"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

24 dicembre 2010

UNA RIFORMA ANONIMA PER UN PAESE ANONIMO




di Antonio G. Pesce - La riforma dell’università è legge. Viene spontaneo definirla col nome del ministro che l’ha firmata, ma non è la sua riforma. Non c’è una ‹‹riforma Gelmini››. Innanzi tutto, perché è dubbio che il ministro direttamente responsabile avesse delle idee in merito, prima di essere eletta dal proprio capopartito a quel ruolo. Tra gli uomini del Presidente non sarebbero mancati sostituti di ben altra stazza. E molte delle critiche, fattesi bieco rancore nelle ultime ore, non sarebbe state mosse, o comunque non con questa intensità, se il ministro avesse avuto un’autorevolezza in merito. È stato un errore: gli uomini competenti si devono pagare bene, e sicuramente nessuno avrebbe potuto accettare l’abnorme massa di licenziamenti – altra definizione non viene – che ha colpito la scuola italiana negli scorsi anni. Nessuno avrebbe avuto il coraggio di farsi ‹‹collaborazionista››. Però, al momento della conta, un Martino, un Pera, un Valditara – solo per fare qualche nome – avrebbero fatto pesare la loro storia, accademica ed intellettuale. E magari sarebbero stati ben più radicali – non fosse per altro che per il fatto di sapere dove mettere le mani.


Inoltre, buona parte della riforma, che - è bene ricordarlo - riguarda l’università, e soprattutto il reclutamento dei ricercatori e dei docenti, è stata scritta da una commissione guidata dal prof. Alessandro Schiesaro. Il quale ha due caratteristiche fondamentali: viene dall'altra parte della barricata, o quanto meno si è trovato più volte oltre cortina, essendo ritenuto vicino ad Enrico Letta, ed essendo stato consulente di Luciano Modica, sottosegretario all'università del governo Prodi; ed è un fine latinista, probabilmente con una visione del reale assai più duttile delle sclerotiche contrapposiozioni privato-pubblico del mondo politico.


Infine, dare un nome a questa riforma potrebbe indurre i più sprovveduti a credere che un’altra fosse possibile. Non è così. Sappiamo dei contestatori, parlamentari ed extraparlamentari. Molto meno del merito delle contestazioni, ma qualcuno alla fine qualcosa l’ha detta, e tra diretti interessati (i ricercatori) e i politicanti da strapazzo c’è una profonda diversità di vedute. Nulla, però, su come sarebbe stato più giusto riformare. È qui che sono mancati i nomi. Quegli stessi che si fanno ora, quali sodali tra gli scanni e le baruffe nelle piazze. Perché come il centrodestra voglia l’università lo si è capito, ma non è dato sapere come la vorrebbero chi lo contesta. Preso atto della situazione attuale – che peggiore non si può immaginare – come andava fatto quel che era diventato improcrastinabile fare? Non sappiamo. Sappiamo solo che se ne doveva parlare. Quando, in questi giorni, si è chiesto al governo di fare un passo indietro, non si è detto in nome di chi o di cosa – è una buona ragione la rabbia della piazza? – ma, semplicemente, perché se ne potesse parlare. Parlare? Dal 1923, anno in cui al governo c’era Mussolini e al ministero dell’Istruzione un certo Giovanni Gentile, è passato quasi un secolo. E dobbiamo ancora parlare di come dare una verniciata allo squallore che ormai ristagna da anni?


Parlare! Ma il dialogo, quando non si ha nulla da dire, è mero chiacchiericcio, di cui si deve far a meno. Non parlare, ma discutere, e discutere addicendo ragioni. E se ne si hanno tante da eccitare le piazze, se ne potrebbe far menzione nelle stanze parlamentari, piuttosto che nascondersi dietro generici appelli al futuro. Perché, del resto, il futuro di questa nazione è appeso ad un filo, non certo per colpa dei soli ultimi vent’anni.


La riforma approvata in queste ore sarebbe stata una buona riforma. Sarebbe, se qualcuno – chi, non si sa – non avesse avuto l’urgenza di approvarla, al fine di sbandierare in caso di elezioni qualche riforma, delle tante promesse e mai attuate. Sarebbe stata una buona riforma, se qualcuno non avesse saputo far altro che lanciare alti guaiti, aizzando folle impazzite piuttosto che ascoltare teste pensanti (che ci sono ancora, ma è come se non esistessero). Sarebbe stata un’ottima riforma se, infine, oltre che proporre delle buone norme di reclutamento del corpo docente e di governo dell’università, qualcuno ci avesse messo anche qualche centesimo per farla entrare subito a regime.


Non è così. La riforma dell’università è una riforma anonima, frutto di un Paese anonimo. Un Paese in cui la classe dirigente non sa farsi ascoltare per via della propria statura morale e intellettuale, ma per l’impeto degli improperi e per la sconsideratezza con cui propone atti di forza. Maggioranza ed opposizioni sono in perenne guerra civile: piccole menti sanno farsi grandi guerre, perché per scannarsi serve odio e stupidità, per discutere idee. E di idee l’Italia manca. Non è vero quel che dicono taluni facinorosi, che una cattiva università ottunderà la società intera. C’è sempre spazio alle capacità personali. È semmai vero l’opposto, che una società ottusa genera una cattiva università. Noi ne viviamo la perenne conferma.



23 dicembre 2010

SE LA REGIONE SICILIA UCCIDE LA CULTURA




di Antonio G. Pesce- La Sicilia vuole il suo Tremonti. Non sappiamo se lo abbia trovato. Di certo, neppure l’originale è immune da colpe. E pare che anche quello siculo, così attento – giustamente – sulle tante attività ‘culturali’ dell’Isola, poi diventi miope su alcuni capitoli di spesa e fondi vari, che hanno il sapore di essere la santabarbara dell’allegra brigata lombardiana alle prossime – assai più vicine di quanto non si pensi – elezioni regionali.

Non si sa ancora se l’esercizio provvisorio durerà tre mesi, come vorrebbe Raffaele Lombardo e la sua maggioranza, o un mese, uno e mezzo al massimo come chiedono le opposizioni. Sappiamo che l’assessore all’economia, Gaetano Armao, ha in tasca una lista di tagli che, se dovessimo trascriverla qui, seppur non noiosa – perché ci sarebbe tanto da dire – sarebbe sicuramente troppo lunga. I tagli, in generale, hanno colpito i massimi teatri siciliani, le tante scuole, associazioni, centri studi di cui pare sia popolata la vita culturale nostrana, in apparenza assai meno viva di quanto poi non sia al momento di passare alla cassa.

Se sia giusto o no non è chiaro. Ma è chiaro il fatto che, se tutta l’Italia oggi non ride, la Sicilia da sempre piange. E dato che, tranne in occasioni specifiche, non sempre l’attività dei vari centri studi – perché abbiamo avuto pure la sfortuna di avere tra i nostri conterranei decine di pezzi non irrilevanti della storia culturale e scientifica italiana – è stata evidente, una sfoltita ci può pure stare. Sempre meglio dei preannunciati tagli lineari del 30%. E poi, una volta l’intellettuale era in prima fila nei momenti difficili, proponendo idee di soluzione ed esempi di sacrifici – cosa che oggi ha dimenticato di fare.

Tuttavia, la questione è politica, perché i nostri politici ben si guardano dal dire quel che, per buonsenso, si dovrebbe dire, e che in parte avete letto sopra. Non solo, ma fanno pure la morale al ministro Tremonti, che avendo studiato davvero, sa essere a volte sbrigativo e lapidario in alcuni giudizi. Forse fin troppo, non essendo soltanto un intellettuale ma ricoprendo una carica istituzionale. Però, se il nostro ministro delle Finanze dice che con la cultura non si mangia, si apre il cielo traboccante di improperi contro la barbarie berlusconiana, e in questo caso abbiamo visto spiccare, oltre che la sinistra ormai salottiera, pure il maestro di pensiero finiano, tal Luca Barbareschi – una mente! Mentre non è chiaro cosa diranno oggi Pd e Fli sui tagli proposti: tagliamo in cultura? Si può tagliare in cultura? Non si deve in generale, o si può, ma solo dopo attenta analisi? E questa analisi come è stata condotta?

