"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

18 febbraio 2007

LA PENOMBRA IRREALE DEL SOGNO


La luna canta la sua nenia

innanzi al fosco destino che si para,

e si vela in un sommesso pianto.


Ricompare piano la triste stella

all’orizzonte del mattino,

mentre ogni illusione è spazzata

dalla cinica forza dell’evidenza.


Ma era bello lasciarsi cullare

dalla penombra irreale del sogno.


In alto portasti l’ebbrezza della speranza,

ed ora che cali, luna, t’avvolge

l’angosciante vertigine della solitudine.


Eppure l’eclissi non è morte.

È il cuore che finalmente riposa

sul profondo seno del cielo mancato.


In alto ancora vibrerà la sfida.

Domani. Guarderanno immobili

le stelle dell’ultimo cielo la tua luce,

che non detta il fato agli uomini,

ma ne segue il pendolante cammino

tra l’amore e la follia.

11 febbraio 2007

LEGGERE HEGEL

Hegel. Hegel è come il bullo della scuola. Hegel è come l’impiegato impettito o il frustrato professorino da cattedra, parato davanti a te durante un esame universitario. Hegel è come la morte, che ti incute paura e sente il tuo odore quando diventi madido di sudore, con lo stesso olfatto che i cani usano per il tartufo. Hegel non va fatto parlare: va interrogato. Non temuto, bensì sfidato.L’unico modo che si ha di capire uno dei più grandi geni della filosofia è anche il meno riguardoso. Ma è anche il solo che si ha a disposizione, se non si vuole venire irretiti da questa sirena. Perché ognuno ha le sue di sirene, e ad ognuno il suo buco nero: l’antimateria di Hegel sta nel suo stile. E il suo stile cede il passo quando, omeopaticamente, lo si affronta con la medesima determinazione che esso mostra nel guardarci in viso.

10 febbraio 2007

L'ORA NONA

I funerali sono intesi, anche da G.B. Vico, come un atto di civiltà e di pietà. Ma di pietà verso chi? La civiltà esploderebbe di pazzia se non avesse l’angoscia il suo sfogo, così come la stessa civiltà imploderebbe, decadendo verso la barbarie, senza il senso comune del pudore. I funerali sono ormai divenuti,o forse lo sono sempre stati in contesti poco cristiani, riti di esorcizzazione collettiva non già della morte, bensì dell’angoscia. Quel che ci pesa di più non è il fatto che la morte di un altro mi ricordi ch’io pure dovrò morire. Ma che debbo aspettarne l’arrivo. Non già la morte, ma l’attesa ci snerva più che davanti al tormento del dopo. È il prima che ci angoscia – ed è ridicolo, perché è dopo che si gioca la partita.
Stringersi ad altri; lasciare che il dolore sia impersonificato proprio da chi non può fare a meno di viverlo; infine, quando troppo alto si fa il grado di angoscia, sfogarla con un lungo e commosso (dicono) applauso: il rito è consumato. La vita torna nel suo anonimato – perché l’angoscia è niente altro che il dibattersi frenetico della vita sana, vera, pura, autentica che vuole trovare il suo germoglio oltre la superficie della sterile terra in cui è stata piantata. Ma nessuno – o quasi – coglie l’occasione per dissodare per bene il terreno: il dolore non è visto che come sconfitta. Eppure è solo diventando deboli che si scopre la propria forza. Solo il dolore e la sofferenza aprono finestre inimmaginabile sulla realtà.
Solo il cammino verso il Calvario è la strada che conduce alla salvezza.
Mai si avrà tanta fede nel sacrificio come nei peggiori momenti di prostrazione. E bisogna aborrire la stanchezza del corpo, e ricacciare indietro ogni punto di disperazione: riposarsi è tradire. Bisogna studiare, invece, e leggere, e scrivere, e pregare. E coltivare il silenzio e l’angoscia che fa lievitare. Fino al termine di ogni passione. Fino all’ora nona.
Ma ogni ora deve essere un’ora nona. Di fatto, ogni ora è un’ora nona. Solo che l’incuria e l’oblio di noi stessi ce ne nega la coscienza.
La morte può accampare diritti sull’ultima mossa, ma non deve mai contare sulla nostra resa.

6 febbraio 2007

MACERIE

La vita col passare del tempo assume i tratti di una battaglia. Di un grossa, sanguinosa battaglia, nella quale ogni giorno hai le tue perdita da contare: affetti, ideali, amicizie, progetti, speranze. Persone. Per i molti che lasci sul campo, pochi entrano a far parte della brigata. E per questi, poi, ti tocca sentirti in angoscia in ogni istante, perché ogni momento potrebbe essere quello che te li porta via.

Cadono in cento, mille al tuo fianco, e non passa giorno in cui non ti chiedi quando sarà il tuo turno. Tu marci, ma la stessa marcia ti logora le ossa, le forze, i nervi, tanto che fai di tutto perché non ti penetri dentro la voglia di buttare tutto via, e aspettare ai bordi della strada che arrivino a prenderti. Punto.

E non hai altre speranze. Il mondo è meglio lascialo perdere: corruzione, malcostume, il sovvertimento dello stato di natura spacciato per progresso morale, politico ed economico. Hanno fatto di tutto per distruggere i nostri pilastri spirituale: filosofia, arte, letteratura, musica. Tutto giace nella melma del degrado, nella fiacchezza di ogni tensione esistenziale. Le nostre accademie sono, ad andar bene, in mano ad emeriti imbecilli, quando non a farabutti titolati. La nostra Patria e le nostre città governate da pusillamine.

Solo Dio ci può salvare.

Ed io non sono mai stato così tanto prostrato, né mai così vicino dal gettare la spugna.

Dio mio quante macerie.