"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

9 febbraio 2009

" IL DESERTO AVANZA ". E HA GIA' INGHIOTTITO ELUANA...



Per alcuni la storia, o ciò che essi pensano sia storia, non sbaglia mai. Non si può essere certi di questo, ben che meno lo si può essere in nome di un semplicistico storicismo, che confonde le ragioni della storia con il conformismo dei vili, però si può star certi che, anche quando la storia sbagliasse, nessuno se ne accorgerebbe, o troverebbe in seno alla società – così suole ormai chiamarsi l’accozzaglia di individualismo e barbari desideri che preme sulle pareti della storia, per alterarne quella presunta vascolarità di ragione che i più dotti definiscono il farsi dell’idea – chi la scuserebbe. Il mondo è malato di collaborazionismo. Cioè appiattimento sulle posizioni del più forte, senza alcuna considerazione sulla veridicità delle medesime. Quando l’appiattimento lo si ha su quelle del meno forte, si chiama eroismo. Si definisce, infine, giustizia lo stare dalla parte giusta, sine ira et studio.

Il deserto dilaga, e ormai è entrato anche a desertificare lo stesso nucleo vitale di questo mondo. Quando sarà morto – quando sarà spento anche l’ultimo bagliore di luce nello spirito umano, allora potremo resettare il programma, e disattivare completamente la vita: vivere non avrebbe più senso, o anche se lo avesse, non sarebbe più significante.

La giovane Eluana Englaro è morta. E questo è un dato irreversibile. Troppi corvi al suo capezzale, e poi la legge non dice mai di aver sbagliato. E questa volta non è il mero spirito soggettivo a urlare il suo particolare richiamo: gli spiriti sono stati incantati dallo spirito oggettivo nella sua forma più alta, la polis. Cicuta o Croce? No, più semplice: niente acqua, niente pane. Avesse ucciso o stuprato, avrebbe potuto contare su tanti oziosi dello slogan, che ne coniano uno ancor prima di aver un valido motivo per urlarlo, e poi attendono come cavalieri decaduti, che un’idea s’incarni in loro e li chiami a giornata per la raccolta sui campi catodici della notorietà. Ma Eluana – questo è il nome che rimarrà impresso – ha fatto molto di più: ci ha toccati lì dove il male del secolo si nasconde, in quella profondità che, come figli di questa era, ognuno di noi si porta seco. Eluana ha gridato –e non voleva farlo, e paradossalmente l’hanno indotta a farlo proprio quelli che la vorrebbero morta già da diciassette anni – una verità insopportabile, sotto forma di domanda: che ne è di una vita che ha limiti? Con buona pace di Kant, niente! E non si tratta di contrapposizioni tra diverse visioni politiche o religiose, ma di duri conflitti tra forze morali e comportamenti educativi e, soprattutto, si tratta di domande. Di una domanda in particolare: che senso ha la vita? E che senso può avere fuori dalla manifestazione delle propria egoicità?

Morta Eluana. Ma la domanda ormai è stata urlata. Si scandalizzi chi vuole, non si può più tornare indietro. E anche quando Eluana avesse risposto, davanti al dolore dell’amico che si spegne su un letto d’ospedale, tempo prima che ciò cominciasse ad accadere anche per lei, siamo sicuri che quella risposta non sia l’eco della risposta che i vecchi lasciano ai giovani? Quanti anni sono necessari, signor giudice, perché un giovane possa rispondere autenticamente a quella domanda sul senso della vita? Coraggio, signori! Non facciamone un caso umano, una tragedia, come suole dirsi in queste circostanze, ma una questione di disputa per i filosofi e i giurisperiti, mera disputa teorica: ne abbiamo sterminati abbastanza di persone, perché un’altra non sia che un numero sul taccuino dei diritti civili. La domanda delle domande – passi: non facciamocela dire dal Papa la risposta, ma neppure la si può leggere sui giornali, notoriamente utili per incartarci il pesce. Qualcuno risponda: quanti anni sono necessari?

Questa la domanda – il perno della faccenda – che rimarrà elusa. E frattanto ascolteremo i meccanici della coscienza e quelli della legge raccontarci cosa è e cosa non è giusto, cosa si poteva e cosa non si poteva fare: i figli del dubbio che riposano sulle cartacee certezze del potere.

La barbarie è entrata. Il deserto è avanzato. Confidiamo nella parola di un pazzo, che prometteva guai a coloro che, dentro sé, nascondono il deserto.


Antonio Giovanni Pesce

7 febbraio 2009

NON IN MIO NOME. Lettera al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano



Signor Presidente,

ho letto con molta attenzione la lettera che Ella ha indirizzato al governo circa il decreto legge sulla persona e la
condizione di Eluana Englaro, cercando di farmi un’opinione il più possibile legata ai documenti, che in realtà dovrebbero certificare fatti, e ai principi inderogabili del nostro ordinamento democratico. Quali che siano i sentimenti personali e le intime convinzioni, non si può derogare a quella razionalità comune che è Legge, e dalla soppressione della quale, anche quando compiuta in buona fede e per la ricerca di un bene maggiore, non si ha che caos e barbarie. Se una legge è ingiusta, lo è già quando sta prendendo corpo in sé stessa senza ancora entrare nel corpo civile che la deve recepire, ed è allora, e non già quando il veleno è entrato in circolo, che i prudenti non dovrebbero assumerla. Poi, si può sempre ricorrere ad antidoti, ma che non possono essere che leggi più rette e sane, e non decisioni soggettivistiche, che anche se esatte nel merito, rischiano di spezzare quel vincolo pubblico che unisce più soggetti nella ricerca del bene comune. Una legge sbagliata, cioè, non è mai dannosa quanto la negazione della stessa che avvenga senza legge: la prima mantiene uno spazio di discussione, seppur formale, che nella seconda viene meno. E con esso, anche la possibilità di leggi venture più giuste ed eque.
Legge dura ma legge, dunque. C’è da dire, signor Presidente, che uno stato di diritto dovrebbe, innanzi tutto, avere ben chiari i limiti della propria azione. Infatti, grandi propositi portano, il più delle volte, ad altrettanto grandi spropositi. E non vedo come possa la legge ordinare ciò che essa stessa deve presupporre. Ora Ella potrebbe obiettarmi che la legge, nell’ordinare, apra a possibilità che non è necessario realizzare, e siamo certi di questo, e tuttavia non si vede come, una volta si sia deciso di farlo, ciò non implichi un pieno coinvolgimento – anche se solo materiale (strutture, fondi ecc) – della comunità in nome della quale è stata emanata.
Se poi il nostro ordinamento giudiziario non prevede talune soluzioni, che sono frutto di estrapolazioni ermeneutiche, davvero dovremmo preoccuparci per il futuro delle nostre istituzioni, sopraffatte dalla pubblicità che casi singoli assumono. Che Eluana Englaro debba morire è chiaro: ogni cittadino italiano può vedere e sentire con quanta supponenza taluni giornalisti del sistema radio-televisivo pubblico trattano una questione per nulla chiara – e ancora non richiamati a quella imparzialità che, in altri casi, è stata pretesa con urla e mobilitazioni politiche.
Vi sono ambiti dove la forma è sostanza, e non mi pare che non si possano rubricare, fra questi, la politica e il diritto.
Signor Presidente, non vorrei che, per fare un torto, quasi un dispetto , a talune confessioni religiose, che si sono prodigate per il sostentamento della giovane Englaro, noi sacrificassimo una vita umana e, con essa, le speranza di riscatto del nostro popolo, oggi felicemente riunito sotto la podestà della legge, che impone a ciascheduno di far valere le proprie ragioni, più che di imporre i propri umori. Siamo una democrazia laica, cioè profana, razionale, ma se questa laicità altro non fosse che un diniego all’autorità religiosa di qualsivoglia confessione di imporre uno specifico diritto, allora avremmo fatto davvero ben poca strada dal Sacro Romano Impero: mille anni e più, e anche allora le leggi non uscivano dalle sacrestie, seppur esprimendo una visione, allora universalmente riconosciuta, affine ad esse. Laicità, invece, è ragione critica, inter-soggettiva, contro ogni dommatismo, che appaia in talare o coperto da ermellino.
Non metto in dubbio che Ella abbia ragione quando, citando il testo costituzionale che, all’art. 111, permette alla corte di Cassazione di poter intervenire “contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali”, fa notare che, con una decretazione d’urgenza, verrebbe a crearsi uno scontro tra poteri dello stato, ma credo di interpretare bene il senso della nostra Costituzione fin dal suo primo articolo, quando affermo che 1) tocca al parlamento della Repubblica legiferare, e che 2) quando non si hanno buoni mezzi per operare, il potere giudiziario farebbe meglio a non intervenire. Certo, tutto quello che stiamo vivendo dimostra la lentezza della nostra classe politica a seguire la realtà che, fuori dal Palazzo e nonostante il Palazzo, si svolge con impressionante velocità, ma ciò non autorizza nessuno a supplire alle deficienze legislative, soprattutto quando il potere supplente e le azioni di esso non possono essere falsificate o controllate da quel potere di cui la somma legge di questo stato decreta la sovranità.
Nel marasma delle competenze, sarebbe stato meglio ricordare che il governo risponde delle proprie azioni urgenti al Parlamento, che deve approvarle o respingerle entro sessanta giorni. Il Parlamento, a sua volta, risponde delle proprie azioni al popolo italiano. Non mi pare si possa dire altrettanto del potere giudiziario. Inoltre, data la materia in questione, non solo non si può punire chi sbaglia, ma non si può neppure riparare il danno dello sbaglio: incontrollabile l’attore, irreversibile l’atto.
Poiché le sentenze vengono pronunciate in nome del nostro Popolo, senza giudicare il Suo operato, mi permetto di far sapere al capo di questo Stato che quella sentenza non porta la mia volontà. Dunque, non è espressa in mio nome.
Con molta sincerità devo dirLe di reputare l’accaduto di estrema gravità e un precedente pericoloso per le nostre istituzioni: è un vulnus della Legge, un’infezione che entra nella nostra societas e a danno di una nostra concittadina, alla quale la comunità nazionale non sente ragioni di concedere quel diritto al dubbio, sempre così agognato per il riscatto del malfattore.
Il male che compiamo giace in fondo all’anima e, forse, trova infine riscatto nella immensa misericordia Divina, quando la vita incontra la sua fine, a causa di sentenze o no. Ma giace pure in fondo al nostro tessuto sociale, dal quale trova l’occasione per riemergere tra le pieghe della storia.
Non mi resta che sperare che Ella sia nel giusto, signor Presidente, e che io mi sbagli.

Con deferenza ed ossequio.

Antonio Giovanni Pesce