Un’altra risposta dovrebbe arrivare circa altri tipi di fondi, dei quali pare nessuno si voglia interessare. Ora, capiamoci: che università, centri studi, parchi culturali, teatri eccetera eccetera, abbiano stillato e sprecato danaro pubblico è indubbio. Però, se non si parla per malafede, da Roma a Palermo si dovrebbe ricordare che ogni spreco è proporzionale alla portata della condotta, e i soldi non passano dai rettorati o dai direttivi, ma da comuni, provincie, regioni, ministeri, ecc. Cioè, sono in mano alla politica. E vedere la pagliuzza – che c’è, sia chiaro – nell’occhio delle accademie, e non vedere la trave in quello delle sanguisughe che campano di politica, è un atto – questo sì – di inciviltà, che fa leva sulla propaganda. Tra l’altro foraggiata proprio da chi la usa.

Perché questo è l’altro punto dell’esercizio provvisorio: la propaganda. Dal momento che non lo farà Lombardo – almeno, crediamo -, spieghino Pd e Fli perché, mentre si è accorte massaie sui conti dell’associazionismo isolano, poi si sia scialacquatori quando si tratta di “portare a conoscenza dei cittadini” i (ben pochi, pochissimi) risultati amministrativi. Tanto per intendere di che parliamo: il bilancio prevede 5 milioni di euro da spendere per ‹‹l’informazione a cittadini ed imprese›› sull’attività di governo. E all’inizio erano 10.

Sappiamo come va il mondo, e sappiamo che un’amministrazione pubblica ha delle spese che una famiglia – o un’università – non ha. Tacciamo per questo degli stanziamenti per le consulenze, perché dall’alto del nostro buonsenso (che in Italia rischia di diventare il basso della sprovvedutezza), pensiamo che una pachidermica struttura ne abbia bisogno. Tuttavia, se non Lombardo, qualcuno tra le fila della sua coesa maggioranza, si stacchi dalle ‹‹vecchie logiche››, abbia ‹‹un sussulto di dignità››¸ e sia buon scolaro di se stesso. Palermo, nonostante le strade italiane fatiscenti, non è poi così lontana da Roma, perché l’eco dei bei propositi espressi nella capitale si perda prima di arrivare nel nostro capoluogo. Prima di essere consumati, si potrebbe aspettare qualche giorno, perché di sermoni e di belle parole si tratta, non già di cannoli alla ricotta.


Pubblicato il 22 dicembre 2010 su www.cataniapolitica.it

22 dicembre 2010

CHI HA UN PROGETTO?





di Antonio G. Pesce- Qualcuno lucido è rimasto. Ringraziando il Cielo. Nel giorno in cui gli scanni del Parlamento italiano si sono trasformati nel campetto parrocchiale della nostra adolescenza, quando ci si dava battaglia per il solo sfizio di vincere, Marcello Pera, senatore Pdl ed ex presidente del Senato, ha dato voce alla dignità di una politica sempre più affranta. Di fronte ai messianismi laici che si fronteggiavano, c’è stato un uomo che ha fatto sentire la voce della propria coscienza. Qualcosa di divino, nel mezzo del baratro in cui ci troviamo. Un po’ di orgoglio, poi, è d’uopo: leggere Platone, Aristotele e un mucchio di altri sfigati filosofi alla fine rende, come rende la cultura, quando non è l’abito della festa ma il costume di ogni momento – la fibra stessa di cui è intessuta la vita morale dell’uomo.

Il discorso andrebbe letto e riletto. Qui non è il momento. Però, su un punto è bene soffermarsi. Chi ha un progetto oggi? Chi, nell’anniversario della nascita del nostro Stato, ha ancora la bussola? Il nocciolo della questione posta da Pera. Nessuno, ci tocca rispondere. Di questo, dobbiamo tutti esserne coscienti. Non farlo, sarebbe un’idiozia che potrebbe costare più cara, di quanto ci stia costando l’indifferenza dei nostri padri verso il futuro della nazione. Chi oggi ha grosso modo trent’anni deve essere cosciente che il futuro sarà grave come lo fu per i nostri nonni. I decenni prossimi saranno il nostro dopoguerra.

Il centrodestra, come lo abbiamo conosciuto, è morto. La destra, alla prova dei fatti, ha fallito. Era meglio la Dc. Finché fu un partito, ricostruì una nazione e ne difese la democrazia. Oggi, i vari ‘centristi’ che ad essa si ispirano sono privi del senso della grandezza – della grandezza delle potenzialità d’Italia e della vastità delle sue lacune. Berlusconi non è degno di legare i sandali a De Gasperi, Fini neppure a Scelba, e uno Sturzo non ce l’hanno e non lo vogliono neppure avere. La cultura non fa mangiare e non fa vincere le elezioni (che poi sono due cose connesse, almeno in un certo senso). Casini, inoltre, che sa, se vuole, volare alto, finisce sempre per accontentarsi di quel che passa il convento. E chi si accontenta non gode punto. È risaputo.

La sinistra è in crisi dal 1989. Questo a sentire Pera. Chi non vuole essere così ottimista, dice che la crisi dura dal dopo Sessantotto. Quando, cioè, si scambiò per rivoluzione degli oppressi una ribellione libertaria. Magari più giusta, ma non per questo ininfluente sugli assetti ideologici del partito. Tant’è, che oggi abbiamo più diritti civili che economici. I padri hanno avuto il divorzio, l’aborto e, forse, otterranno pure l’eutanasia. I figli a stento un contratto per sei mesi a garanzie zero. Tutto questo non può non aver influito. E infatti, la sinistra ha anche vinto le elezioni, ma non ha risolto problemi.

Insomma, siamo in pieno stato confusionale. I partiti dovevano essere post-ideologici. Ora sono post-etici: non sanno fare, perché non sanno cosa sia giusto o sbagliato fare. E dunque non servono come classe dirigente. Lo stiamo vedendo con la riforma universitaria: se a destra l’hanno sbagliata, a sinistra non saprebbero come cominciarla. E lo abbiamo ancor di più notato con la battaglia parlamentare scatenata attorno alla mozione di sfiducia al governo. Gli italiani, quando fiutano che il vento della sorte (e dunque del potere) sta per cambiare, sono pronti a rinunciare alle sane abitudini: scendono dal carro su cui hanno bivaccato per anni, e rincorrono lesti quello del vincente. È che sono modaioli, gli italiani: piace loro la movida politica e le pantofole a casa. Ma qualcuno ha capito chi e che cosa ci sarebbe stato (e ci sarà) dopo Berlusconi?

I prossimi decenni saranno durissimi. Perché saranno quelli di una generazione che ha visto sfumare ad uno ad uno non tanto i sogni, ma il frutto dei sacrifici. C’è da ricostruire l’Italia. L’anniversario dell’Unità può essere un buon momento per pensare. Però, questa volta affrontiamo il viaggio con la bisaccia piena di idee, buone o meno che possano essere (si sa che non tutte le ciambelle riescono col buco). Considerato quel che è accaduto negli ultimi trent’anni – negli ultimi venti soprattutto – a pane e cicoria si può campare. E l’uomo non è quel che mangia ma quel che spera.


Pubblicato il 16 dicembre 2010 su www.cataniapolitica.it

21 dicembre 2010

UN MARX NON 'MARXISTA'

Henry, Michel, Marx. 1. Una filosofia della realtà, a cura di G. Padovani.[Ed. or.: Une philosophie de la realité, Paris, Gallimard 1991], Genova, Marietti 1820, 2010, pp. 632, € 35,00,



