"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

6 agosto 2010

QUESTA E' LA POLITICA ITALIANA







di Antonio G. Pesce- Delle nostre istituzioni, di tutta l’intera nazione ne hanno fatto un bivacco per i loro uomini. In tutti i sensi. Perché sono loro che li scelgono. Ci hanno detto così: la legge elettorale avrebbe permesso alle élite dei partiti di mettere in lista i migliori. Non avremmo votato solo il più suadente. Ma quello che, col marchio di garanzia – il bollino blu che la reclame della nostra infanzia decantava come simbolo di qualità – sarebbe finito sullo scanno. Gli italiani hanno sempre qualcosa da dire al politico di turno che non sa quello che deve dire lui davanti ad un microfono.

Però – è strano – diventa fastidiosamente incapace di scegliere i suoi rappresentanti. Quando li vediamo in strada, scortati come se detenessero i segreti più importanti del nostro Stato – e magari neppure sanno che, frattanto, il capobastone sta vendendo il loro seggio al miglior offerente; quando fanno arrestare il decollo di un aereo, perché la loro amante non ha fatto in tempo a truccarsi nei servizi dell’aeroporto; quando la loro pelle smette di puzzare come la nostra, in strada con le buste della spesa, o sui tram stracolmi di gente stanca e malinconica, per trasudare il lezzo del potere andato a male nel marciume della corruzione; quando li vediamo, chiediamoci quanti di costoro sarebbero capaci di salire su un palchetto, tra due ali di folla, e prendendo un microfono che gracchia, dire le proprie idee ed esporre le proprie ragioni. Se il tizio ha nel nostro immaginario la stessa presa delle sue parole sulle intenzioni della moglie, allora non aspettiamoci nulla che non sia una pappardella di signorsì pronunciati con la lingua a penzoloni.

La retorica non è la politica. Ma lo è la chiarezza delle idee e, come in ogni altro ambito della vita, soprattutto il carattere. Chi di noi sposerebbe una donna, sapendo di portarsi a letto pure la madre? E quale donna accetterebbe un uomo che il mattino si faccia allacciare cintura e striglie dalla mamma?

Che si possa essere mossi dal bieco conservatorismo è probabile, ma non hanno tutti i torti coloro che – anni di meritato servizio tra le fila della destra – non riconoscono più i ‹‹compatrioti›› di un tempo. Dove il senso delle legge? Dove quello del decoro? Dove, soprattutto, l’unità della Patria? parole cadute nel dimenticatoio – ha iniziato Il Borghese, a cui sembrava troppo bigotta la destra che rispettava Dio, difendeva la Patria e valorizzava (almeno nelle intenzioni) la Famiglia. Era la battaglia per sprovincializzarla e la si condusse con qualche foto osé. Ora abbiamo Panorama che ci ricorda le prodezze che, ieri, non si perdonavano che ai socialisti di Craxi e De Michelis.

Ma dobbiamo pure sopportare le urla da teenager davanti al divo belloccio e impomatato? Questo è quello che vogliono gli elettori di centrodestra? Questo quello che “dicono gli italiani” ai Capezzone, ai Bonaiuti, ai Lupi, i quali paiono avere un filo diretto con sessanta milioni – tutti, insomma, perfino i pargoli – di concittadini?

Chi ha visto la diretta televisiva della discussione sulla mozione di sfiducia al sottosegretario alla giustizia Caliendo (uno che sarà pure innocente davanti alla legge, ma che oggi frequenta la stessa marmaglia massonica di ieri), non può non aver avvertito la vertigine del “già visto”. Un deja vue di secoli fa – una storia che si ripete. E la storia ripete la lezione quando gli uomini non l’hanno capita. Non è vero che per il filosofo G. Vico nella storia ci siano “ricorsi”. I ricorsi, semmai, ci sono perché da quell’orecchio l’uomo non ci sente!

