teoria positivistica e, segnatamente, comtiana del progresso[x] ”.
Ovviamente, queste cause devono essere rintracciate grazie alla scienza, e dunque essere, oltre che generali, naturali:

Il programma della nuova storiografia positivista era in tal modo fissato. Essa non ammetterà altre cause che quelle naturali e dovrà mostrare che la serie di queste cause non si estende all’infinito, ma può essere ricondotta a pochi principi generali che governano e determinano gli avvenimenti. Queste cause generali, la cui azione può sempre esser dimostrata e che bastano a spiegare ogni esistenza e ogni divenire particolare, sono definite dal Taine nella triade: race, milieu, moment. Lo storico ha fatto abbastanza e ha assolto al suo compito scientifico quando è riuscito a mostrare l’influsso di questi tre fattori fondamentali in tutti i fenomeni che studia[xi].

Croce aveva letto Taine, e lo cita e lo critica lungamente nell’opera del 1917, Teoria e storia della storiografia. Ne rigetta la formazione, ma lo rispetta per l’entusiasmo che il filosofo francese mostra nei riguardi della scienza. Tuttavia, quello che preoccupa Croce è il determinismo: un’origine esterna alla storia dell’uomo è altrettanto pericolosa di un fine, soprattutto quando ormai nel filosofo italiano s’era fatto chiaro che la storia è storia della libertà. E allora, queste determinismo naturalistico che va di causa in causa non è poi tanto diverso da quello della filosofia della storia, che segue un filo esterno alle vicende umane. Non che un fatto non possa generarne un altro – non è questo che Croce obietta, bensì che vi sia un regresso all’infinito prodotto da una fede cieca in qualcosa – una legge, in questo caso – trascendente l’azione dell’uomo:

<>: questo è il modo nel quale concezione deterministica si raffigura il lavoro della storia. <>, per ripetere la comunissima formola nelle parole testuali di uno dei più immaginosi ed eloquenti teorici di quella scuola, del Taine. I fatti sono bruti, opachi, reali bensì, ma non rischiarati dal lume della scienza, non intellettualizzati; e questo carattere intelligibile deve essere conferito mercé la ricerca delle cause. Ma è anche notissimo che cosa accada nel legare un fatto a un altro come a causa di quello, componendo una catena di cause ed effetti: che si entra, cioè, in un regresso all’infinito, e non si riesce mai a trovare la causa o le cause, alle quali si possa in ultimo sospendere la catena che si è venuta industriosamente componendo
[xii].

Croce, anche dopo circa un ventennio, quando pubblicò La storia come pensiero e come azione, avrà sempre rispetto per “la nobiltà dell’uomo e l’assidua sua fatica”, ma che in fin dei conti non può sanare gli errori dovuti alla “tirannia di un idolo che egli chiamava la <> e che gli si atteggiava nella figura del metodo”. Taine, in quelle pagine[xiii], viene accusato da Croce di non essere mai stato “trasportato nei suoi lavori dal fresco afflato della verità”, di aver scritto di filosofia “discacciandosi sin dalle prime mosse, col gesto di chi scacci una mosca, del Kant e della sintesi a priori”, di Hegel e della sua dialettica ma in realtà non vi avrebbe capito molto.

In verità, piuttosto che alla storia del pensiero, della filosofia, della critica, della storiografia, il Taine appartiene a quella delle tendenze e mode culturali, come rappresentante spiccato del fanatismo per le scienze naturali, e in particolare per la medicina, che, dopo il 1850, riempì un buon quarantennio della vita europea, accompagnato dagli inani sforzi di riplasmare su quel modello tutta la cultura[xiv].

È un Croce, questo, assai critico, che oltre alle attenuanti generiche, non risparmia una stroncatura di tutto rispetto al positivista francese, ma vi è sotto, e non va dimenticato, anche una concezione delle scienze dure ben diversa da quella sottesa alle prime opere. Dalla memoria, per intenderci, al 1938 sono passati più di quarant’anni, e non invano: il sodalizio col Gentile, che non poco rilievo ebbe nel fargli maturare certe posizioni contrarie alla scienza; la deriva di quelle speranze coltivate proprio sulla base del progresso scientifico di fine secolo e naufragate nel macello della Grande Guerra, mentre altre nubi si ammassavano sul cielo europeo alla fine di quegli anni Trenta; l’accentuazione, sempre più marcata, della libertà del soggetto; e infine una certa lettura di Hegel, su proposta dell’allora giovane Gentile all’inizio del secolo, che doveva lasciare la propria impronta.
Ma vi era, in quella fine di XIX secolo, la possibilità, ancora, di trasformare in scienza la storia, senza per questo annientarne le peculiarità? Insomma, una criticità che tenesse conto dell’oggetto specifico trattato e che, conseguentemente, producesse un metodo adatto? È a queste domande che gli storici metodologi tedeschi rispondono affermativamente:

Per loro tramite il progetto di fondazione della storiografia assunse una connotazione nuova. Si trattava di una connotazione <>, che, non pregiudicata in direzione filosofistica né in direzione naturalistica, sanciva lo statuto di scientificità della disciplina storica in connessione alla regola del suo procedimento e sulla base dell’irriducibilità del suo oggetto, sottraendola, al contempo, alla soggezione della retorica e al dominio della bella letteratura[xv].

L’operazione era davvero difficile. Bisognava, innanzi tutto, lasciarsi alle spalle il mostro sacro Hegel, evitando di concedere troppo alla filosofia. Non solo, ma al contempo, pur trasformando in scienza – e vedremo che significhi ciò – la storia, non si doveva cadere nell’altro possibile errore, cioè di guardare troppo alle scienze fisiche e di negare all’oggetto storico quella sua caratteristica imprescindibile, che è l’essere prodotto di soggetti viventi, di esseri umani. In tutto questo, bisognava infine non scadere nell’erudizione, o fare della buona storiografia, ma con uno scopo, quello dell’edificazione morale e civile che era stato di von Ranke e di altri grandi storici tedeschi, che proprio scientifico non è, o almeno non della scienza storica.
Tuttavia, e di questo si rese conto subito Droysen, mettere insieme termini quali “scienza” e “storia” poteva sembrare un ossimoro, perché scienza è ogni disciplina che miri ad innalzarsi oltre il particolare per giungere all’universale. Per questo Aristotele credeva più nella poesia che nella storia: in fin dei conti, il poeta parte dal particolare dramma per giungere a rappresentare il dramma dell’essere umano, di ogni essere umano. La storia, invece, narra di fatti singoli accaduti a soggetti che, per quanto numerosi, sono sempre singoli. Arte e storia pare che, nella nostra civiltà, non siano mai andate troppo d’accordo, e Droysen, nel suo Sommario d’istorica, si lamentava del troppo, invece, frequente accostamento di storia e arte:

Non mancherebbe d’interesse indagare per quale intima ragione, fra tutte le scienze, alla Storia sola sia toccata la fortuna di dover essere ad un tempo anche arte; una fortuna che nemmeno la Filosofia, malgrado i dialoghi platonici, condivide con essa[xvi].

Droysen non scriveva “fortuna” se non con qualche punta d’ironia. Non solo questo accostamento rischiava di inficiare ogni tentativo di scientificità portato in senso alla storia, ma proprio il richiamo estetico poteva spingere a forme di bella letteratura vuote di rilevanza storiografica, se anche Croce, che in gioventù aveva scritto pagine bellissime sui teatri napoletani e sulle leggende della città partenopea, pur concedendo, ovviamente, che “è certo da augurare e da procurare che le opere di storia siano scritte in modo culto”, stimmatizzava il metodo di Paul Luois Courier, pronto a far vincere la battaglia di Farsaglia a Pompeo, purché questo desse l’opportunità di scrivere anche una sola bella frase[xvii].
Ma l’operazione dei metodologi tedeschi non era assai diversa da quella condotta dagli hegeliani, che a loro volta condividevano il medesimo obiettivo con i positivisti: mutatis mutandis, si doveva rendere la storia scienza, e cioè innalzarla dal culto del particolare all’universale. E questo, al di là delle peculiari posizioni che connotavano ciascun approccio.
In questo contesto si inserisce la memoria crociana del 1893, la quale, mentre tenta di coniugare arte e storia, deve allo stesso tempo far capire che non è un abbassamento del valore critico della storiografia, e che il suo valore conoscitivo non verrà intaccato. Pensare che ogni conoscenza sia scienza è un errore:

Alcuni - e dovrei dir molti – confondono la scienza con la conoscenza o col sapere in genere. Cosicché, per essi, qualunque proposizione esprimente una verità, è una proposizione scientifica[xviii].