Se Guido Carandini, nel suo Un altro Marx, ha voluto consegnarci un profilo del filosofo di Treviri quale scienziato della società e del capitalismo, liberato dall’utopia politica, questo lavoro monumentale di Henry di cui, per ora, possiamo leggere in italiano solo la prima parte, mira a liberarlo perfino dalla scienza, per darci un Marx filosofo e, soprattutto, un Marx “umanista”. La tesi, infatti, è questa: non la storia e non le classi sociali fanno l’uomo, ma l’uomo fa la storia, le classi, ecc. E dunque l’”umanismo” non è un peccato di gioventù, come per ogni giovane borghese tedesco dell’epoca (secondo la tesi di Althusser), ma la cifra del pensiero più genuinamente marxiano.
Henry, nell’introduzione ai cinque corposi capitoli, distingue subito Marx dal marxismo, considerando questo come “l’insieme dei contro sensi che sono stati fatti” su quello, un “riassunto” nato dall’impellenza dell’impegno politico (p. 71). E infatti questo “riassunto”, che prende avvio con la prefazione tedesca al Manifesto del 1883 scritta da Engels, è compiuto sulla base di testi politici, i quali “non sono dotati del principio di intellegibilità, i concetti che sviluppano non sono concetti fondanti e il loro fondamento non vi si trova né esposto né tanto meno indicato”.
Il lavoro di Henry metodologicamenteè ben altra cosa, anche perché gli sono disponibili opere come l’Ideologia tedescae i Manoscritti: “Marx per noi non è come l’ammalato steso sul divano di un analista – scrive il fenomenologo francese – e i cui balbettamenti non potrebbero servire che da indizio o da sintomo nella scoperta della verità.” (p. 94).
Il primo capitolo è dedicato alla Critica della filosofia del diritto di Hegel, “il primo lavoro teoretico di Marx”. Lo Stato, per il filosofo di Treviri, “non si sovrappone alla società civile e alla famiglia come un’aggiunta sintetica al loro essere”: è, invece, “la realtà stessa di queste sfere”, la loro anima. In ballo, il problema mai risolto di particolare e universale, e come Hegel, Marx ne propugna l’identità, ma gli rimprovera di non averla saputa stabilire: l’attività individuale all’interno della famiglia e della società civile non è fondata sull’individuo stesso, sui suoi bisogni, bensì sullo Stato. L’uomo cosi è concepito come un semplice “fenomeno”, un’ombra di qualcos’altro che si muove dietro le quinte. Ecco perché Henry interpreta lo scritto del ’42 come una “critica radicale di ogni sussunzione … la credenza che la realtà è realmente spiegata, esposta nel suo essere quando è esposta alla luce dell’Idea”. Reale, invece, è solo “l’attività individuale, il bisogno in cui essa si radica, la vita”: “La vita degli individui è la ragione perché è essa che spiega e che produce la formazione della famiglia e della società civile. La vita degli individui è la ragione vera perché la sua spiegazione non è un explicat, cioè una semplice teoria e, come dice Marx, una “considerazione”, un’interpretazione che lascia invariato ciò che interpreta, ma precisamente perché produce ciò che spiega e ne è così la ragione nel senso ontologico di fondazione, di fondamento” (p. 103). Ma l’individuo a cui si riferisce Marx non è un’unità ideale, bensì una pluralità di individui. “Individuo” non è un nome comune, ma un singolare di una molteplicità di nomi propri.
L’”umanismo” di Marx si esplica, nei testi del ’43 e del ’44, oltre che nella identità di umanismo e naturalismo e nella teoria della rivoluzione e del proletariato, anche nella critica che, seguendo Feuerbach e opponendosi a Bruno Bauer, Marx rivolge alla religione. Per Bauer la religione è un concetto, prodotto dalla coscienza che si è alienata da se stessa. Ma una critica di questo tipo, condotta all’interno della coscienza stessa, non raggiunge l’effetto sperato: atto della coscienza è l’alienazione, atto di coscienza la critica di questa. Per Marx, invece, è l’”uomo” e non già la coscienza, e infatti nota Henry: “È con un colpo solo, per la verità, e con uno stesso movimento, nello stesso mutamento concettuale che l’uomo diventa la coscienza e la religione una rappresentazione”.
Però commetteremmo un errore, se pensassimo che la critica della religione abbia un risvolto solo negativo. Essa, invece, vuole essere anche positiva, dirci cosa sia l’essere, “cioè precisamente l’uomo, il genere umano”.
Nel capitolo terzo, sulla Riduzione delle totalità, Henry da queste premesse giunge a conclusioni che infrangono molti degli stereotipi su cui si è radicata la lettura militante e marxista di Marx. Innanzi tutto, non è la storia che fa l’uomo, ma è l’uomo a far la storia: “La specie umana è questa realtà una che costituisce sia il soggetto che l’oggetto della storia, il suo principio e il suo contenuto” (p. 269). Ma la specie umana si realizza non in quanto specie naturalisticamente intesa, ma in quanto società, e la storia “è il processo di questa realizzazione”. Tuttavia Marx, criticando Stirner, rifiuta il concetto di società-persona, affermando invece che la società non è che “l’ipostasi di ciò che è altrove”. Questo “altrove” è la vita individuale, che della storia è condizione trascendentale, cioè “immanente a tutto ciò che essa rende possibile, condizione interna, essenza e in ultimo sostanza”. Dunque, capovolgendo un vecchio adagio marxista, non è la società che fa gli uomini, ma sono gli uomini a fare la società. Come a dire che se viviamo in una società di depravati o di infelici, la colpa non è dell’astratto nome che ci accomuna, ma del concreto comportamento personale che ci lega.
Ma questa presenza centrale dell’individuale non smentisce l’altrettanto importante presenza del concetto di classe nel pensiero marxiano? No, dice Henry, se consideriamo le proprietà della classe come proprietà individuali vissute da più individui: “La realtà di una classe sociale – scrive il filosofo francese – è costituita da un insieme di determinazioni, la realtà di queste determinazioni sta nella vita fenomenologica individuale e trova in essa soltanto il luogo della sua possibilità e della sua efficacia” (p. 328).
Si comprende perché Marx critichi aspramente la divisione del lavoro e come questa sia “il luogo ultimo a partire dal quale si effettua questa genealogia [delle classi]”: la società è divisa in classi perché gli uomini si sono divisi i compiti, ma dividere quel che c’è da fare significa anche potenziare alcuni aspetti della propria persona a scapito di altri, col risultato che l’uomo si depaupera ontologicamente, non si sviluppa completamente come avrebbe potuto e dovuto (p. 372).
L’uomo è la realtà della realtà, e Marx nel terzo Manoscritto lo definisce “essere della natura”, espressione che va intesa in duplice modo: in senso ontico, e così l’uomo è l’”omogeneo” alla natura, le appartiene come essere portare “in sé della materialità opaca dell’essente”; in senso ontologico, è la “sensibilità trascendentale in seno alla quale il mondo si fa mondo”. L’uomo sente gli oggetti, li sente suoi, vive egli nell’intuizione dell’essere. Ma il “senso” di cui parla Marx non designa i cinque sensi tradizionali, bensì “l’insieme delle potenze della soggettività”, e la pratica non un mero agire bensì “la relazione effettiva all’essere in quanto questa si compie nella sensibilità” (p. 430). Tant’è vero, che Feuerbach ha sbagliato nel pensare la realtà della realtà nell’intuizione “e quindi l’essere come un oggetto”: l’essenza del reale sta nella pratica indicante l’”attività”, la pura attività. Feuerbach, insomma, ha sostituito l’intuizione al pensiero hegeliano, e Marx l’azione all’intuizione feuerbachiana. Qui Henry parla del grande capovolgimento operato da Marx nel pensiero occidentale, perché da sempre il soggetto è stato pensato come il luogo del darsi dell’essere, mentre nel concetto di prassi marxiana è pensato in modo radicale: è una soggettività assoluta, che rende “soggettivo” l’oggetto.
La prassi – il lavoro, la lotta, la sofferenza degli uomini sulla terra, “lo sforzo infaticabile e questa attività senza fine della vita per il proprio mantenimento” - come attività generale non esiste, perché non essendoci che individui, non possono esserci che singole azioni. Si può parlare – scrive Henry – di prassi sociale, ma solo a condizione di riferirla sempre al luogo in cui ha compimento, “nei molteplici individui che fanno, ciascuno per proprio conto, ciò che “essa” fa”.
Marx contrappone la prassi alla teoria proprio perché, mentre nella prassi si dà questa soggettività assoluta che è ciascuno di noi – l’”immanenza radicale di questa soggettività” che il filosofo tedesco chiama “vita”, e qui bisogna fare attenzione perché non della vita del genere umano si parla, ma della vita di ogni individuo - la teoria si astrae dalla vita del singolo per viverne una tutta propria. Ora, questo è quel che Marx intende per ideologia: “l’insieme delle rappresentazioni della coscienza umana nel senso di semplici rappresentazioni” (p. 502). Eppure, nonostante l’ Ideologia tedesca si fondi su questa distinzione tra realtà e rappresentazione, Marx non la ritenne mai banale. Perché? Perché la realtà non si oppone soltanto, ma fonda la rappresentazione. Ed è alla realtà (all’individuo) che bisogna ricondurla per farle guadagnare la concretezza. La realtà, infatti, fonda la rappresentazione non solo nel contenuto, ma anche nel modo “in cui la coscienza si rappresenta l’essere vitale”. Per questo “è la struttura oggettiva di una società in un momento della sua storia la sola che possa dire che cosa pensano gli uomini che vivono in essa e perché lo pensano. È la struttura economica e sociale che fonda la “sovrastruttura” politica, giuridica, filosofia, ecc., e la determina completamente” (p. 543). La struttura oggettiva, però, è data dalla vita dell’individuo, non già dalla materia – concetto che Henry considera il “controsenso fondamentale” di Engels – che produrrebbe le idee tramite il cervello. La materia di cui parla Marx è qualcosa di assai diverso – chiosa ancora Henry - dal bieco materialismo del XVIII secolo, e in questo non possiamo non notare come avesse colto già nel segno Giovanni Gentile quando, inserendosi nella discussione tra Antonio Labriola e Benedetto Croce, metteva in evidenza la sostanziale differenza del materialismo di Marx rispetto alle forme precedenti.
“Questo sapere della vita che è la sua stessa soggettività – scrive Henry – la sua inquietudine, la sua sofferenza o il suo appetito, che precede e fonda ogni “sapere”, ogni “coscienza” e ogni “pensiero”, lo ritroveremo in tutti i momenti decisivi dell’analisi di Marx. È ciò che costituisce la fonte invisibile e sempre presente dell’ideologia sotto tutte le sue forme, il principio, sepolto nella propria fenomenalità, e la condizione di possibilità di tutte le rappresentazioni in generale” (p. 552).
Qui si è data una sola chiave di lettura, quella dell’”umanismo” - che è poi la principale. Tuttavia, un buon lettore può trovare altrettanto importante rileggere, alla luce della fenomenologia del filosofo francese, il rapporto Hegel-Feuerbach-Marx o ritenere interessante il confronto tra alcune intuizioni marxiane e aspetti del pensiero di Husserl e Heidegger.
Un libro – questo di Henry – che dovrebbe essere studiato più che letto, e che G. Padovani ha avuto il merito di aver curato accompagnandolo con una corposa prefazione. Attendiamo il seguito - cioè l’analisi dell’economia – sperando che né l’editrice né il curatore si ritraggano dall’impresa. Difficile, però, che Marx il filosofo, così come ci viene consegnato in quest’opera, prenda il sopravvento sull’omonimo profeta, soprattutto da quando, a causa della crisi finanziaria del 2008, si è dato il bentornato al mitologismorivoluzionario.

