"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

26 marzo 2010

NON TUTTE LE PIAZZE SONO UGUALI

di Antonio G. Pesce- Con la manifestazione del Pdl di sabato 20 si è conclusa una stagione. Forse un’epoca, un intero secolo. Siamo arrivati alla fine di un percorso, senza che ce ne fossimo accorti. Chi scrive queste righe è la stessa persona che, con sincerità d’affetti, invitava a non scendere in piazza, a non dividere ancora gli italiani. Ed è la prima a dover recitare il mea culpa di hegeliana memoria: dare un senso, una ragione, una spiegazione alla Storia che ha marciato con passo assai più spedito delle elucubrazioni filosofiche e sociologiche. Un’intera classe di cittadini che vive a spese di un popolo, con la scusante di doverlo amministrare, dovrebbe temere però, e correre ai ripari. Sempre che la falla che si è aperta sia ancora richiudibile. Non è detto.

Certo, l’opposizione di piazza ha di che essere soddisfatta. Loro saranno stati quattro gatti. Ma non è stata una carica di dalmata quella della maggioranza. Finito il miracolo italiano dei milioni di posti di lavoro, e appannato quello della ricostruzione abruzzese – ne vogliamo parlare, però, dei cambiamenti mitologici nella comunicazione politica del Pdl? Davvero non deve indurre a riflettere che il lavoro è stato sostituito dal terremoto? – non restava che quello del consenso. Ora, centocinquantamila persone, anche se vi togliamo quelli “in affitto” pagati per sventolare bandiere, sono comunque una cospicua folla. Ma Denis Verdini, coordinatore nazionale, deve aver tentato un ultimo, disperato atto di autoconvincimento per riempire, dai microfoni del palco, di un milioni di manifestanti una piazza sostanzialmente vuota. È il primo che salterà, anche perché tra i più implicati negli scandali circa gli appalti pubblici.

Inoltre, Berlusconi non ha moltiplicato né pani né pesci – nonostante abbia promesso di sconfiggere il cancro-, e ha sfamato la scarsa folla dei suoi adepti con una minestrina riscaldata. Non tutti questi venti anni di politica sono stati contrassegnati da un suo governo, ma dieci anni bastano ai francesi, ai tedeschi, agli inglesi e agli statunitensi per decretare la fine di un’esperienza politica. Qui, a sentire il presidente del consiglio, si sta iniziando ora. Perché si sono risentiti i toni del 1994, si è tornati a parlare di ‹‹rivoluzione liberale›› e perfino di profonde riforme istituzionali. Ma allora negli ultimi dieci anni che si è fatto? E se non sono bastati dieci anni, perché illudersi che ne basteranno solo altri tre? ‹‹Congiunture internazionali hanno impedito un sereno svolgimento del programma››. Ma se non si cambia quando tutte le carte, nazionali e internazionali, si rimescolano – si devono rimescolare, quando sarebbe opportuno farlo allora? E De Gasperi, del quale si è preteso di essere migliore, ha governato questa nazionale in un’epoca più facile dell’attuale? E i grandi statisti si vedono nell’ordinaria amministrazione o nella straordinaria? E la politica è la pianificazione a tavolino della vita o la capacità di affrontare a muso duro la Storia?

Pensavamo essere saliti su un carrozza. Ci siamo sbagliati: è un calesse. Come tanti, per carità. Come tutti, forse. Ma nulla di eccezionale. E dunque nulla per cui valga la pena combattere, scendere in piazza, andare allo scontro istituzionale.

Tuttavia, a guadare così le cose, nella loro particolarità, c’è chi si illude che stia crollando solo il sistema di potere berlusconiano. C’è chi si sfrega le mani, preparandosi a sostituirlo. Morto Sansone, i filistei credono di farla franca. Eppure le cose sono assai più complesse. Bene o male che sia, un modo di fare politica, di intendere la politica è andato al macero. Neppure la “liquidità” nell’intendere il partito si mostra adeguata all’attuale condizione della società. Per gli Stati Uniti non sarà una novità, ma per l’Europa lo è. Come abbiamo inteso, noi europei, la politica? È stata intesa come una continua identificazione – identificazione di Patria e Nazione, e la Nazione identificata con lo Stato; lo Stato, poi, lo abbiamo inteso identificabile con la formazione e l’azione dei partiti. Il partito, così come lo intendiamo in Europa, è un ideale strutturato secondo dinamiche gerarchiche e secondo prassi consolidate. Nascono movimenti, e alla fine la cordata diventa una segreteria, con annessi e connessi domini di forze e di correnti.

Questo modo di intendere la politica è venuto meno. Il partito non è più, insieme alla piazza e all’oratorio, una forma di socializzazione, di interazione culturale. Il partito è la cristallizzazione dei rapporti di forza tra due o più tentativi di dominio. Che, data la scarsità della contropartita dell’impegno profuso da ciascun militante – non più la conquista dell’avvenire, ma un posto, una raccomandazione, un appalto nel più prosaico presente, incomincia a lasciare fuori sempre più ampi brani del tessuto sociale.

Mentre la politica dei partiti concludeva la sua settimana di contrapposizione, la politica della nazione – quella del comun sentire – si riuniva sotto le bandiere di “Libera”, l’associazione di don Ciotti contro tutte le mafie. Gente lontana dalle piazzate, ma vicina all’ agorà, alla piazza nel suo senso più nobile – al foro, all’impegno. Una società civile – diremmo- che si fa nazione perché sente all’unisono la propria partecipazione a un tessuto ideale -fatto di valori, di credenze, di strutture culturali – che né i partiti, né tanto meno le intellighenzie giornalistiche, riescono più a conciare.

E allora, noi che temevamo chi sa che cosa da questa settimana – anche noi dobbiamo ricrederci: l’Italia non si è divisa. Si è soltanto ritrovata sotto un’altra bandiera.