La scienza “cerca sempre il generale, e lavora per concetti”. Infatti, “dove non c’è formazione di concetti, non c’è scienza”. E che è un concetto, se non un genere sotto cui viene sussulto il particolare? Infatti Croce, dopo aver citato Schopenhauer che, ne Il mondo come volontà e rappresentazione si era espresso in simili termini, mostrando anche come fosse contraddittorio attribuire alla storia carattere di scienza, afferma perentoriamente citando dall’opera Über die Ideen in der Geschichte di Lazarus:

La storia non tratta di fatti, avvenimenti, azioni e persone come tali; ma sempre di questo fatto, di questa persona, ecc. Alla scienza tale determinazione è perfettamente indifferente; perché essa cerca il generale, ossia quel ch’esiste in tutti i singoli oggetti. Insomma, in breve: da una parte abbiamo astrazioni logiche, dall’altra semplici processi di concentrazione psicologica; da una parte concetti generali, dall’altra rappresentazioni concrete concentrate, se pure non addirittura individuali; qui il singolo come esemplare astratto, là il singolo come individualità concreta; qui lo scopo della ricerca è la legge generale, là il processo individuale
[xix].

E, in modo deciso e con sue parole, afferma ancora:

O si fa della scienza, dunque, o si fa dell’arte. Sempre che si assume il particolare sotto il generale, si fa della scienza; sempre che si rappresenta il particolare come tale, si fa dell’arte[xx].

Restava, dei due poli, quello dell’arte. E a Droysen, che chiedeva ragioni della singolare “fortuna” della storia ad essere sempre associata all’arte, Croce rispondeva:

Ma, quando due parole son ravvicinate con frequenza, qualche ragione reale del ravvicinamento suol esserci, quasi sempre; quando una questione risorge con insistenza, per quanto sia posta male e confusamente, bisogna guardarsi dalle risposte facili che sembran troncare il nodo: in fondo alla questione mal posta, ci deve essere una difficoltà da scovrire, ch’è il vero motivo di essa. Ora, se la gente si è domandata, e si domanda tuttavia, se la storia sia scienza od arte, è una risposta che non risolve niente, è quasi una petitio principii il dire: che la storia, essendo una scienza, ha coll’arte i rapporti stessi che han tutte le scienze coll’arte. Se la domanda è sorta per la storia e non per le altre scienze, vuol dire, da una parte, che la storia non sembra una scienza come le altre; e dall’altra parte, che la connessione coll’arte appare maggiore e diversa di quella delle altre scienze coll’arte stessa; e su questi due punti importa fermarsi, e questi due punti chiarire[xxi].

Non è questo il luogo nel quale passare in rassegna tutte è quattro le possibili risposte – sensualista, razionalista, formalista e dell’idealismo concreto – rubricate da Croce alla domanda circa il Bello. Quello che è importante dire, e che Croce considera “una categoria speciale d’appercezione” del reale l’arte, che fa diventare bella tutta “la realtà naturale ed umana”, “perché è appercepita come realtà in generale, che si vuol vedere espressa completamente”. Vi è qui quella risposta dell’idealismo concreto, per cui “il bello vien considerato come espressione di una qualche cosa, che con terminologia hegelliana si chiama idea[xxii]”, ed è anche, in parte, una prefigurazione di quell’estetismo crociano scevro da ogni moralismo: infatti Croce cita De Sanctis, quando questi elogia la figura di Jago, “forma uscita dal più profondo della vita reale, così piena, così concreta, così in tutte le sue parti, in tutte le sue gradazioni finita, una delle più belle creature del mondo poetico[xxiii]”.
Dunque, l’arte è rappresentazione della realtà, nella quale la forma è tutt’uno col proprio contenuto: Jago – ma che cambia, a questo punto, se parliamo di fatti storici? – non può essere giudicato in base a criteri morali, giacché la rappresentazione, malvagia per quanto si voglia, è perfettamente confacente al contenuto che si voleva rappresentare. Egli è quale doveva essere.

Tenendoci fermi a questo concetto dell’arte, considerandola cioè come rappresentazione della realtà, è evidente che cadono la massima parte delle ragioni, per le quali molti negano, scandalizzati, che la storia sia una produzione artistica. Tale scandalo è pienamente giustificato, quando si parte da una delle tre teorie di Bello e sull’arte, che noi abbiamo scartate, ossia quando si creda o che l’arte abbia per iscopo 1°) di elaborare il piacevole dei sensi e della fantasia, ovvero 2°) di rappresentare il Vero e il Buono, ovvero 3°) di creare una somma di rapporti formali piacevoli. La storiografia ha fini inconciliabili coi tre sopradetti, o solo eccezionalmente e casualmente conciliabili. Ma non pare egualmente giustificato quando si ammetta la definizione sopraddetta: che l’arte è la rappresentazione della realtà. La storia non è forse anch’essa una rappresentazione della realtà?[xxiv]

