"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

15 dicembre 2010

MARK LILLA, IL DIO NATO MORTO

Recensione pubblicata su Sapienza, 3-4, 2010, pp. 372-77.


Mark Lilla, Il Dio nato morto. Religione, politica e occidente moderno, Baldini Castoldi Dalai editore, Milano 2009, pp. 351.


L’opera, il cui titolo originale (The stillborn God) dice ben più di quanto la traduzione lasci intendere (e, forse, anche l’esatto opposto), si presenta in sette capitoli assai densi, frutto di quasi un decennio di ricerche, alcune condotte in centri europei, e basata sulle Carlyle Lectures che l’autore ha tenuto all’università di Oxford nel 2003.

Punto nodale di tutto il ragionamento di Lilla è che non possiamo fare a meno della religione. Non ha alcuna importanza che l’inquietudine religiosa sia generata dalla stessa mente umana, o sia davvero il rapporto tra la creatura e il Creatore: il genere umano ha sempre creduto e, con molta probabilità, continuerà a credere in un Essere che lo trascende. E l’Occidente è stato formato da una religione alquanto singolare – quella cristiana – che può ingenerare due comportamenti diversi: quello dell’anacoreta che si ritira dal mondo, lasciando che il mondo si gestisca da solo e ritenendo ogni impegno una mera illusione, oppure quello di nuovi profeti pronti a vaticinare sulla fine dei tempi e sul volere di Dio.

Non sempre si è saputo moderare le due diverse spinte, e dopo le battaglie seguite alla Riforma abbiamo la nascita di una ‹‹nuova filosofia›› che coltiva l’ambizione di ‹‹sviluppare l’abitudine a pensare e parlare di politica in termini esclusivamente umani, senza fare appello alla rivelazione divina e alla speculazione cosmologica. La speranza era di affrancare le società occidentali da tutta quanta la teologia politica e di guadagnare l’altra riva›› (p.13). Traghettatore insigne fu Thomas Hobbes, la cui opera più nota, il Leviatano, ha lo scopo di ‹‹attaccare e distruggere l’intera tradizione della teologia politica cristiana›› (p.87), spostando l’attenzione dall’oggetto della fede (Dio) al soggetto che crede (l’uomo) e, in modo particolare, sul funzionamento e la struttura della mente di questi, soggetta a superstizione e paure.

La fede lenisce l’angoscia, ma può anche essere utilizzata per conquistare ampie fette di potere politico. La soluzione di Hobbes – nota l’autore - non è molto convincente: un sovrano quasi divino e la riforma delle università dell’epoca, considerate dal filosofo inglese come il ‹‹Regno delle tenebre››. Eppure, antropologizzare la religione ha permesso di mantenerne sotto controllo le spinte distruttive, ed ha prodotto quella ‹‹crisi›› che Lilla chiama la Grande Separazione, la quale ‹‹non presupponeva né promuoveva l’ateismo; semplicemente, insegnava l’arte intellettuale di distinguere le questioni sulla struttura fondamentale della società da quelle supreme riguardanti Dio, il mondo e il destino spirituale dell’uomo›› (p.338-339). Ad Hobbes dobbiamo ‹‹il modo in cui le democrazie liberali moderne affrontano la religione e la politica›› (p.101).

Tuttavia, la fragilità dei rapporti fra sacro e profano, tra la cura delle anime e la cura dei corpi non è delle istituzioni che creiamo, ma intimamente connessa al modo in cui pensiamo: lo stesso Hobbes, mentre separava la politica dalla religione, univa indissolubilmente il credere e la mente. L’uomo crede, perché la sua mente presenta la possibilità di questo stato cognitivo, ed era solo questione di anni perché l’istinto religioso, il ‹‹lato oscuro della mente umana››, venisse pensato come il frutto più nobile. ‹‹Rousseau e Kant provocarono la più grave frattura tra l’approccio anglosassone e quello europeo continentale al pensiero politico moderno e dunque alla riflessione sui problemi politico-teologici che avevano attanagliato la cristianità occidentale per millecinquecento anni. Le conseguenze di quella frattura sono visibili ancora oggi›› (p.129-130).

Il Francese non ha fra i suoi scritti un vero e proprio trattato di filosofia della religione, ma Lilla pone molta attenzione nell’analisi di un testo, Professione di fede del Vicario Savoiardo, inserito nell’Emilio. Rousseau pensa che l’uomo sia buono per natura e che nella religione esprima il meglio di sé: ‹‹La fede del Vicario ha tre punti fermi: nell’universo esiste una volontà creatrice; questa volontà è intelligente, buona e potente; l’uomo è libero. In tutti e tre i casi il ragionamento del Vicario inizia dalla sua esperienza personale e termina ogniqualvolta ritiene inutile andare oltre›› (p.138). Questo spostamento da una fede come credenza oggettiva professata dalla fede tradizionale, ad una ‹‹[professata] solo perché ne ha bisogno per buone ragioni morali e psicologiche›› (p.142) permette di riguadagnare la religione alla vita dell’uomo, anche e soprattutto in chiave sociale, senza quelle scorie – quel mitologismo - di cui il pensiero moderno tentava di liberare il cristianesimo.