Antonio G. Pesce.


INDICE

Michel Henry: Marx, oltre Heidegger e Husserl di G. Padovani
Bibliografia di riferimento
Introduzione. La teoria dei testi
La critica dell’essenza politica, il manoscritto del ‘42
L’umanismo del giovane Marx
La riduzione delle totalità
La determinazione della realtà
Il luogo dell’ideologia

L'AUTORE

Michel Henry (1922-2002), tra i più importanti rappresentanti della scuola fenomenologica francese, ha esposto in L'essence de la manifestation (1963) e in altre opere successive una fenomenologia della vita come prova di sé ed affettività. Tra i suoi lavori: Philosophie et phénoménologie du corps. Essai sur l'ontologie biranienne, Puf, Paris 1965; Généalogie de la psychanalyse. Le Commencement perdu, Puf, Paris 1985; Voir l'invisible. Sur Kandinsky, Bourin, Paris 1988; Phénoménologie matérielle, Puf, Paris 1990; C'est moi la verité. Pour une philosophie du christianisme, Seuil, Paris 1996.


15 dicembre 2010

MARK LILLA, IL DIO NATO MORTO

Recensione pubblicata su Sapienza, 3-4, 2010, pp. 372-77.


Mark Lilla, Il Dio nato morto. Religione, politica e occidente moderno, Baldini Castoldi Dalai editore, Milano 2009, pp. 351.


L’opera, il cui titolo originale (The stillborn God) dice ben più di quanto la traduzione lasci intendere (e, forse, anche l’esatto opposto), si presenta in sette capitoli assai densi, frutto di quasi un decennio di ricerche, alcune condotte in centri europei, e basata sulle Carlyle Lectures che l’autore ha tenuto all’università di Oxford nel 2003.

Punto nodale di tutto il ragionamento di Lilla è che non possiamo fare a meno della religione. Non ha alcuna importanza che l’inquietudine religiosa sia generata dalla stessa mente umana, o sia davvero il rapporto tra la creatura e il Creatore: il genere umano ha sempre creduto e, con molta probabilità, continuerà a credere in un Essere che lo trascende. E l’Occidente è stato formato da una religione alquanto singolare – quella cristiana – che può ingenerare due comportamenti diversi: quello dell’anacoreta che si ritira dal mondo, lasciando che il mondo si gestisca da solo e ritenendo ogni impegno una mera illusione, oppure quello di nuovi profeti pronti a vaticinare sulla fine dei tempi e sul volere di Dio.

Non sempre si è saputo moderare le due diverse spinte, e dopo le battaglie seguite alla Riforma abbiamo la nascita di una ‹‹nuova filosofia›› che coltiva l’ambizione di ‹‹sviluppare l’abitudine a pensare e parlare di politica in termini esclusivamente umani, senza fare appello alla rivelazione divina e alla speculazione cosmologica. La speranza era di affrancare le società occidentali da tutta quanta la teologia politica e di guadagnare l’altra riva›› (p.13). Traghettatore insigne fu Thomas Hobbes, la cui opera più nota, il Leviatano, ha lo scopo di ‹‹attaccare e distruggere l’intera tradizione della teologia politica cristiana›› (p.87), spostando l’attenzione dall’oggetto della fede (Dio) al soggetto che crede (l’uomo) e, in modo particolare, sul funzionamento e la struttura della mente di questi, soggetta a superstizione e paure.

La fede lenisce l’angoscia, ma può anche essere utilizzata per conquistare ampie fette di potere politico. La soluzione di Hobbes – nota l’autore - non è molto convincente: un sovrano quasi divino e la riforma delle università dell’epoca, considerate dal filosofo inglese come il ‹‹Regno delle tenebre››. Eppure, antropologizzare la religione ha permesso di mantenerne sotto controllo le spinte distruttive, ed ha prodotto quella ‹‹crisi›› che Lilla chiama la Grande Separazione, la quale ‹‹non presupponeva né promuoveva l’ateismo; semplicemente, insegnava l’arte intellettuale di distinguere le questioni sulla struttura fondamentale della società da quelle supreme riguardanti Dio, il mondo e il destino spirituale dell’uomo›› (p.338-339). Ad Hobbes dobbiamo ‹‹il modo in cui le democrazie liberali moderne affrontano la religione e la politica›› (p.101).

Tuttavia, la fragilità dei rapporti fra sacro e profano, tra la cura delle anime e la cura dei corpi non è delle istituzioni che creiamo, ma intimamente connessa al modo in cui pensiamo: lo stesso Hobbes, mentre separava la politica dalla religione, univa indissolubilmente il credere e la mente. L’uomo crede, perché la sua mente presenta la possibilità di questo stato cognitivo, ed era solo questione di anni perché l’istinto religioso, il ‹‹lato oscuro della mente umana››, venisse pensato come il frutto più nobile. ‹‹Rousseau e Kant provocarono la più grave frattura tra l’approccio anglosassone e quello europeo continentale al pensiero politico moderno e dunque alla riflessione sui problemi politico-teologici che avevano attanagliato la cristianità occidentale per millecinquecento anni. Le conseguenze di quella frattura sono visibili ancora oggi›› (p.129-130).

Il Francese non ha fra i suoi scritti un vero e proprio trattato di filosofia della religione, ma Lilla pone molta attenzione nell’analisi di un testo, Professione di fede del Vicario Savoiardo, inserito nell’Emilio. Rousseau pensa che l’uomo sia buono per natura e che nella religione esprima il meglio di sé: ‹‹La fede del Vicario ha tre punti fermi: nell’universo esiste una volontà creatrice; questa volontà è intelligente, buona e potente; l’uomo è libero. In tutti e tre i casi il ragionamento del Vicario inizia dalla sua esperienza personale e termina ogniqualvolta ritiene inutile andare oltre›› (p.138). Questo spostamento da una fede come credenza oggettiva professata dalla fede tradizionale, ad una ‹‹[professata] solo perché ne ha bisogno per buone ragioni morali e psicologiche›› (p.142) permette di riguadagnare la religione alla vita dell’uomo, anche e soprattutto in chiave sociale, senza quelle scorie – quel mitologismo - di cui il pensiero moderno tentava di liberare il cristianesimo.