Pubblicato su www.cataniapolitica.it il 21 marzo 2010.

20 marzo 2010

LA GENERAZIONE ITALIA DI FINI: NUOVO MODELLO COLLEZIONE PDL

di Antonio G. Pesce- Siamo passati dalla lotta continua al continuo riciclaggio. Di personaggi e di idee, però, non di capitali, perché per questi basta già lo scudo fiscale varato dal governo qualche mese fa. È l’epoca della politica pret-a-porter, che si indossa per fare bella figura con i compaesani il dì di festa, e riporre a casa nell’armadio, quando non servirà più, a marcire con le tarme.

Adesso la nostra sfilata nazionale si arricchisce di una nuova collezione. I Dolce-Gabbana questa volta sono Gianfranco Fini e Italo Bocchino, oscuri tessitori di una tela – il movimento Generazione Italia – con la quale, a detta dei due, si dovrebbe arricchire il guardaroba del centrodestra. Ora, visto i modi carbonari con i quali il gatto e la volpe – mica tanto! – si sono messi a tramare (nel senso manifatturiero del termine), fossimo in Berlusconi faremmo i dovuti scongiuri: quando i figli si mettevano d’accordo, alle spalle del padre, per comprargli un vestito, solitamente era quello da morto. E perfino il loculo era già stato acquistato – perfino la lapide era stata già incisa con nome e cognome: mancava la data di morte. E il morto. O Berlusconi o il Pdl, in questo caso. O un nuovo capo, che guidi verso il sole dell’avvenire – e vedremo poi quanto più splendente di quello che, ormai, pare definitivamente calante – o un nuovo carro vincente sul quale saltare sopra. E vedremo quante orde di barbari pronte a seguirlo.

Per intanto, siamo all’ennesimo cambio di cravatta, che non sempre Fini ha saputo scegliere con buongusto– l’ultima sfoggiata, un pallido rosa su giacca grigia, è tutto un dire. Però, ce lo ricordiamo in camicia nera da rifondaiuolo fascista, alla fine degli anni ’80. Aveva 38 anni, ed era abbastanza grandicello per un sereno esame di coscienza. Che non fece mai, prima di sedere sugli alti scanni. Pino Tatarella e Domenico Fisichella, poi, gli offrirono il cavallo di razza su cui montare come il Napoleone di David, e lui non impiegò molto tempo per trasformare An in una sartoria prussiana di primo Ottocento: nessuno lo ricorda mellifluo stilista decadente come oggi, ma concreto e sbrigativo sarto di divise militari con annessi gradi, come quelli da colonnello dati ai suoi subalterni. E guai a fiatare! Gasparri e La Russa lo sanno bene, perché passarono un brutto quarto d’ora, quando un cronista riportò certe loro frasi pronunciate davanti ad una tazzina di caffè. E non stupisce che ora i due siano più vicino a re Silvio che al vecchio camerata: segno, questo, che il Cavaliere non è più cattivo di chi vorrebbe mandarlo in pensione.

Un cambio continuo da primadonna, passando dalla tinta nera del partito neofascista al salmone esangue di un liberalismo antifascista di comodo. Dal bianco della tunichetta di chierichetto degli anni novanta, tutto Stato e Chiesa, al rosso vivido del mangiapreti demodè delle ultime uscite. Tutto questo, combinando bene gli accessori più à la page: dal berretto di guardia costiera in stile Bossi-Fini, a quello da crocerossina per l’accoglienza e la tolleranza.

Quante svolte del predellino ci stanno? Quante occasioni di dialogo, negli anni, non ci sono state? E allora si capisce che il problema non è il taglio dell’abito né il colore, e forse neppure il modello, perché, alla fine della fiera, con qualche promessa di maggiore ‹‹collegialità››, Fini ha accettato di tutto, perfino il processo breve. Il problema sta nel palco, nella passerella. Che manca. E manca perché non c’è nessun’altra contropartita. Gli italiani non abbiamo il culto delle istituzioni ma degli uomini. E fino ad oggi, è stato Berlusconi a seppellire Fini (e non viceversa), in quella tomba del protagonismo politichese che è la presidenza di uno dei due rami del parlamento. Qui, in Italia, o presidente della Repubblica o presidente del consiglio. E data l’età, c’è poco da lambiccarsi il cervello.

Ci poteva essere un’altra contropartita. Avere, cioè, un compito, un dovere, e a quello restare fedeli. Ci sono milioni di italiani che non sentono parlare più di Dio-Patria-Famiglia, se non nelle canzoncine di Sanremo. C’è una nazione, l’Italia, che aspetta grandi riforme meritocratiche e antiburocratiche. C’è un popolo che vuole tornare a pensarsi come tale. Ecco il dovere. E vivere per un dovere significa avere grandi meriti storici. Passi che non poteva rifarsi a Cicerone o a Gentile: non c’è da salvare la Repubblica né fare gli italiani. Ma Fini lì, al supremo comando della destra, c’era stato messo da Almirante. Un piccolo compito da assolvere sulla scorta di un grande esempio fatto in casa. Non era dunque così difficile.


Pubblicato su www.cataniapolitica.it del 18 marzo 2010

PENSIERO LIV


Ci vuole molto orecchio - lo si chiami verità, lo si chiami libertà - per non intrupprarsi al suono delle marcette dei tempi.

16 marzo 2010

PENSIERO LIII

L'umiltà è ciò che, in fondo, distingue una mente profonda da una semplicemente confusa.

14 marzo 2010

IN PIAZZA SENZA NUMERI E IDEE

di Antonio G. Pesce- Ci sono molte opinioni su come siamo messi. Ma non c’è da credere molto bene, se l’unico commento azzeccato sulla manifestazione “viola” di ieri l’ha fatta l’on. Calderoli. Secondo il quale l’opposizione manifesta e non sa neppure il perché. ‹‹Forse perché non hanno altri argomenti da proporre in campagna elettorale››, ha aggiunto. E mentre la piazza di sinistra miagola, i candidati presidenti della Lega fanno proseliti dal web ai paesini. Mobilitando una vasta rete di idee e di valori – pensiamo a Cota e ai suoi impegni in difesa della vita – che alla fine potrebbe ambire a molto più che ad un’ottima affermazioni in regioni date per blindate all’opposizione.