Già. Ma è di un tipo affatto diverso dell’arte, anche se può comunque – e ciò va annoverato tra le migliori intuizioni di Croce – “esprimersi per mezzo delle arti figurative… e per tal rispetto rientrerebbe nella pittura (ritratto, pittura storica) e nella scultura (scultura monumentale ecc.)[xxv]”. È d’un tipo diverso, perché è “quel genere di produzione artistica che ha per oggetto della sua rappresentazione il realmente accaduto[xxvi]”, e come l’artista si prepara con molta attenzione l’oggetto della rappresentazione con “lavori preparatori” per “raggiungere la schiettezza e ad evitar il falso”, i lavori preparatori dello storico “si chiamano la ricerca, la critica, l’interpretazione, la comprensione storica”.
Dunque, la riduzione ha, intanto, valore teoretico, e non inficia il lavoro concreto del buon storico. Inoltre, proprio Croce che dedicherà le sue prime opere speculative all’estetica, considera l’arte e il lavoro dell’artista frutto di attento studio e di preparazione, e non certo di approssimazione e pochezza intellettiva.
Vi è però, nella memoria, anche un altro richiamo alla concezione storiografica futura dell’autore, e sarà bene descriverla con molta attenzione. Croce ci ha appena detto che la storia può essere ridotta – deve essere ridotta sotto il concetto generale di arte. Ora, però, si pone una domanda: “quale debba essere il contenuto dell’arte?[xxvii]”, perché un contenuto particolare deve pur esserci. E praticamente, l’artista come lo storico non dipingono mai tutta la realtà – il generale, appunto – ma sempre questa realtà, una particolare realtà. È qui che s’innesta il concetto dell’interessante:

Un estetico tedesco, Il Koestlin, il contenuto estetico è l’interessante; ciò che interessa l’uomo come uomo, così dal lato teoretico come dal lato pratico, così il pensiero come il sentimento e la volontà, ciò che conosciamo e ciò che non conosciamo, ciò che ci rallegra e ciò che ci rattrista, tutto il mondo insomma dell’interesse umano[xxviii].

Certo, ci sono diversi contenuti, diversi modi di indirizzare questo interesse, e qui sì che si va dal generale al particolare: “l’uomo come uomo”, e poi quelli che lo interessano in quanto appartenente ad una “razza, o nazione, o religione; poi, quelli che interessano l’uomo di una determinata classe, e giù giù, fino a ciò che interessa l’uomo solo in quanto individuo[xxix]. L’interessante è fondamentale, perché anche quando l’opera fosse “esteticamente perfetta”, ma per nulla interessante, “sarà di quelle che il giudizio del pubblico condanna sommariamente come fredde o noiose”. Lo stesso, dunque, vale per la storia che, “rispetto alle altre produzioni dell’arte, si occupa dello storicamente interessante; ossia non di ciò ch’è possibile, ma di ciò ch’è realmente accaduto[xxx]”, e con nota a piè di pagina, Croce cita il Labriola di I problemi della storia e Dell’insegnamento della storia.
È difficile, a questo punto, non vedere come, al di là della differenza di lessico utilizzato, la storiografia per Croce è un atto vitale, che nasce non già al tavolino dell’esperto, ma nello spirito dell’uomo – dell’uomo che realmente vivere, che ama, che soffre, che esperisce il suo rapporto col mondo. Croce non dirà più che la storia è arte, anzi. Ridurrà la filosofia a metodologia della storiografia, proprio a partire dal nuovo secolo. Però, quando si leggono le motivazioni del perché la storia sia sempre contemporanea, è difficile non pensare che, in fin dei conti, molto del primo Croce permane. Forse, permane proprio l’aspetto migliore.
In Teoria e storia della storiografia Croce continua a parlare di interesse, per giustificare lo studio storiografico. Cosa è la storia contemporanea? Innanzi tutto, è quella accademicamente intesa:

<> si suol chiamare la storia di un tratto di tempo, che si considera un vicinissimo passato[xxxi].