Rousseau immagina una fede ‹‹post-cristiana››, insomma, ma non già un essere umano privo di una qualche religiosità: ‹‹Coloro che hanno posto i principi della Grande Separazione non hanno confuso l’esistenza di un nesso divino, né hanno tentato di spezzare via la riflessione su di esso. Hanno insegnato un nuovo modo di pensare la politica senza riferimento a questi argomenti, in modo che sia possibile concepire, discutere e poi costruire un ordine politico accettabile libero dalla violenza religiosa. Ma se Rousseau ha ragione, questa separazione mentale potrebbe non essere sostenibile. Anch’egli voleva liberare il mondo dal conflitto religioso, ma aveva seri dubbi sulla possibilità di poter mai sopprimere la religione o di poterla confinare alla vita interiore. La religione è semplicemente troppo intrecciata alla nostra esperienza morale per poter essere districata da ciò che ha a che fare con la moralità›› (p.149).

Kant dà ‹‹una spiegazione filosoficamente disciplinata dell’originale visione morale di Rousseau›› (p.151): neppure lui pensa che l’uomo possa fare a meno di credere, e del resto Swedenborg sarà pure stato un fanatico dedito al misticismo e alla chiaroveggenza, ma per nulla ignorante e folle. Con la fede non studiamo il mondo, ma senza non lo possiamo vivere: senza sperare che in un aldilà virtù e felicità coincideranno, anzi - che la seconda dipenderà dalla prima, potremo mai evitare di sprofondare nella più totale disperazione? Dunque pure la ragione ha le sue necessità, e non solo l’intelletto, e queste necessità sono sintetizzate nei due postulati pratici: esistenza di Dio ed immortalità dell’anima. E siccome la ragione è uguale per tutti, tutti hanno bisogno di credere: ecco come nascono concetti come ‹‹popolo di Dio›› e ‹‹chiesa universale›› nel pensiero kantiano. La ‹‹chiesa universale›› la si fa epurando le chiese particolari da ogni ‹‹incrostazione mitica›› depositata dalla storia ed è, soprattutto, un ideale da perseguire, non già un’istituzione da mettere in piedi.

La religione, quale è intesa da Kant, crea una comunità etica, ma non concede quella ‹‹riconciliazione›› che tenterà il pensiero hegeliano: il Dio di Rousseau e Kant è ancora un ‹‹Dio etico››, ma apriva le porte a quello ‹‹borghese›› che si incarnerà nello Stato moderno e protestante, non appena si penserà che la Storia, come ogni sua manifestazione, altro non è che la fenomenologia della mente umana: le risposte sono commisurate alle domande, perché entrambe prodotto dell’epoca dello spirito durante la quale vengono generate. La filosofia di Hegel è l’ultima perché somma autocoscienza, cioè quel pensiero che conosce se stesso come tale, il che si traduce nel credo protestante in campo religioso, e in campo politico nello Stato prussiano. Tutto, così, è compiuto; tutto è riconciliato: la storia continuerà comunque, con i suoi drammi e i suoi orrori, ma sarà solo un’ampia glossa ad un libro già scritto.

Hegel, però, non potrà sperimentare il crollo delle proprie illusioni, come invece quei giovani teologi e filosofi che, sulla scorta del suo pensiero, tenteranno la via di un ‹‹protestantesimo culturale››: giovani che credevano nell’eticità della loro fede, nel valore propulsivo e comunitario di essa, ma che si vergognavano dei troppi svarioni storici e di alcuni principî. Ma Hegel aveva insegnato che la religione è culto, e questo il risultato di un particolare momento dello spirito, mentre D. F. Strauss aveva distinto il Gesù della storia da quello della fede: fu facile per Ritschl, Hermann, von Harnack e Troeltsch costruire quella cattedrale vuota nella quale celebrare un ‹‹Dio nato morto››: un dio che non scuoteva le coscienze, ma che guidava i comportamenti; un dio senza fedeli, ma con tanti adoratori - i filistei martellati da Nietzsche

Solo Cohen si rifarà a Kant, ma per dimostrare che la religione universale kantiana è identica all’ebraismo, e l’ebraismo, in fin dei conti, identico al protestantesimo: essere ebrei sarebbe dovuto essere una missione profetica, senza togliere nulla alla piena assimilazione dell’ebraismo da parte dello Stato tedesco. Quando poi, allo scoppio del primo conflitto mondiale, gli altri Stati europei dichiararono guerra alla Germania, la logica conclusione fu che i titani, ancora una volta, si sollevavano contro l’Olimpo: il Kaiser ricorse all’aiuto di von Harnack per stendere il suo discorso alla nazione, e Troeltsch incitò alla coesione per affrontare la nuova guerra santa.

Cohen, addirittura, scrisse lettere alla comunità ebraica americana per convincerla che la causa tedesca fosse la stessa causa ebraica. Morirà prima di vedere la fine ingloriosa, sul campo di battaglia, del dio che aveva contribuito a creare, e prima di poter sperimentare il fallimento del suo progetto di sincretismo ebraico-protestante naufragato nel campo di sterminio di Auschwitz, e a Theresienstadt, dove perirà nel 1942 pure Martha, sua moglie.

Cohen e la sua generazione non si resero conto, tuttavia, non solo dei dettagli, seppur tragici e sanguinosi, del loro errore, ma neppure del fatto che il modo che avevano di intendere la religione non era, di necessità, l’unico. E infatti si passò dal mito della religione civile dell’Impero guglielmino al profetismo apocalittico e solitario della repubblica di Weimar, nei cui anni apparvero due opere ritenute fondamentali da Lilla per comprendere quell’epoca: l’Epistola ai Romani (1922) di Barth e La stella della redenzione (1921) di Rosenzweig. Fa specie, certo, vedere Barth invischiato in una trama dalla quale si ha ragione di pensarlo assai distante, eppure il linguaggio messianico, la retorica antimoderna e antiumanistica, la solitaria attesa di una decisione di salvezza da parte di Dio e per la salvezza da parte dell’uomo; lo iato tra la temporalità dell’uomo e l’eternità di Dio, verso la quale bisogna tendere lasciando il mondo alle sue noie – tutto ciò doveva pesare in quel turbinio d’eventi: bene e male, l’antinazismo di Bonhoeffer e la prima adesione al nazionalsocialismo di Gogarten si diedero battaglia, convinti fosse ‹‹il momento decisivo››.

Fu quella una stagione di messia: del Volk tedesco del 1933, e del proletariato del 1917. Entrambi venuti al mondo alla fine dei tempi, per compiere la redenzione laica della e nella Storia. Emblematico il pensiero di Ernst Bloch, che vede l’uomo muoversi sul cammino tracciato da Mosé, da Gesù e, infine, da Marx.

In conclusione, tra afflati mistici e prosaiche interpretazioni messianiche è difficile, secondo Lilla, tenere Dio lontano dalle nostre faccende. La laicità non è questione di istituzioni e di carte costituzionali, né è l’acquisizione di un momento dato: è, semmai, la coscienza di muoversi continuamente su un terreno accidentato per natura. Avere questa coscienza è, in fondo, l’unico modo che abbiamo per prevenire una rovinosa caduta.

La lettura del lavoro di Lilla induce a più caute osservazioni circa il rapporto tra religione e politica. La religiosità è insita nel cuore dell’uomo: poco importa che non sia il Dio di Abramo a parlare, o che addirittura non esista alcun dio. La coscienza dell’uomo abbisogna di una fede, cioè di un ideale al quale conformare la propria vita per darle un senso: ideale religioso o intellettuale che sia questo fine, questa ‹‹redenzione›› dell’esistenza, uno Stato che si dica liberale non può imporne uno e impedirne un altro. Inoltre, se la democrazia abiura il discernimento di ciò che è bene da ciò che è male, lasciando che lo spazio pubblico venga fagocitato dalla sfera affettiva dell’individuo, non si vede come poi si possa fare appello agli attori politici perché approvino leggi ‹‹secondo coscienza›› senza farsi condizionare dal proprio credo: ammesso che il concetto di credo identifichi solo i sentimenti e le dottrine religiose, come può l’attore politico dividere fuori di sé, ciò che già vede unito così internamente a sé? E, poi, questa suddivisione non smentisce proprio ciò che afferma? Chi decide quale atto politico è stato compiuto secondo ciò che taluni identificano come ‹‹buona coscienza››? E infine: perché una coscienza è buona e l’altra no? E quando un atto politico, ancorché generato dalla corrotta coscienza dogmatica, venisse giustificato con ragionevoli argomentazioni, ha diritto di essere discusso dalla comunità dei parlanti o no?