Il raduno del mondo antiberlusconiano è stato un fallimento. Non c’era nemmeno la somma algebrica dei dirigenti dei partiti aderenti. Venticinque mila presenze sono davvero pochine, soprattutto per una democrazia plebiscitaria come la nostra, nella quale ormai si contano solo le teste, a prescindere dalla qualità delle teste medesime. Il giovane criceto che hanno fatto giocherellare ventiquattrore su ventiquattro davanti a decine di telecamere, chiuso in una casa con altrettanti animaletti per compagnia, ha avuto più telespettatori, che partecipanti la novella resistenza di allarmati supereroi in lutto perenne per la nostra democrazia.

E poi, l’emaciata e angustiata compagine ha destato ricordi davvero poco preoccupanti: chi non rammenta i pasticci, le diatribe quando quella stessa accozzaglia di partitelli che vuole difenderci dal lupo cattivo era al governo della nazione? Se è questa unione l’asso nella manica per battere Berlusconi e quello che rimane del Pdl, allora era meglio calarlo dopo le elezioni. Chi vede carte del genere, si alza dal tavolo prima ancora di sedervisi.

Il risultato è quello che, in poche parole, ha descritto Casini: un regalo ad un governo, che ancora non si è mosso dai blocchi di partenza di due anni fa. E – quel che è peggio – neppure il paese che gli è stato affidato. Il regalo ad una maggioranza, che può ora ergersi a garante dell’onorabilità del presidente della Repubblica, solo perché ha trovato tra i piazzaioli chi l’offende più di quanto abbia fatto essa stessa. Il presidente del consiglio si è limitato a dire quello che era sotto gli occhi di tutti, e cioè che tra lui e Napolitano c’è profonda ‹‹differenza di vedute››. Antonio Di Pietro ne ha chiesto, addirittura, la messa in stato d’accusa.

Bersani è persona seria. L’unico a dire che questa nazione la democrazia ce l’ha, ma rischia di non aver più né la voglia né i soldi per permettersela. Ai comunisti di una volta si possono rimproverare tante cose, ma non di non saper come si faccia politica. Parlare allo stomaco della gente, della disoccupazione che non si arresta e del futuro che non c’è: il resto – Bersani lo sa benissimo – verrà col tempo. Il problema, però, è che il segretario del Pd non ha spazio di manovra: da quelle parti si vive alla giornata, e chi vive senza progetti ha bisogno di far cassa subito. Già dalle prossime elezioni regionali. Non esserci avrebbe significato settimane di polemiche. Esserci stato potrebbe significare altri mesi di opposizione grigia. Perché solo chi governa ha tutto l’interesse a che il rumore della strada copra il silenzio ozioso delle alte stanze.

Paradossale momento questo per l’Italia, durante il quale a far attenzione alle parole deve essere proprio chi, storicamente, ne ha sprecate di più.


Pubblicato su www.cataniapolitica.it il 14 marzo 2010.

13 marzo 2010

L'INTELLIGENZA "RAZZIALE" DEL POSITIVISMO BECERO

di Antonio G. Pesce- Un preambolo. All’inizio del secolo scorso due giovani intellettuali italiani, Benedetto Croce e Giovanni Gentile, iniziarono la loro battaglia contro la corrente filosofica del positivismo, che voleva –nelle sue puntate più estreme – la scienza capace di dare ogni risposta, di arrivare ad ogni spiegazione, di essere, insomma, un valore in sé. I due – entrambi meridionali (e si capirà più avanti perché è bene sottolineare ciò) – dicevano qualcosa di diverso. La scienza ha valore, per carità, ma ce l’ha perché c’è un uomo, dietro ogni ricerca, che sa porsi le giuste domande, darsi le corrette risposte, proseguire con acume: insomma, i dati da soli non parlano, vanno interpretati. I dati dello scienziato, sia chiaro, come i fatti del cronista o del pubblico ministero. Venuta meno la fiducia nella filosofia perché non ti dà un posto di lavoro, e quando te lo dà ci guadagni poco (come allora vivere senza crociere, Suv, gioielli e pellicce? che vita vuota sarebbe!) – ecco che la scienza finisce per guidare i popoli. Solo che, a volte, sembra un tantino ubriaca, e finisce per avere sbandate pericolose.

Come se i nostri non bastassero, l’Italia che è, come tutti ben sanno, l’ultima provincia d’Europa, importa ormai i rimasugli culturali, che nelle altrui patrie non riescono più ad avere un minimo di considerazione. Ultimamente, abbiamo dato la parola ad un signore che, in vena di scientismo ottocentesco alla Lombroso (uno di quei positivisti che credeva di capire l’animo umano dalle fattezze fisiche), ci ha fatto sapere che nel sud Italia siamo mediamente scemi e al nord mediamente intelligenti. Si chiama Richiard Lynn, è uno psicologo inglese dell’università dello Ulster, ed essendo in pensione, e non dovendo quindi più fare carriera, si diletta a scrivere corbellerie sull’intelligenza umana. In un suo articolo dal titolo “In Italy, north–south differences in IQ predict differences in income, education, infant mortality, stature, and literacy”, e in ulteriori approfondimenti di stampa, sostiene che al sud siamo meno intelligenti che al nord, perché da noi sono arrivate popolazioni dall’Africa e dal medio oriente, e in Friuli le popolazioni tedesche. “E si sa – ha affermato – che i tedeschi sono persone intelligenti”.