Chi gridava un nome, chi ne esaltava un altro. Cori da stadio lì dove il buongusto impone la cravatta. Figuriamoci se non ne esclude la caciara. E poi uno che, in piedi, assiso sugli scudi della gloria dei manipoli, alza la mano con l’aspetto fiero e sereno di un Cesare. Ecco la destra di oggi: il carisma populista di Berlusconi, quello nobilotto e sdegnoso di Fini, quello pacchiano di Bossi. Nel mezzo, una sinistra dalla leadership razionalista, che tratta la politica e la nostra Costituzione come ingranaggi del vecchio apparato ideologico comunista (non avendone, però, la capacità di analisi). Senza nerbo, divisa tra salamelecchi pubblici e privati odi.

L’Italia non può essere questa. È questa? È questa che si divide tra cesariani e pompeiani, e una spruzzata di attendisti smidollati? Siamo davvero sull’orlo di una guerra civile, che divide i cuori, anche se fa salva la vita? L’Italia non è un nazione qualsiasi – è la “nostra” nazione. La nazione che sta lasciando a casa migliaia di noi, e che a migliaia di noi ha distrutto il sogno per il quale s’era studiato così tanto e tanto ci si era impegnati – chi non farà mai il medico, né l’avvocato o il docente, perché nessuno ha mai voluto mettere mano alla riforma sociale di questo paese, spazzandone via la struttura castista (o classista se si voglia).

Per che cosa stiamo combattendo nei bar o nei salotti degli amici? E per che cosa siamo pronti a combattere nel segreto dell’urna? ‹‹Perché là dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore›› (Mt 6,21).

Pubblicato su www.cataniapolitica.it il 5 agosto 2010.

3 agosto 2010

BEPPE GRILLO: il MoVimento a 5Stelle alle politiche


di Antonio G. Pesce - Non se ne parla. I giornali lo snobbano. Le televisioni lo censurano. Ma Belle Grillo c’è, e ci sono i suoi. E ci sono, a guardare i numeri, anche gli elettori. Alle ultime elezioni regionali, mentre i grandi partiti perdevano voti, il movimento lanciato dal comico, Movimento 5Stelle, spopolava nelle cinque regioni in cui aveva presentato candidati, arrivando al 7% in Emilia.

Sono finiti i tempi dell’anonimato, quando perfino Veltroni, da lì a poco defenestrato, poteva chiedersi ironicamente: ‹‹Grillo chi è?››. Una realtà con la quale sia alla politica che alla stampa conviene fare i conti. Non foss’altro per non farsi seppellire i primi, e i secondi per non accorgersene troppo tardi perché l’accusa di faziosità non venga mossa.

Sul suo blog, il comico genovese ha diramato il “comunicato politico trentaquattro”, com’è nel suo stile da guerrigliero resistenzaiuolo, e ha sferrato botte da orbi. ‹‹La telenovela estiva del governo e dell'opposizione – scrive Grillo - occupa tutta l'informazione.[..] La miccia dell'economia è accesa, ma nessuno se ne cura. Le aziende fuggono all'estero dopo i cervelli. La disoccupazione aspetta il botto della fine della cassa integrazione dei prossimi mesi››. Per questo è meglio evitare le urne. Perché intanto l’Italia, secondo grillo, è sull’orlo del fallimento economico, e le elezioni anticipate gliela farebbero precipitare definitivamente. Inoltre, perché la legge elettorale non serve a nulla – l’espressione usata nel comunicato sarebbe un’altra, ma qui ci permettiamo una correzione di tono – e farebbe precipitare il paese nel causo. Infine, perché tanto vincerebbe ancora Berlusconi, che ha televisioni e ha goduto di un’opposizione assente.

‹‹Comunque finisca – continua nella sua dura requisitoria Beppe Grillo - questi partiti, queste facce, appartengono all'album dei ricordi, gli unici a non saperlo sono loro e i giornalisti. Il MoVimento 5 Stelle non compare in quella che questi sorci dell'informazione chiamano "agenda politica". Vorrei ricordare che il MoVimento 5 Stelle esiste, ha raccolto mezzo milione di voti in 5 Regioni autofinanziandosi: 0,8 centesimi a voto il costo delle regionali. Il MoVimento 5 Stelle ha rifiutato 1.700.000 euro di finanziamento ai partiti (gabellati per rimborsi elettorali) mentre i partiti incassano UN MILIARDO DI EURO. Il MoVimento 5 Stelle si presenterà alle elezioni politiche, che siano ora o nel 2013, e alle elezioni comunali del 2011 che riguardano molti capoluoghi di provincia come Milano, Torino, Bologna e Genova. La scelta dei candidati sarà fatta on line attraverso il portale dagli iscritti››.