Lilla è conosciuto come attento studioso del pensiero di Vico, al quale ha dedicato un saggio nel 1993. La politica è esercizio di prudenza, dunque, non produzione di sistemi ideologici astratti, di teorie scientifiche universali e immutabili. Ed è negli stessi interessi degli uomini evitare che la situazione sfugga loro di mano, cedendo ad esaltazioni unilaterali di passioni incontrollabili. E se chi fa pubblica professione di agnosticismo non può scegliere preventivamente quale coscienza abbia diritto di esprimersi, colui che, invece, ha un credo, dovrebbe evitare di legare troppo le sorti della propria fede al tenore e ai risultati della discussione politica.

Il credente può, invece, profittare proprio della democrazia, che se non è il migliore dei sistemi possibili, certamente è l’unico sul quale, attualmente, ci si trovi tutti concordi. Ora, proprio la partecipazione democratica a un tempo attenua vecchie frizioni e apre a nuove possibili soluzioni: non solo è venuta meno l’identità di Stato e sovrano, ma la volontà dello Stato si mette ed è messa in discussione dalla mia volontà, la quale magari non avrà la meglio sulle altre, ma non deve necessariamente averla perché io, credente, non abbia abbandonato questo mondo al male che lo ammorba. Non ho da invocare apocalissi sulle novella Betel, né da interrogarmi sulla moralità di un tirannicidio: devo solo far valere ‹‹le mie ragioni››, quale che sia la loro scaturigine in me. Il mondo che uscirà fuori da questa discussione magari non sarà perfettamente corrispondente con l’idea che ne avevo, ma in tal caso non ne avrò alcuna colpa: esso sarà solo il prodotto dell’interazione di ogni singolo uomo chiamato alla risoluzione di problemi – ogni uomo col proprio vissuto e con le proprie ‹‹buone ragioni›› da far valere. Poi, ovviamente, ciascuno si assumerà la responsabilità di come e di quanto ha partecipato a produrre: l’importante è aver agito bene per quanto si poteva. Non avrò creato un paradiso, certo – tocca agli uomini crearlo? – ma avrò ridotto al minimo il pericolo di generare un nuovo e sanguinoso inferno.

Antonio G. Pesce.

13 dicembre 2010

RIPRESA LENTA PER LA SCUOLA ITALIANA


di Antonio G. Pesce- Che ci vogliano soldi per evitare che un tetto ti caschi in testa, questo è assodato. Di pezzi d’intonaco, calcinacci, e perfino delle tegole ne vengono giù parecchi dai soffitti delle nostre aule. C’è pure scappato il morto. Se n’è andato così Vito Scafidi, giovane diciassettenne torinese, nel non lontano 2008. Arrivarono le promesse. Per i fondi, abbiamo dovuto attendere il 2010, e non si sa ancora come valutarne l’entità.

Per evitare, però, che crolli la didattica, che ci vuole? Ce lo chiediamo – retoricamente – ogni volta che escono i dati Ocse sull’istruzione, l’indagine che vede coinvolti i quindicenni di 70 paesi, metà dei quali appartenenti appunto all’organizzazione europea. E ogni volta, da quando si fanno (era il 2000), noi risultiamo al di sotto della media. C’erano dubbi? I nostri giovani non sono un granché nell’analisi e nella comprensione di un testo. Di un testo – attenzione! – scritto nella propria lingua. In matematica non va meglio, e in scienze neppure.

Ora pare ci si stia risollevando, per quanto positivo possa essere considerato un dato in cui si recupera qualcosa, ma che comunque dice che nella lingua (italiana) abbiamo totalizzato un punteggio pari a 486 contro i 493 della media Ocse, in matematica abbiamo perso 496 a 483, e le scienze 501 contro 489. Quando perdiamo una partita di pallone contro l’ultima nazionale dell’est europeo, l’indomani i giornali sono pieni di improperi contro il commissario tecnico. In questi giorni il lettore ha potuto ammirare altrettanto zelo nello stimmatizzare lo sfascio formativo?

Al di là della rabbia del momento, se attentamente analizzati, i dati ci indicano alcune “differenze” che, frattanto che si cerchi come non far morire d’asfissia la scuola e l’università, possono essere affrontate se non proprio a costo zero, sicuramente con un impegno economico davvero minimo (se poi non siamo più nelle condizioni di trovare una cinquantina di milioni di euro, allora chiudiamo baracca, ché facciamo prima).

Innanzi tutto, si registrano scarti consistenti tra i licei e i professionali. Forse sulla lingua lo si potrebbe anche capire, ma in scienze e matematica no. E se consideriamo che i professionali dovrebbero dare un’istruzione più immediatamente spendibile e conforme al territorio, capiamo subito perché da noi non c’è alcun lenitivo al male della disoccupazione giovanile. Essere giovani, dunque scarsa esperienza, e per di più con un curriculum non proprio brillante non è il passepartout adatto per trovare subito lavoro. Dunque – diciamolo in modo sbrigativo, ma così ci si capisce meglio – dobbiamo smettere di pensare ai professionali come al parcheggio di chi, della (propria) scuola media, non ricorda neppure l’indirizzo, perché non c’è mai andato o quasi. Il diritto allo studio implica un correlativo dovere di studiare. Tutto il resto è accozzaglia pedagogica e sociologica.

Un altro scarto interessante è quello registrato tra nord e sud d’Italia. Su questo tema si è discusso tanto: la Lega ci ha fatto pure un’estate di campagna elettorale (quella del 2009). E solo in un Paese come il nostro si possono dire idiozie in pubblico senza essere censurati dal proprio pudore (innanzi tutto), e a mali estremi dall’intelligenza altrui. Anche perché chi dice che al Sud i docenti le lauree se le comprano, dovrebbe poi spiegare perché il Nord risulti più brillante, nonostante abbia tanti meridionali come docenti, da spingere onorabili onorevoli a proporre leggi ghetto per escluderli dalle serenissime lande padane. La verità è che in un Sud che sempre più si spopola di giovani e si priva di speranze, la scuola viene intesa come ‘ammortizzatore psico-pedagogico’. E a ciò è da giungere l’interesse dei presidi a che gli iscritti ai propri istituti non si diradino. Questo da Bolzano a Ragusa. Ma al Sud si fa uno sconto supplementare. Decidano, a questo punto, i professori se vale la pena perdere la propria dignità, e andare a ripetizione come proposto qualche anno fa dal ministro Gelmini (detto da lei, poi, è proprio umiliante).

Infine, pare si possa registrare anche uno scarto tra maschi e femmine, con un primato di quest’ultime. Chi è entrato in un’aula non si stupisce. Chi conosce i ragazzi a quell’età, perché li incontra in qualità di docente a scuola o di educatore fuori dalle aule, sa che c’è differenza anche di temperamento. Le classi miste avevano un significato quando vennero introdotte. Ora non più. La storia procede: restare fermi è la morte. Non sarebbe un dramma ritornare a classi separate, e rendere più specifici metodi, toni e forme di insegnamento, più legati allo sviluppo psicologico del giovane. In considerazione anche del fatto che, dentro e fuori dalla scuola, i ragazzi avrebbero comunque la possibilità di socializzare tra loro, al di là dell’appartenenza di sesso.

Vedrete, però, che di tutto questo, così come non se n’è parlato finora, non se ne parlerà in seguito. Noi continuiamo ad illuderci che il problema sia soltanto economico e giuridico. È soprattutto pedagogico.