Ora, due tipi di considerazioni si pongono. Il primo tipo è quello meramente scientifico. Chi legge il paragrafo 2 dell’articoletto, si rende conto che il signore in questione non ha condotto alcuna ricerca: si è limitato a porre in relazione – a suo modo- dati provenienti da altre indagini. A quasi ottant’anni – Lynn è del 1930 – non si ha tempo né, tanto meno, forze per impegnarsi nella ricerca (quella vera). Nel folclore sì. Quanto, poi, sia scientificamente corretto mettere in correlazioni dati così disparati, potrà dirlo il lettore: Lynn passa da quelli sul reddito procapite a quelli sulla mortalità infantile; da quelli di Pisa (2006) sulla comprensione di testi ed abilità matematiche a quelli sulla statura (sic!) delle persone.

Non stupisce, allora, che il presidente dell’Associazione Italiana di Psicologia, Roberto Cubelli, tra le altre cose abbia messo in evidenza come nell’articolo si possano individuare ‹‹limiti teorici, metodologici e psicometrici (inadeguatezza degli strumenti di misura, arbitrarietà della procedura di analisi, mancata definizione di intelligenza), attualmente in discussione presso la comunità scientifica››. Non è la prima volta che capita, che la scienza sia la giustificazione a posteriore dell’ideologia: pensiamo a quando si scoprì che gli ‹‹ebrei›› erano una razza inferiore, o i ‹‹negri›› d’America meno intelligenti dei bianchi. Poi, guarda caso, dopo Auschwitz e J.F. Kennedy, non se n’è sentito parlare più. E le teorie razziali fecero la stessa fine che avrebbero fatto, qualche decennio dopo, quelle sul Quoziente Intellettivo (QI): furono ritenute spazzatura (nel migliore dei casi. Al peggiore, per pudore, non accenno).

Ma allora – e qui veniamo al secondo tipo di considerazione, quello socio-culturale – perché dare spazio a un tizio, che asserisce quello che poi noi, nelle aule di scuola, in 27 gennaio o in chi sa in quale altra ricorrenza, neghiamo con tutta forza? I giornalisti sono ancora capaci di leggere (criticamente) i “fatti” di cui parlano? Credeva il Corriere – il primo giornale a dare enfasi alla cosa – si trattasse di un gioco di abilità logica, come quelli che si possono trovare proprio sulle sue pagine? E infine chiediamoci se a via Solferino avessero dato pubblicità alle stesse tesi, ma vittime del dileggio fossero stati ebrei, zingari, omosessuali, ecc. (quelli finiti gasati, per intenderci), cosa si sarebbe detto nel mondo della cultura patinata! Quanta retorica sarebbe piovuta dai cieli alti della moralità d’occasione!

E pensare che tutto questo accade dopo che, ormai, l’informazione non fa altro che polarizzare l’Italia: dalla spesa corrente alle classi dirigenti, qualcuno ci tiene sempre a far notare le differenze tra Nord e Sud, piuttosto che i punti d’unione (uno fra tutti: lo sfascio dello Stato). E ad un anno dal 150° anniversario dell’Unità nazionale, durante i cui festeggiamenti non ci si farà pudore a dare enfasi alla fanfara risorgimentale dei discorsi d'ufficio.

La verità è che l’Italia è un paese senza più un’anima. L’Italia è una nazione senza più un progetto. Andiamo alla deriva, e manco ce ne accorgiamo. Ogni opinione, anche la più idiota, purché parli una lingua diversa dalla nostra, nel nostro provinciale mondo diventa vangelo. Dove vogliamo andare, allora? L’unica remora che si deve avere nel dirsi vicini al baratro è quella di poter sembrare un po’ troppo ottimisti.


Pubblicato su www.cataniapolitica.it del 13 marzo 2010, col titolo: "Per la scienza: i cretini al sud, glin intelligenti al nord".

11 marzo 2010

CHI SCENDE IN PIAZZA TRADISCE L’ITALIA

di Antonio G. Pesce- Non muoversi. Non tradire. Perché c’è un momento, nella storia di un popolo, in cui muoversi, non tenere il posto, è tradimento. L’Italia sarà tradita, nelle prossime settimane, da una pletora di clientele, che da anni le succhiano il sangue. Il sangue sparso sul Carso, sull’Isonzo. Il sangue sparso ad El Alamein, e al confine Est. Sparso per un’idea d’Italia che, giusta o sbagliata, non era la piccola borghese idea della conquista del potere.

L’Italia tradita da due opposte fazioni, l’una in marcia contro l’altra, che dilanieranno quel poco di concordia nazionale che la guerra fratricida di mezzo secolo fa non era riuscita a scalfire. Due settimane consecutive, e un popolo smette di essere tale.

L’Italia – la Patria. Lo si dica pure: Patria. Ora che è venuto allo scoperto a cosa è servito un dopoguerra fatto di minimalismo democratico, durante il quale dirsi fieri di questa storia nazionale equivaleva a un sopruso. Ora, che capiamo quanta retorica canaglia ci sia dietro un popolo che si vuole disunito in tutto – per tradizione e per lingua – ma unito dalla scheda elettorale con la quale ingrassare ‹‹i maiali della fattoria››.

Starsene a casa. Chi scende in piazza tradisce l’Italia. Perché quella che scenderà in piazza, quale che sia il colore col quale agghinderà il collo, è un’Italia falsa. È l’Italia che si divide. È l’Italia che si odia. E per che cosa? Perché non rimangano senza deretani quattro seggiole di velluto. Ma l’Italia che spera, l’Italia che lavora, l’Italia che si è fatta onore in questi anni nelle miniere di Marsinelle, nella fabbriche della Germania, nei centri di ricerca d’America, non conosce l’agio del velluto. Non conosce la rabbia dello sproloquio. Conosce il sacrificio, la fierezza di una cultura che, anche senza decoro e danaro, resta il vero marchio di secoli di civiltà.