Da uno che è riuscito a formare la più grossa comunità di lingua italiana presente in rete, c’è da aspettarsi qualsiasi sorpresa.

CSM: IL VICEPRESIDENTE E' MICHELE VIETTI



di Antonio G. Pesce - Una larga maggioranza ha eletto vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura il membro laico Michele Vietti, uomo dell’Udc, con 24 voti e due schede bianche. «Siamo consapevoli che è necessario recuperare il prestigio e il consenso dell'organo scosso da recenti scandali - ha detto Vietti - quindi servirà particolare attenzione alle regole deontologiche, non solo per i magistrati ma anche per i membri del Csm, cercando di recuperare uno stile di rigore e serietà».

Al suo vice, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che in quanto capo dello Stato è anche presidente del Csm, ha fatto sapere che con l’elezione ‹‹ciascun componente del consiglio potrà sentirsi da lei rappresentato ascoltato e garantito nell'esercizio delle sue funzioni. Alla sua competenza e saggezza è demandato il compito di armonizzare le diverse, libere voci e di stabilire col capo dello Stato un valido raccordo istituzionale». Ha invitato Vietti, inoltre, a porre molta attenzione ‹‹nella formazione specie dei giovani magistrati››, i quali ‹‹devono essere consapevoli, in ogni momento, dei difficili compiti loro assegnati, mettendosi in grado di svolgerli con autorevolezza, riservatezza ed umiltà».

Vietti è persona seria e assai garbata nei toni. Nato a Lanzo Torinese il 10 febbraio del 1954, Vietti si laurea in Giurisprudenza, ed è stato vicepretore a Rivarolo Canavese dal 1983 al 1989. Consigliere comunale a Torino dal 1990 al 1997, nel 1996 Vietti si candida alla Camera nel collegio di Chivasso, ottenendo il 34,6% dei consensi. Lo sostenne allora tutto il centrodestra, ma non la Lega. Sottosegretario alla Giustizia nel secondo governo Berlusconi, e al ministero dell'Economia e delle Finanze nel terzo, viene eletto deputato nella circoscrizione I (Piemonte 1) nel 2006, divenendo nel 2007 vicesegretario nazionale dell’Udc. Eletto nel 2008 alla Camera, è stato presidente vicario del gruppo parlamentare del suo partito.

2 agosto 2010

I CAPPONI DEL PDL


di Antonio G. Pesce– Di tutte le pagine scritte dall’uomo sul libro della civiltà, quella più scontata è sempre l’epilogo, quel momento in cui la farsa davanti alla Storia si vuole tragedia per gli occhi dei contemporanei. Non ci rassegniamo a farla finita con serietà, ben che meno noi italiani, che riusciamo a tramutare in melodramma amoroso la commediola della nostra vita politica.

La storia di Medea che, tradita, ammazza i figli avuti col marito fedifrago Giasone non è proprio quello che leggeremo sui rotocalchi a proposito della fine di questa storia d’amore tra Berlusconi e Fini. E non solo perché non ci sono più penne in giro come quella di Euripide, ma per via della stessa materia della narrazione. Più vicina a quella dei capponi di manzoniana memoria.

Si erano messi insieme non si sa bene per cosa. Anche perché nessuno si è mai premurato di dire che cosa fosse Forza Italia, né in che credesse Alleanza Nazionale. Si è sempre obiettato alla sinistra di avere al suo interno come collante solo l’antiberlusconismo. Ed è vero. Ma alla prova dei fatti, il linguaggio della destra di marca liberale (come vogliono essere Fini e Berlusconi, quantunque ciascuno a modo suo) si è arenato sul più banale dei termini che un politico possa usare. Perché che si debba ‹‹fare›› è scontato, molto meno ‹‹che cosa›› si debba fare e ‹‹chi›› debba fare. E, soprattutto, per quale fine ‹‹fare››. Un’azione senza riflessione è lucida quanto quella etilica: alla fine l’ubriaco finisce contro il muro. (Appunto).