Ma non è il solo modo di intendere quell’espressione. Infatti, a rigore, “dovrebbe dirsi sola quella storia che nasce immediatamente sull’atto che si viene compiendo, come scienza dell’atto”[xxxii]. Ma ve ne è un’altra, che è sempre contemporanea a chi la vive non solo nell’atto di farla, ma anche di riappropriarsene di quella già fatta dall’umanità intera. Croce ci dice che gli amici – i compagni di viaggio non ce li sceglie l’anagrafe, ma lo spirito. Posso trovare sterile un discorso di un politico attuale, posso essere indifferente ad un evento che leggo sul giornale, ma sentire che nel discorso – per tornare all’esempio già utilizzato – di Pericle vi sono parole, che mi dicono più del caos che mi ronza attorno:

E se la storia contemporanea balza direttamente dalla vita, anche direttamente dalla vita sorge quella che si suol chiamare non contemporanea, perché è evidente che solo un interesse della vita presente ci può muovere a indagare un fatto passato; il quale, dunque, in quanto si unifica con un interesse della vita presente, non risponde a un interesse passato, ma presente[xxxiii].

La storia è legata alla vita in un nesso di unità e distinzione: i documenti sono i palpiti della storia-vita come l’interesse lo è della vita-storia. E proprio per questo, se viene meno un palpito – che è uno e, allo stesso tempo, non lo è – viene meno l’altro, e la storia non è più viva, ma morta. Un esempio può offrirlo la pittura greca: un insieme di nomi, come Apollodoro, Poligneto, Zeusi, Apelle, e di aneddoti, ma senza documenti, senza “fonti” dalle quali attingere un contenuto, il nostro interesse scema presto, e si dissolve come si dissolta è quella vita di cui non rimane traccia[xxxiv]. Ma non c’è solo la possibilità che la vita non ci sia, ma che si tenti di falsificarla: non si rischia solo di perdere documenti, ma che se ne trovino di falsi. La qual cosa, dice Croce, dà opportunità allo scettico di scusare la propria pigrizia[xxxv] – perché lo storiografo Croce lo sa bene, è solo con la critica, il lavoro, lo studio e il sacrificio che si supera l’impasse.

La critica ha acquistato tale acume ed esperienza in questa parte che può passare in gloriosa rassegna lo sterminio compiuto di folte schiere di falsificazioni, che l’assaltavano da ogni lato procurando di avvolgerla e di toglierle la vista del vero; e può quasi sorridere dei vani conati, armata come si sente dei suoi metodi infallibili
[xxxvi].

E fin qui la critica. Ma Croce pensa che anche la storia, che è sempre documento e pensiero, può sopportare un falso, perché ciò non falserebbe mai il pensiero. In fin dei conti, che cambiamento potrà mai apportare un sonetto inautentito nel numero di quelli autentici del Petrarca? E chi è, poi, il falsario per mutare la storia, il pensiero col quale l’umanità si riappropria dei suoi contenuti di senso nell’azione?

Se il documento vero e reale è l’opera stessa del passato, è mai possibile falsificare un’opera del passato? Per falsificarla, bisogna crearla; e il falsario è falsario e non è né poeta né pittore o altro artista, né istruttore di costume e di religione. Che cosa può egli fare, dunque, e che cosa fa in effetto? Lavora sul già creato, combina, simula, dà al suo manufatto la lustra di cosa nuova; ma il suo è lavoro inane. Potrà ingannare, come accade per gli oggetti artistici adornanti le case ed esposti nei musei, qualche collezionista, anche avveduto, sebbene per lo più inganni solo gl’inesperti o troppo candidi; ma non potrà mai aggiungere una nuova nota alla nostra anima e arricchire la nostra coscienza storicamente formata
[xxxvii].