Non muoversi. Perché non si sarà completamente padroni delle proprie azioni. Perché non si sarà padroni degli scopi che muovono la piazza. Domani ci si potrebbe pentire di ‹‹esserci stati››. Domani i figli potrebbero additare come colpa ciò che oggi i padri mostrerebbero come vanto. Domani, quando la vecchia Italia avrà distrutto la vera Italia – l’Italia vera che, unita, non vuole più dividersi – anche l’ingenuità o la scarsa lungimiranza saranno passate per abominio.

Restare a casa, con la fede di essere pronti per la libertà in Italia a fare ben altro che folclore rancoroso contro un proprio compatriota; con la certezza che la coscienza morale non è mai stata appannata dalle lusinghe del potere, né di aver scambiato il rispetto per la legge con i favori dell’accomodamento salottiero dei faccendieri.

Ci sono stati italiani di cui andranno fiere molte più generazioni di quelle già trascorse dal loro esempio. Eppure non li vedo prendere la parola e sentirsi degni di decidere le sorti di un popolo. Ci sono stati italiani che hanno dato la loro vita per questa terra, e per la libertà di cui tanto ci si fa vanto nelle sterili polemiche politiche. Ma non ne vedo uno tra chi reclama per sé l’onore d’un padre della patria. Ci sono stati italiani che hanno portato sulle spalle il fardello di altri fallimenti generazionali; che hanno saputo riparare il passato e far navigare lontano dalle secche il presente. Ma non ne vedo uno tra questi che oggi, con la sicumera di attori consumati del circo mediatico, impongono la strada per il futuro.

Noi italiani siamo gente umile. I nostri nonni sono cresciuti nei campi, i nostri padri nelle officine. A noi, giovani trentenni con la speranza come bisaccia e come sandali i nostri valori, è toccata l’aula di scuola. Ci hanno tolto tutto. Facciamo in modo, almeno, che i nostri figli non crescano in strada.


Pubblicato su www.cataniapolitica.it l'11 marzo 2010.

SCUOLA: LA LEGA NORD CONTRO I DOCENTI DEL SUD

di Antonio G. Pesce- Via i “terroni” dalle scuole. Nell’estate del 2008 Bossi lanciò i suoi strali contro i meridionali che insegnano al Nord perché rei -a suo dire- di togliere posti di lavoro alla gente del luogo, e chiese la regionalizzazione delle assunzioni. Qualcuno, allora, malignò che si trattasse di uno sfogo per l’ennesima bocciatura del figlio Renzo, oggi candidato per la Lega a consigliere regionale in Lombardia, ma per tre volte respinto alla maturità. Tuttavia, l’invettiva trovò eco nel ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, che subito si dichiarò favorevole a discutere forme di assunzione che legassero di più il docente al territorio, motivando la propria posizione però con la più “politicamente corretta” intenzione di assicurare agli studenti la continuità didattica necessaria per una carriera scolastica proficua.
Posizione, quella della Gelmini, forse assunta per compiacenza verso il collega che non per propria incompetenza sull’argomento: sta di fatto che ad appena un anno da quella polemica la signora ministro è stata smentita dalla Fondazione Agnelli. Una ricerca finanziata dall’ente privato torinese ha dimostrato che le richieste di trasferimento dal Nord al Sud del Paese sono appena il 2,5 % del totale, e solo lo 0,6 viene accettato. Il resto, trattandosi di richieste di spostamenti da una provincia all’altra, è possibile sia dovuto a docenti che vorrebbero avvicinarsi a casa.
Sembrava, dunque, che i dati raccolti da un ente per nulla statalista, avessero posto fine a una polemica francamente poco degna della tradizione culturale italiana, e dei dibattiti sul mondo dell’istruzione che investono le altre nazioni europee e no. Eppure, al sole della campagna elettorale ci si riscalda facilmente, non solo in estate. E così nel Veneto dove la Lega Nord si appresterebbe a fare il botto alla prossime regionali, si ripropone l’annosa questione. Con una interrogazione presentata il 21 gennaio 2010 a firma dei consiglieri regionali Ciambetti e Meggiolaro, si chiede alla giunta se non ritenga di doversi impegnare per chiedere al ministro la regionalizzazione delle assunzioni. A far scatenare l’ira dei due leghisti è stata la notizia, appresa da organi di stampa, dell’assenza al rientro dalle ferie di 18 insegnanti e 5 bidelli negli istituti scolastici di Montecchio Maggiore (VI), assenza motivata con malattia.
Nell'interrogazione, tuttavia, non si specificava l’origine etnica del personale assente. Più precisione, invece, si riscontra nell’interpellanza n. 97, presentata il 22 febbraio dal solo Ciambetti che, urtato dalle assenze per malattia all’indomani delle ‹‹feste carnevalesche››, assicura che si trattava di docenti ‹‹residenti nel mezzogiorno ma con cattedra nel vicentino››.
La giunta, per ora, non ha risposto, anche perché in quei mesti si è discusso su chi avesse dovuto essere il candidato del centrodestra alle regionali di marzo. Scelta caduta, come è noto, sul legista Zaia, ora ministro delle politiche agricole.
Il problema è, obiettivamente, assai serio. Nella scuola italiana si registra un calo della professionalità del corpo docente, che difficilmente potrà essere sanato con i tagli voluti dal governo nel quale la Lega Nord pare essere, ormai, l’asso pigliatutto. Degrado che, chi lo vive e lo combatte, garantisce non potersi “regionalizzare”. Ma resta l’amaro in bocca per una vicenda così seria, affrontata in modo così affrettato e propagandistico: mentre gli altri paesi europei investono risorse economiche ingenti per attrarre intellettuali, scienziati, tecnici da tutto il mondo, l’Italia non solo non è capace di attrarre “cervelli” stranieri, ma non sa neppure trattenere i propri. E, ora, pare voler mettere a quelli che rimangono il bollino di provenienza, come per le banane, le caciotte e i salumi.