Pubblicato il 10 dicembre 2010 su www.cataniapolitica.it

10 dicembre 2010

FINI ALLA GRANDE GUERRA


di Antonio G. Pesce- Fini ha probabilmente ragione: il governo non esiste più. Difficile dire da quanto: sicuramente da luglio, ma non si avrebbe torto a retrodatare la morte dell’esecutivo, magari arrivando ad aprile. Dopo le elezioni regionali, qualcosa si è incrinato. È quasi una legge fisica: il potere finisce per logorare. Logora chi non ce l’ha, secondo la massima filosofica espressa da quel machiavellico di Andreotti. Logora, però, pure chi ce l’ha, e questa è un’altra storia. Si può venire logorati da un potere che pesa, fatto di scelte severe e decisioni gravi. E non è questo il caso, perché già dall’inizio, quando apparentemente tutto filava liscio, la coalizione non si è mostrata all’altezza delle aspettative. Si può venire logorati anche dalla supponenza: avere troppa fiducia nella sintonia col popolo che si governa. Fiducia costata cara il più delle volte: se a Berlusconi cade il governo e non la testa, è già un bel risultato da portare a casa. Nella storia non si è sempre stati così fortunati. Evidentemente, la democrazia procedurale a qualche cosa serve.

Eppure, quando qualcuno dice che l’epoca berlusconiana è al suo tramonto, dovrebbe poi affrettarsi a raccontare quale astro potrebbe illuminare la nuova alba. Certo, se cambiare si vuole, non deve trattenere l’incertezza del futuro. Né tanto meno si deve accettare la minestra riscaldata per non gettarsi dalla finestra. Basta poco a sciogliere il dilemma: basta starsene bell’e seduti a tavola, ma dirlo chiaro e tondo che razza di poltiglia ci è stata servita nel piatto.

Partiamo dagli amici più intimi del Cavaliere. Ormai si respira l’aria di chi ha già calato in mare le scialuppe: lo si era giudicato male, ma Giorgio Straquadanio che fa le pagelle dei vigliacchi pare l’ultimo giapponese pronto a vendere cara la pelle. E se l’esempio lo da lui, si capisce che la seconda portata – che sta per arrivare – non sarà migliore della prima. Perché gli altri che fuggono, non fuggono dalla forza dirompente di un dittatore, ma dalla debolezza di uno che soccombe: gli uomini amano il potere. E se non l’hanno, amano guardarlo da vicino. C’è chi si sta riciclando: per molti versi, già lo stesso Fli è una grande operazione di riciclaggio politico.

Ora, passi Mara Carfagna: sirene del genere incantano solo la sinistra, che ha regalato un po’ di consenso a Fini dopo averlo incensato quale novello Bruto. (L’ultimo sdoganamento c’è stato ad opera della sinistra: magro destino quello di chi deve continuamente cercare conferme). Ma che perfino il fidato Letta si faccia scappare qualche parola impropria con un ambasciatore, è il chiaro sintomo di come non ci si possa fidare di nessuno in quel mondo fatto di palazzi e palazzinari. Finché il potere brillava alto in cielo, si sono esposti come lucertole alla sua luce. Quando sono arrivate le prima nuvole, hanno detto che l’abbronzatura non è più chic ma tamarra, e hanno scelto l’ombrellone del ‘buonsenso’, del ‘buongusto’: del conformismo insomma. Sedici anni a fianco dell’imprudente Berlusconi, e nessuno si è mai accorto della sua propensione al divertimento boccaccesco? Suvvia, ci si vuol far credere che il Cavaliere il vizio delle donne e delle leggi, entrambi a suo uso e consumo, lo ha preso da un paio d’anni a questa parte?

I re possono essere tirannici. Ma più sciagurati dei loro misfatti sono soltanto i vassalli che li hanno giustificati. Il governo è finito – dice Fini. Il parlamento, invece, com’è messo? A settembre si è votata una fiducia. A dicembre si voterà una sfiducia. Nel frattanto, tanta responsabilità nazionale ha imposto la chiusura dei lavori. Forse per non mettere in imbarazzo un presidente della Camera, ogni giorno così ligio al proprio dovere di capopartito, da sfruttare qualsiasi occasione istituzionale per scrivere l’ennesimo paragrafo della sua saga personale. Mentre i suoi luogotenenti organizzano i battaglioni per l’invasione finale. Sta crollando tutto. Qualcuno dal dente avvelenato pensa che sotto le macerie ci resterà solo l’imperatore. Sbaglia. Un impero crolla perché non ha più sangue nelle vene, non solo nella testa. Ma è interessante vedere l’impero che brucia. Se in tempi di pace si distinguono i buoni dai cattivi, in quelli di terrore spicca anche un’altra classe di soggetti: gli opportunisti.

È una grande opportunità dare l’assalto alle deboli mura di un Paese senza memoria. Perso ogni valore, almeno che non si perda il mestiere. Per alcuni è facile vivere senza ideali, molto meno senza poltrona. Ma faccia attenzione la truppa: le guerre sono quelle ordalie dove muoiono in molti. Ma la totalità di essi è quasi sempre senza alcun grado sulle spalline.


Pubblicato il 4 - dicembre - 2010 su www.cataniapolitica.it

8 dicembre 2010

LA LAUREA IN IDIOZIA E LA MELONI



di Antonio G. Pesce- Il dubbio viene, a vedere certe cose. Non servono scuola e università o coloro che le frequentano? Il cane che si morde la coda è apparso qualche sera fa, declinando la propria spocchia su un cartello. Nella trasmissione dalla conduttrice stridula era presente, tra gli altri, il ministro Meloni, responsabile di un dicastero – quello della Gioventù – che, dati i bassi tassi di natalità dell’Italia post-sessantottina, è ormai diventato una riserva di caccia. Un ministero per i giovani si può fare solo in un paese di vecchi. L’Italia appunto, che di cultura – quella avariata della rivoluzione libertaria – ormai ci marcisce. Tanto che se l’appende sul petto come medaglia ad un valore certificato ma ancora non provato. O la espone come gogna per i reprobi.

È stata la stessa Meloni a farlo notare quel cartello che, con scarsa fantasia – ormai anche la fantasia è precaria in Italia, dopo gli anni passati al ‘potere’ –, le rimproverava di essere ministro pur senza essere laureata. Il ‘pezzo di carta’, che fino a qualche decennio fa veniva ritenuto un passepartout da sfigati, oggi è divenuto il fiore all’occhiello delle nuove leve di moralisti al soldo, più che del conformismo, della battuta facile. E cretina.

Ci sarà chi vorrà far notare che la Meloni non è l’unica, tra coloro che siedono in parlamento, ad essere soltanto diplomata, né la prima: sarebbe una buona risposta in un’Italia in cui tutti tengono ‘partito’, ma è bene che la dia chi, di questo tifo da stadio ormai dilagante, sa di potersi approfittare. A quanti in vita loro non hanno avuto mai tanto spirito da elevarsi a pubblici censori di censo accademico, basterà ricordare anni non molto lontani, ma passati a consumarsi al fuoco di ben altri ardori.

Ancora quindi anni fa, quando era chiara la distinzione tra il presidente della Repubblica e quello del governo, e non si facevano sconti alla differenza tra un indicativo e un congiuntivo, nessuno teneva in debito conto le pergamene. Il secchione del primo banco, bravo fino all’inverosimile, che vantava vocabolari aperti e nessun impegno civile – si trattasse soltanto di qualche ora di volontariato, o della lettura di un giornale o, ancora, di un libro (sì, un libro), letto fuori dagli obblighi della naia liceale – era ritenuto l’inconcludente dannato nel girone delle frustrazioni materne. C’era una generazione che si vantava delle emozioni per una lettura di Dostoevskij o della responsabilità del lavoro. Ciascuno fermo nella propria coscienza di dover essere qualcosa di più di un fighetto dalla buona fedina scolare.

Si può perdonare tutto a chi non perdona nulla, perfino l’errore grammaticale. Anche perché non farlo, avrebbe effetti sulle speranze di questa bella gioventù, ben più catastrofici di quelli delle glaciazioni sui dinosauri. Ma di essere così banali, da trasformare la politica in un’arena di belle figurine da salotto barocco, questo proprio no: ciascuno vale per quel che vale la propria dignità, e non le firme dei rettori appesi sui muri. La cultura non serve per dividere il colto dall’incolto, ma per suddividere diritti e doveri. E non la si trova solo all’ombra degli opifici di titoli, la cui manovalanza sforma manifatture neppure degne della dozzinale fabbricazione cinese. La si trova sul cammino della vita: la cultura è l’occhio con cui l’uomo scruta la sua anima e la mano con cui soppesa la propria dignità.

La riforma Gelmini è pessima? Allora è la buona bilancia per l’idiozia sfornata in massa dai nostri accademifici.