Proprio qui si evince che la critica, anche di carattere filologico, sottintende un’ermeneutica storica – una precognizione storica che non può essere facilmente elusa, e nella quale la vita falsa ed inautentica non può far breccia. Lo spiega più avanti lo stesso Croce, quando propone l’esempio del tratterello rinascimentale – creato ad hoc – nel quale si formulerebbe già il “cogito ergo sum” che è di là da venire. Certo, la cosa creerà stupore e confusione, ma non potrà mai cangiare nulla al nostro pensiero, “giacché il <> e la sintesi a priori sono già da noi posseduti coi nomi di Cartesio e del Kant[xxxviii]”.
Al di là della discutibile storiografia filosofica, si può notare come la storia, per Croce, sia vita e nient’altro che vita. E se è la vita che, pulsando, genera i suoi afflati, che chiameremmo documenti, allora il respiro posteriore non sarà mai l’alito che impernia la vita precedente. Esso, alla fine, sarà pur sempre scoperto nella propria inautenticità, che può essere poco marcata – in fin dei conti, lo si è detto prima, il falsario non è poeta, non crea, ma ri-crea, o meglio ri-formula con materiale preso in prestito, ma allora la falsificazione sarà una mezza verità, o comunque niente che possa alterare quell’organismo. Ma anche quando il virus fosse di una qualche virulenza, tale da voler, nelle proprie intenzioni, alterare l’organismo, questi lo rigetterebbe – col tempo, magari, ma ineluttabilmente. Ormai, infatti, quel corpo è formato, ed è formato non già da materiale esterno, ma la propria forma è ciò che, a un tempo, lo forma e, formandolo, lo preserva. Non si capisce il passato, senza un “bisogno della vita pratica il quale non può soddisfarsi trapassando in azione se prima i fantasmi e i dubbi e le oscurità contro cui si dibatte, non siano fugati mercé della posizione e risoluzione di un problema teorico, che è quell’atto di pensiero”, ma quel presente da cui si genera il bisogno del passato è lo stesso presente in-formato dal passato del quale vuole riappropriarsi.
Ora sarebbero da aprire alcuni problemi, il primo fra tutti quello di pensiero ed azione. Distinzione e unità, dice Croce. Ma è chiaro che il pensiero fa luce all’azione nel presente, quanto quella del passato ha fatto luce al bisogno susseguente del presente. E resta da chiarire se poi, in fin dei conti, non sia il pensiero che, nell’azione passata, non si riappropri di quell’atto di pensiero che l’ha generata, portandoci infine a prendere posizione se- lo diciamo trivialmente – non sia nato prima l’uovo o la gallina. Qui, però, si entra nei problemi dello storicismo assoluto, e di quelli, altrettanto impervi, che divisero Croce e Gentile. Questo, pur tangendolo, non può essere oggetto del presente lavoro.
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NOTE

[i] Cfr. Raffaello Franchini, La teoria della storia di Benedetto Croce, Morano Editore, Napoli 1966, p. 35.
[ii] Benedetto Croce, La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte, a cura di Giuseppe Gambillo, Perna Edizioni, Messina 1993, cit. p. 17.
[iii] Francesca Rizzo Celona, Il concetto filosofico della storiografia. Il dibattito sulla storia in Italia tra ‘800 e ‘900, Giannini Editore, Napoli 1982, cit. p. 3.
[iv] Per una breve storia editoriale dell’opera cfr. G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, Laterza, Roma-Bari 2003, p. XL.
[v] G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, op. cit., p. 3.
[vi] Idem.
[vii] Ivi, cit., p. 4.
[viii] Ivi, p. 9.
[ix] Ivi, p. 11-12.
[x] Cfr. Francesca Rizzo Celona, op. cit., p. 9.
[xi] Ernst Cassirer, Storia della filosofia moderna, Einaudi, Torino 1963, vol. IV, p. 383.
[xii] Benedetto Croce, Teoria e storia della storiografia, Adelphi, Milano 2001, pp. 71-72.
[xiii] Cfr. Benedetto Croce, La Storia come pensiero e come azione, Laterza, Roma-bari 1963, pp. 173-179.
[xiv] Ivi, p. 175.
[xv] Francesca Rizzo Celona, op. cit., p. 17.
[xvi] J.G. Droysen, Istorica, Milano-Napoli, 1966, p. 429.
[xvii] Cfr. Benedetto Croce, La storia come pensiero e come azione, op. cit., p. 8.
[xviii] Benedetto Croce, La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte, op. cit., p. 15.
[xix] Ivi, p. 17.
[xx] Ivi, p. 22.
[xxi] Ivi, p. 4.
[xxii] Cfr. ivi, p. 10.
[xxiii] Cfr. ivi, p. 13.
[xxiv] Ivi, p. 14.
[xxv] Cfr. Ivi p. 27.
[xxvi] Cfr. ivi p. 34.
[xxvii] Cfr. ivi, p. 30.
[xxviii] Ivi, p. 31.
[xxix] Idem.
[xxx] Ivi, pp. 32-33.
[xxxi] Benedetto Croce, Teoria e storia della storiografia, op. cit., p. 13.
[xxxii] Idem.
[xxxiii] Ivi, p. 14.
[xxxiv] Cfr. ivi, pp. 17-18.
[xxxv] Cfr. Benedetto Croce, La storia come pensiero e come azione, op. cit., p. 101.
[xxxvi] Ivi, p. 103.
[xxxvii] Ivi, pp. 105-106.
[xxxviii] Ivi, pp. 106.

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