Pubblicato su www.cataniapolitica.it il 9 marzo 2010

6 marzo 2010

DECRETO INTERPRETATIVO. OVVERO, VIVA IL “MADE IN ITALY”


Pubblicato su www.cataniapolitica.it il 6 marzo 2010

di Antonio Giovanni Pesce- L’italica smania di arzigogoli linguistici ci ha salvato per l’ennesima volta. Magari non la faccia – che, del resto, abbiamo perso già da anni – ma almeno da quella che si paventava come un’insorgenza di democratici in Mercedes e doppiopetto. Nella terra dell’Azzeccagarbugli sarà presto emanato un decreto, col quale si spera vengano ripescate le liste del maggior partito italiano, estromesso perché sembra non abbia trovato di meglio, tra milioni di cittadini che gli affidano il futuro, che un affamato e un migliaio di analfabeti per presentare quattro foglietti agli uffici elettorali competenti. Alla fine, tra tarallucci, vino e notti bianche, il presidente della Repubblica ha firmato una leggina che è meno peggio – dobbiamo dirlo – di quella che si prospettava. Segno evidente che, quando si vuole, si sa fare bene e velocemente. Solo che il bene non sempre è quello sommo per una nazione, quello comune, e la celerità è quella di chi vuole aiutare se stesso più che gli altri.

Il decreto denominato ‹‹interpretativo››, un altro vanto per l’estrosa fantasia del nostro made in Italy, non cambierà le normative vigenti, e spetterà comunque alla magistratura decidere sui ricorsi presentati nel Lazio e in Lombardia. Il presidente Napolitano, per il quale Antonio Di Pietro ha paventato la ‹‹messa in stato d’accusa›› per tradimento della costituzione, si è mostrato sicuramente il più lucido, davanti ad una situazione che non mostrava alternative. Perché non c’erano alternative, se non quella – neppure pensabile – che il PDL accettasse di far semplicemente ricorso nei vari gradi di giudizio. Impensabile, perché che qualcosa non sia andata come avrebbe dovuto, è parso subito chiaro anche ai quadri dirigenti più inclini al complottismo: l’inghippo, se c’è stato, s’è verificato dentro il proprio spogliatoio tra panchinari che sgomitano per un posto da titolare, o ad opera di giocatori che vogliono uno spazio maggiore di quello che hanno con l’attuale allenatore.

Il rischio era una esasperazione del già focoso quadro politico, e Napolitano non se l’è sentita di tirarsi indietro: vuoi che ci scappasse una mezza rivoluzione per questioni di poltrone, quando c’è un intero paese roso dalla galoppante disoccupazione! E poi per cosa? Per qualche formalità! Suvvia, il nostro è un paese che ha perso da anni il senso del buongusto, pubblicizzando calzette con l’inno nazionale, quattrini con la musica classica, mentine per l’alito con flatulenze animali; un paese che chiama libertà di pensiero la bestemmia, realtà le miserie umane, schiettezza il turpiloquio, e avremmo dovuto escludere quello che è, di fatto, il primo partito italiano, per un paio di firme scarabocchiate e le mancate presenze per repentini cali di zuccheri? Semmai, è da notare che il presidente ha firmato un decreto che ha effetti ben diversi da quello che non firmò, quando si trattò di sospendere l’applicazione del ‹‹protocollo› che avrebbe da lì a qualche giorno portato alla morte la giovane Eluana Englaro. E dire che in questo caso una legislazione ed una giurisprudenza chiare sono veramente mancanti nel nostro diritto, e che l’atto governativo non annullava la sentenza, ma ne bloccava l’esecuzione, aspettando che il parlamento si esprimesse in materia. Tuttavia, non possiamo chiedere ad uno di noi, per quanto nobile sia la sua funzione, di aver quel coraggio che nessuno avrebbe, in uno Stato dove la poltrona è vita, e molti ci campano e ci fanno campare. In base ai punti di vista, anche questo affare di mancate candidature è questione di vita o di morte.

Una soluzione andava trovata, dunque. Anche perché non si vede quale vantaggio ne sarebbe venuto per ciascuno dei contendenti: la politica non è far andare le cose per il nostro particolare e miope verso, ma per quello giusto. E le elezioni dovrebbero essere il conclave dal quale far uscire colui che rappresenti ogni parte, non solo la propria. Altrimenti, si rimane invischiati in una logica da guerra civile. Sperimentata già dalle famiglie italiane. La legittimità del proprio governo è a priori in una democrazia, non a posteriori: viene prima, di diritto, non dopo, di fatto, la conquista del potere. Non ci si può godere nessuna vittoria, sapendo di essere stati gli unici a gareggiare. E Bersani questo lo avrà tenuto presente, se si è limitato a qualche battuta, ma senza calcare troppo la mano: i grandi partiti di una volta sapevano come sfruttare gli errori altrui, senza buttarsi la zappa nei piedi.

Il presidente della Repubblica ha mostrato quella lungimiranza, che è mancata a molti nei loro commenti. Non stupiscono quelli di Antonio Di Pietro e di alcuni capipopolo (viola), perché entrambi devono dar conto agli indifferenti di ieri divenuti oggi, sull’onta del loro scarso amore per Silvio Berlusconi e della paura per le sorti della democrazia italiana, i neofiti di un puritanesimo che vuole marchiare colla lettera (scarlatta) della legalità ogni compromesso, non per come viene fatto, ma per il semplice fatto di essere un compromesso. Magari fino a ieri preferivano Tex Willer ai giornali, e conoscevano Moana Pozzi ma non il suo ‹‹utilizzatore finale››, uno dell’allegra combriccola che ci ha portati ad avere il terzo debito pubblico del mondo. Oggi, però, porterebbero al rogo ogni persona di buonsenso che sa quanto poco ormai ce ne sia in circolazione in Italia.