Pubblicato il 3 dicembre 2010 su www.cataniapolitica.it

2 dicembre 2010

"NO-SILVIO, NO-PARTY" (LO DICE WIKILEAKS)




di Antonio G. Pesce – Doveva essere la fine del mondo. Un altro 11 settembre. E invece, almeno per ora, dopo la balla di Giacobbo sui Maya e corbellerie del genere, è la più ridicola isteria collettiva che si ricordi, la più inutile corsa telematica a cui abbiamo sottoposto i nostri Pc. Più interessante quella di qualche anno fa – correva l’ultimo anno di Visco come sottosegretario di Padoa Scioppa – quando almeno c’era da curiosare nelle dichiarazione dei redditi del vicino di casa. (Per quello che possa valere in un Paese di evasori, ovviamente).

Che è successo? È successo che in rete sono finiti rapporti riservati – come ogni pettegolezzo, del resto -, alcuni prodotti direttamente dagli ambasciatori statunitensi, altri da loro semplici funzionari per dimostrare che qualche cosa la fanno, tra un ricevimento e un ballo. A noi è toccata la supplente. Come ai tempi della commedia sexy all’italiana, quando ci facevano scuola Edwige Fenech, Gloria Guida, Nadia Cassini. È stata la supplente dell’ambasciatore Usa, nel periodo intercorso tra Spogli e Thorne, ad aver scritto le cose di cui tanto si discute nei salotti telepolitici.

La poverina – dalla foto sembra davvero un’animella candida, un visino rubicondo – scandalizzata dal comportamento increscioso del nostro gentil Cavaliere, piuttosto che spedire al dipartimento di Stato una copia di Repubblica o dell’Espresso, ha pensato bene di fare un breve resoconto. Perfino pudico. È bene ricordare che dall’altro lato avrebbe potuto esserci Hilary Clinton. Figurarsi: due donne che parlano delle sozzerie di un uomo, per giunta con una delle due già ferita dal marito nell’orgoglio!

Povero Silvio! A conti fatti, è poco quello che gli hanno scritto. E infatti l’americanella si preoccupava perfino della salute del nostro presidente, come – ho l’ardire di credere – neppure la D’Addario. Leggeteli quei documenti: la signora si angustia, teme che Silvio non dorma abbastanza, che venga sciupato da quei ‘rodei’ notturni. Vedi se la D’Addario si sia mai preoccupata di non strapazzare troppo il Nostro.

Sarebbe stato interessante sapere di più dei rapporti con Putin. Si tratta solo di questioni energetiche, dal momento che siamo rimasti a piedi dopo la chiusura delle centrali nucleari, o c’è dell’altro? Qui tutti cauti, perché anche la sinistra, che s’intende di morale come più neppure certi preti, non ha ancora chiaro come risolvere le proprie amletiche questioni: ecologista o industrializzata. E i documenti in rete non dicono nulla, perché inutili resoconti di sfaccendati burocrati di Stato.

Insomma, se non esce altro, stiamo freschi di poter campare su questi fogliacci e riempirci così i giornali per due, tre mesi, aspettando che venga lo spettacolo elettorale a dar loro il cambio. Il giornalismo italiano dovrà rimboccarsi le maniche, e senza aiutini esteri cercare di raccontare la verità, magari quella di casa nostra, dove ormai non ci sono più soldi neppur per comprare il pettegolezzo nostrano.

Volete che agli italiani interessi qualcosa di quattro rimbambiti impiegati, quando ancora mancano un migliaio di persone di Avetrana all’appello delle telecamere? La guerra? Voi dite la guerra? Orsù, signori: di serio c’è che volevano fare la festa all’Iran, e innanzitutto un po’ di gente del mondo arabo. E che sarà mai! Ci potranno scappare al massimo quattro bombe, mica quattro bunga bunga.

La verità è che “No-Silvio No-party”. Tutto il resto è noia: i francesi con un re nudo (ed è già tanto che abbia ancora la testa incollata); i tedeschi con la loro monotonia; gli inglesi con i loro scandali di corte. Più che bollettini diplomatici, sembrano cronache storiche. E a voler essere onesti non si sa bene cosa ne esca più malconcia, se la presunta efficienza americana o l’altrettanto sbandierata creatività.

Niente di nuovo nel cortile del mondo. Rientrati a casa, possiamo consolarci con Italo Bocchino, intento a farci capire che la politica estera di Berlusconi è sbagliata. Peccato che per anni è stata in mano a Gianfranco Fini. Poi dicono i film (e le gaffe) americani! Noi lo spasso lo abbiamo in casa.


Pubblicato il 30 novembre 2010 su www.cataniapolitica.it

1 dicembre 2010

SICILIA E BERLUSCONI, ULTIMO TRENO


di Antonio G. Pesce - Ieri il governo ha presentato alla stampa le linee principali del progetto per il Mezzogiorno, uno dei cinque punti presentati da Silvio Berlusconi alla Camera il 29 settembre, quando incassò la fiducia anche del gruppo dei finiani. Non è dato sapere precisamente tutto il dipanarsi di uno stanziamento che, alla fine, conterà circa 100 miliardi di euro. Di sicuro, se non vuole essere l’ennesima mangiatoia nella quale foraggiare la grande industria del Nord, i “poteri forti” (e loschi) del Sud e la politica nazionale, dovrà essere mirato al potenziamento della rete dei servizi. Insomma, non può essere una nuova Cassa del Mezzogiorno.

Come dimostrano attendibili statistiche, buona parte delle aziende che delocalizzano non vanno alla ricerca di un mercato del lavoro vergine, dove comprare manodopera a basso costo, bensì di nazioni dalla burocrazia e dalle infrastrutture funzionanti. Il progetto del governo andrebbe in questo senso, dal momento che pare si voglia potenziare, tra le altre cose, anche il sistema di locomozione ferroviario – si è parlato della tratta Catania-Palermo. Inoltre, la nascita della Banca del Sud potrebbe dare un sostegno ad una possibile rifioritura di aziende nel Mezzogiorno. Ammesso che la Lega lo permetta: in un momento di profonda mancanza di liquidità, togliere alle banche – quasi tutte del Nord – i risparmi di un Sud magari non ricco ma non sprecone, non è proprio conforme all’andazzo registrato negli ultimi due anni.

Tuttavia, Berlusconi non ha altre possibilità. È l’ultimo treno che passa, e anche se ancora non c’è l’alta velocità, è di quelli che, se lo perdi, rimani al palo definitivamente. Il divario tra il nord e il sud del Paese in questi anni non si è ridotto. È semmai cresciuto, non tanto economicamente (forse, proprio in questo campo la forbice si è meno ampliata), quanto politicamente e socialmente. Tante battute a mezzo stampa – ricordiamo l’estate del 2009? – hanno creato un clima culturale che se non fosse perché, frattanto, l’opinione pubblica leghista ha trovato nei non meglio identificati “clandestini” il proprio capro espiatorio, avrebbe dato alla ricorrenza dell’unità nazionale un sapore ancor più ironico di quanto non abbia già. Ovvio allora che, dato l’avvicinarsi delle elezioni politiche – nessuno può credere, in tutta onestà, che il Cavaliere rimanga per altri due anni come bersaglio di Bocchino e compagnia – Berlusconi tenti di recuperare il tempo perduto. Perché che del tempo sia andato perduto questo è certo. Il problema è, semmai, un altro: è recuperabile? Dato che altro in cantiere non si vede, è assai probabile di sì. Vedremo quanto del tanto perso.

Il Sud d’Italia deve, dal canto suo, fare molto di più. Magari cominciando a pagare di faccia propria. Non si va da nessuna parte senza una chiara politica civile. Senza quelle speranze andate disilluse dopo il ’92, ma che cambiarono la vita di molti di coloro che, oggi, sono persone mature e, senza andare da Fazio e Saviano, orgogliosamente contro la mafia. E come l’omertà è ormai considerata un obbrobrio, e sta perfino passando di moda pagare il pizzo, così deve diventare costume comune l’attenta selezione della classe dirigente. Non sarà facile. I primi cadranno sotto i colpi della disoccupazione, falcidiati dalla raffica di clientele di cui il potere si circonda. Ma se siamo fieri di essere italiani, è perché qualcuno da Custoza a Caporetto fino a via D’Amelio ci ha creduto.


Pubblicato il 27 novembre 2010 su www.cataniapolitica.it