Alla direzione nazionale dello scorso aprile in cui iniziarono a volare i piatti in famiglia, il documento finale, letto da Maurizio Lupi, uno che fa professione di ciellismo e di “personalismo etico”, diceva che il Pdl era nato per servire il ‹‹popolo››. Ostentazione di pura fede sovietica sul palco del liberalismo (per quanto all’amatriciana) nostrano. Da allora, sono iniziate le scomuniche dei dissidenti – alquanto abbozzate: senza ortodossia non ci sono eretici. Giorgio Stracquadanio, “maitre a pensar” del garantismo italico, alter ego berlusconiano del granatiere di Fini, ha tentato più volte di riassumere il capo di accusa: è sulla giustizia che il rapporto si è incrinato. Non nelle fabbriche, dove si perde il posto di lavoro e perfino la vita; non nelle università e nella scuola, dove di perdono anni di studio e non si inizia mai una carriera; non nel mercato, dove l’Italia non è più competitiva da decenni: nelle aule di giustizia si serve il popolo; lì dove, dati gli impegni con i sodali di cricca e le compagne di letto, la classe politica non trova il tempo di andare per discolparsi da gravissime accuse.

Diceva un secolo fa Georg B. Shaw ‹‹Gli inglesi non saranno mai schiavi. Avranno sempre la libertà di fare ciò che il governo e l’opinione pubblica pretendono da loro››. Facciamo le dovute correzioni, e capiremo cosa sia possibile dire e fare all’interno del Pdl, senza cadere nell’ostracismo plebiscitario dell’ufficio di presidenza, il Politburo del nuovo ordine liberale.

È che, col tempo, le ossa si intirizziscono, si irrigidiscono gli schemi mentali, e si fanno monolitici i sistemi politici. E, non sopportando le oscillazioni, crollano. Fu così che l’Ancien régime si trovò con la testa sotto la ghigliottina: convincendosi che tutto era sotto controllo. O che quanto meno lo sarebbe stato.

Se Berlusconi è diventato servile col ‹‹popolo››, Fini lo è verso le intellighenzie di cui si è conquistata la considerazione ma non la stima. Per loro rimane il “fascistuccio” di sempre, ma un poco più urbano di ieri, perché ora capace di mentire a se stesso dicendo cose assai gradite ai giornalai. E se a Berlusconi va bene andare da ogni parte purché non in tribunale, a Fini basta una poltrona nel circuito mediatico degli scribacchini del Cervello Unico. È un ambiente saturo quello, ma di camminare Fini non ne ha più le forze. L’anello del potere che ha portato per anni al collo, tra la venerazione di un popolo che ne apprezzava le capacità retoriche, la coerenza e la severità, ne ha conquistato l’animo: non riesce a staccarsi più dal ‹‹suo tesoro›› , quantunque il potere lo abbia così tanto logorato da renderlo irriconoscibile. Stanco, senza più idee, ricicla pure l’acronimo di una passata esperienza, senza poterla più ripetere. Non perché sia morta An – perché ancora avrebbe un popolo e un elettorato – ma perché non c’è più Fini. E, peggio, perché Fini non è mai stato Almirante.

Sommando tutto, c’è chi può affermare di averlo detto quasi un anno fa che la destra italiana fosse morta. Perché questo è il vero dato tragico: l’Italia non ha più uno schieramento di destra. Perché quella compagnia, dovendo fare i conti col potere dell’anello, alla fine si è sciolta, tra invidie, faide, e meschino protagonismo. Alla fine della fiera, la classe dirigente della destra italiana non si è mostrata meno faziosa e più coraggiosa di quella della sinistra.

Un popolo diviso eravamo prima di Fini e Berlusconi. Un popolo diviso restiamo (e forse ancor di più, grazie alle legittimazioni che le idee separatiste della Lega hanno avuto in questi anni). Ed è sicuramente questo ciò che sarà difficile farsi perdonare.


Pubblicato su www.cataniapolitica.it il 31 luglio 2010.