Stupiscono, semmai, quelli della Bonino & Co, solitamente così attenti (dicono) alla liberalità, alla discussione, alla democrazia americana, europea, ecc., e in questa circostanza pignoli contemplatori di carte bollate, di cronometriche consegne, di formalità burocratiche. Quelle stesse che, secondo la Bonino, non rendevano giustizia alla libertà della donne, e che dunque dovevano essere aggirate, anche ‹‹clandestinamente››.

C’è sempre di che rimanere sorpresi in Italia. Perfino la destra ha smesso di essere tale. Quel marxismo gramsciano delle intellighenzie, quella verità che si fa col farsi della prassi – cioè, quella forza della classe che diviene legittimità del diritto, oggi è appannaggio di chi, anche alla prossime elezioni, si presenterà sotto il marchio del moderatismo, del liberalismo, del conservatorismo. È una strada che avrà esiti funesti.

Per intanto, se davvero il popolo – questa massa amorfa nella nostra discussione pubblica, dato che nessuno si premura di dirci cosa sia – ha così tanto potere sul diritto da calpestarlo quando lo ritiene più utile, allora è bene demandargli l’ultima e definitiva parola su tutte queste vicende, e lasciargli l’onore di farsi giustizia. Anche perché, onestamente, non si vede chi altri potrebbe fargliela

3 marzo 2010

PD E PDL. L’ARGINE STRARIPA DA ENTRAMBI I LATI DEL PO



Pubblicato su www.cataniapolitica.it del 3 marzo 2010


di Antonio Giovanni Pesce - Il Popolo delle Libertà non funziona: inutile girare attorno al problema. Fernando M. Adonia, in un suo articolo, ne ha parlato diffusamente, tanto che non c’è altro da aggiungere ai fatti. La politica come dovrebbe essere è la progettualità dello spazio pubblico nel tempo. La politica com’è, qui e adesso, si occupa a stento di organizzare il consenso e di amministrare il potere. Se non riesce a fare neppure questo, allora è la fine del sistema cristallizzato, ed è il momento dell’idealità fluida. Il PDL non può contare su quest’ultima risorsa, perché quando nacque non si occupò di dirimere la controversia esistenziale di ogni organismo che abbia un minimo di coscienza, e cioè che cosa sarebbe stato da grande. E adulti abbastanza maturi sanno che, in famiglia come sul lavoro, nello studio come nei rapporti amorosi, i problemi non risolti incancreniscono semmai, ma non spariscono. E sapere chi si è significa avere una storia. Ed avere una storia significa avere già in tasca metà del futuro. Non pianificazione di ciò che sarà – ché a saperlo è solo Dio – ma neppure accidiosa attesa del compimento di un destino: un ideale, a cui tornare quando la realtà si farà troppo stretta, e il futuro ancora lontano. Per un ideale, infatti, si è disposti a sacrificare qualche poltrona, a inghiottire qualche boccone amaro, a trattenere qualche animosità. Senza ideali, senza progetti – insomma, senza futuro, il presente diventa una squallida lotta per la sopravvivenza. Alla fine, non vince il più forte ma il più adatto: chi sa meglio trattenersi dal dire al re che è nudo.

Il PDL non sa che cosa esso sia– e, quel che è peggio, non sa che Italia vuole: lo abbiamo visto tramite la cartina di tornasole di una società, la scuola, tagliuzzata più che riformata, ma senza il ben che minimo progetto in testa. Con le mani in tasca (in tutti i sensi) si va a zonzo, non ci s’incammina.

Quello che non potevamo preventivare è l’assoluta incapacità di amministrare il potere: la storia dell’incaricato che non presenta in tempo la lista, perché impegnato a ingozzarsi con un panino, è tanto ridicola da apparire offensiva, se la si presenta ancora come spiegazione. La classe politica italiana si è mangiata ben altre cose – il passato laborioso dei nostri genitori, forse il futuro sereno dei nostri figli, ma non si è mai fermata – lo avesse fatto! – a un tozzo di pane e provola. Forse le liste andavano cambiate. Forse c’era da fare l’ultimo ritocco al volto emaciato di un potere che non si accorge di aver superato, da un bel pezzo, il limite della decenza. Forse, ancora, il lavoro sporco lo ha fatto la persona meno capace, e ce ne sono più oggi che nella vituperata prima repubblica. Forse. Per intanto, sappiamo che il maggior partito italiano rischia di non avere una sua lista alle prossime regionali nella circoscrizione della capitale, e che la coalizione, nata per marciare su Roma, ora ripiega pure lì dove era meglio assestata.

E intanto, l’argine straripa da ambo i lati del Po. Il problema non è più, o meglio non ancora, il PD, che non riesce a trovare il giusto approccio col Nord del Paese – Nord che è in affanno; Nord che licenzia, che rimane senza una casa, senza stipendio; Nord che fallisce e chiude battenti, ma che la sinistra sperava di accontentare con qualche sindaco travestito da ‹‹sceriffo››, prima che arrivassero i cavalieri della giustizia con le loro ronde. Il problema è la Lega. E non per il possibile sorpasso ai danni del PDL in Piemonte, Lombardia e – quasi certamente – in Veneto, ma per la deriva che si aprirebbe. C’è infatti un limite al travaso dei voti tra due diversi schieramenti, e cioè difficilmente si sfondano le linee nemiche: si fa qualche scorribanda, si rosicchia qualche chilometro nel campo avversario che, fuor di metafora, significa qualche punto percentuale, e tutto finisce qui. Il resto dei possibili combattenti diserta le urne, si chiude nel suo rancoroso silenzio, dà del cialtrone al vicino che non ha saputo votare, e aspetta che gli passi l’amarezza. Ma non passa al soldo dell’avversario, non tradisce. Ma passare con l’alleato può essere considerato ancora tradimento?

Non è detto che la biglia si fermi. Il piano è inclinato. La Lega per un elettore pidiellino non è il PD, e ha dimostrato di avere una struttura solida – diremmo perfino feudale – anche quando il capo carismatico giaceva tra la vita e la morte: mesi in cui un gruppo dirigente seppe condurre trattative, fare alleanze, spartirsi equamente il potere, senza mai apparire diviso.

Assenza di ideali, incapacità di comando, squarci perfino nella corazza del consenso: sono più di un campanello d’allarme. Gli italiani sono un popolo di navigatori. E come tutti i buoni navigatori sanno quando le falle sono fatali. Allora, non attendono di morire come sorci incastrati nel relitto. Incagliarsi nel Po è il vero pericolo per il grande timoniere.

2 marzo 2010

SANREMO, LA CAPITALE MORALE D'ITALIA



Apparso su www.cataniapolitica.it il 2 marzo 2010

Antonio Giovanni Pesce - Ci siamo rappacificati, lo scorso fine settimana. Rappacificati coi nostri nonni, coi nostri padri, coi nostri figli. Il secondo dopoguerra è finito, ma non è solo per questo che il presente non ci angoscia più, come faceva fino alla scorsa estate. E il futuro, quello che pareva incombere su di noi come un’arpia più che aprirsi come opportunità, ora ci mostra i tratti famigliari di un vecchio amico. Vecchio davvero. E ci siamo rappacificati nell’unico posto che davvero ci rappresenti, al di là della noncuranza con la quale guardiamo a questi luoghi della cultura nazionalpopolare.L

Siamo un popolo che ama spostarsi, anche fisicamente, quando vuole ritrovare se stesso. Da Milano a Ravenna per salvarci dai barbari; da Torino a Firenze, per conquistare Roma. Infine, da Milano e Roma a Sanremo, tra i fiori del ponente ligure, per chiudere un secolo di lotte intestine, ritrovare il volto rassicurante delle nostre donne, convincerci che i nostri figli non ci faranno mai fuori, se nascono già vecchi più dei loro nonni.L

In diretta televisiva abbiamo assistito alla più spettacolare delle abdicazioni, in un paese in cui a lasciar la poltrona non ci pensa neppure l’usciere. Tanto che, sembrando l’ennesima infamia, o forse il più eroico dei tentativi di appropriarsi dell’unico trono che, ormai, pare stare a cuore agli italiani, nessuno ci ha creduto alla sincerità con la quale ci si è ghigliottinati da soli, tra i fischi di una platea di cittadini repubblicani che riscopre il buongusto solo quando si tratta di motivetti, e la baraonda di musicanti, i soliti accompagnare ben altri muli, che non il coretto col quale sua maestà si è presentato nell’agone festivaliero.L

I tempi corrono però, i giacobini diventano più docili, i censori delle veline altrui ne candidano di proprie, e le riforme istituzionali e i capitoli di storia li scriviamo col pollice lesto, più che verso, su un telefonino comprato a rate, sperando di aver accesso immediato al credito degli amici trendy. Un euro, se non sbaglio, e abbiamo mandato in soffitta tradimenti, battaglie, guerre, referendum truccati e no – senza l’ombra dei call center di oggi – qualche pezzo della nostra costituzione e intere biblioteche di astiosi storiografi, sempre pronti ad avvisarci del pericolo per la nostra democrazia. E mai per le nostre orecchie – quelle che, infine, hanno avuto la peggio. E poi, il regno dei balocchi ha un trono così ampio, che ce n’è per scosciate signorinelle prone e pronte a tutto pur di calcare quel soglio, e per tronfi pupazzi in finta stoffa maschile, ai quali gli anabolizzanti hanno annientato l’intero pacco di testosterone e l’ultimo neurone rimasto: davvero è uno scandalo, se chi potrebbe ambire a ben altro trono, si accontenti di quello post-moderno del tubo catodico?L

Lasciateci la consolante presenza dell’ultima, antica matrona romana che circoli in Italia. Un po’ goffa nei suoi abiti lunghi a campana, le abbondanti forme non diluite nel sudore della palestra, ma sorridente e accogliente come una madre, i seni che parlando di una ricchezza di vita persa dalle nichilistiche figure che appaiono, come canne al vento, sui deserti delle passerelle modaiole. Una donna come l’Italia maschia se la ricordava, e credeva di aver perduto definitivamente nei corsetti e nelle gueppierre tracimanti di microspie tre le lenzuola dei lettoni presidenziali. Una donna che non teme il professionalismo dei salvatori di patrii ascolti; data come il brutto anatroccolo da sacrificare sull’altare dell’alternanza, e invece sbocciata come cigno delle tagliatelle italiane, a cui, appunto, è stato dedicato un simpatico siparietto alla fine della kermesse.i

Patriottismo repubblicano in rima posticcia, rotondità sensuali e sbarazzine, pasta all’uovo casareccia: questa è l’Italia, l’Italia di Sanremo che fa il botto degli ascolti più che nelle vittorie calcistiche – altro momento di risorgimentale orgoglio nazionale. E il futuro che temevamo, lo abbiamo annegato nei laghi sardi dell’ultimo talento delle nostre svampite sedicenni, focose milizie del nuovo ordine teledemocratico. La spocchia di James Deen senza il fascino, le sonorità di Claudio Villa senza l’alone del tempo: il vino novello della gioventù non spaccherà le vecchie botti del nostro sistema perché, neppure un po’ stagionato, si adegua da subito all’adagio di una nazione che, nella melodia, nasconde la propria melanconia.i

Crassi italiani fotogenerici, rappacificati con ben tre, se non quattro generazioni di rimpinzati spettatori, possiamo attendere tranquillamente il sorpasso industriale e l’egemonia culturale dei paesi emergenti. Noi avremo sempre una canzonetta da canticchiare all’ombra delle nostre antenne paraboliche