Rousseau immagina una fede ‹‹post-cristiana››, insomma, ma non già un essere umano privo di una qualche religiosità: ‹‹Coloro che hanno posto i principi della Grande Separazione non hanno confuso l’esistenza di un nesso divino, né hanno tentato di spezzare via la riflessione su di esso. Hanno insegnato un nuovo modo di pensare la politica senza riferimento a questi argomenti, in modo che sia possibile concepire, discutere e poi costruire un ordine politico accettabile libero dalla violenza religiosa. Ma se Rousseau ha ragione, questa separazione mentale potrebbe non essere sostenibile. Anch’egli voleva liberare il mondo dal conflitto religioso, ma aveva seri dubbi sulla possibilità di poter mai sopprimere la religione o di poterla confinare alla vita interiore. La religione è semplicemente troppo intrecciata alla nostra esperienza morale per poter essere districata da ciò che ha a che fare con la moralità›› (p.149).

Kant dà ‹‹una spiegazione filosoficamente disciplinata dell’originale visione morale di Rousseau›› (p.151): neppure lui pensa che l’uomo possa fare a meno di credere, e del resto Swedenborg sarà pure stato un fanatico dedito al misticismo e alla chiaroveggenza, ma per nulla ignorante e folle. Con la fede non studiamo il mondo, ma senza non lo possiamo vivere: senza sperare che in un aldilà virtù e felicità coincideranno, anzi - che la seconda dipenderà dalla prima, potremo mai evitare di sprofondare nella più totale disperazione? Dunque pure la ragione ha le sue necessità, e non solo l’intelletto, e queste necessità sono sintetizzate nei due postulati pratici: esistenza di Dio ed immortalità dell’anima. E siccome la ragione è uguale per tutti, tutti hanno bisogno di credere: ecco come nascono concetti come ‹‹popolo di Dio›› e ‹‹chiesa universale›› nel pensiero kantiano. La ‹‹chiesa universale›› la si fa epurando le chiese particolari da ogni ‹‹incrostazione mitica›› depositata dalla storia ed è, soprattutto, un ideale da perseguire, non già un’istituzione da mettere in piedi.

La religione, quale è intesa da Kant, crea una comunità etica, ma non concede quella ‹‹riconciliazione›› che tenterà il pensiero hegeliano: il Dio di Rousseau e Kant è ancora un ‹‹Dio etico››, ma apriva le porte a quello ‹‹borghese›› che si incarnerà nello Stato moderno e protestante, non appena si penserà che la Storia, come ogni sua manifestazione, altro non è che la fenomenologia della mente umana: le risposte sono commisurate alle domande, perché entrambe prodotto dell’epoca dello spirito durante la quale vengono generate. La filosofia di Hegel è l’ultima perché somma autocoscienza, cioè quel pensiero che conosce se stesso come tale, il che si traduce nel credo protestante in campo religioso, e in campo politico nello Stato prussiano. Tutto, così, è compiuto; tutto è riconciliato: la storia continuerà comunque, con i suoi drammi e i suoi orrori, ma sarà solo un’ampia glossa ad un libro già scritto.

Hegel, però, non potrà sperimentare il crollo delle proprie illusioni, come invece quei giovani teologi e filosofi che, sulla scorta del suo pensiero, tenteranno la via di un ‹‹protestantesimo culturale››: giovani che credevano nell’eticità della loro fede, nel valore propulsivo e comunitario di essa, ma che si vergognavano dei troppi svarioni storici e di alcuni principî. Ma Hegel aveva insegnato che la religione è culto, e questo il risultato di un particolare momento dello spirito, mentre D. F. Strauss aveva distinto il Gesù della storia da quello della fede: fu facile per Ritschl, Hermann, von Harnack e Troeltsch costruire quella cattedrale vuota nella quale celebrare un ‹‹Dio nato morto››: un dio che non scuoteva le coscienze, ma che guidava i comportamenti; un dio senza fedeli, ma con tanti adoratori - i filistei martellati da Nietzsche

Solo Cohen si rifarà a Kant, ma per dimostrare che la religione universale kantiana è identica all’ebraismo, e l’ebraismo, in fin dei conti, identico al protestantesimo: essere ebrei sarebbe dovuto essere una missione profetica, senza togliere nulla alla piena assimilazione dell’ebraismo da parte dello Stato tedesco. Quando poi, allo scoppio del primo conflitto mondiale, gli altri Stati europei dichiararono guerra alla Germania, la logica conclusione fu che i titani, ancora una volta, si sollevavano contro l’Olimpo: il Kaiser ricorse all’aiuto di von Harnack per stendere il suo discorso alla nazione, e Troeltsch incitò alla coesione per affrontare la nuova guerra santa.

Cohen, addirittura, scrisse lettere alla comunità ebraica americana per convincerla che la causa tedesca fosse la stessa causa ebraica. Morirà prima di vedere la fine ingloriosa, sul campo di battaglia, del dio che aveva contribuito a creare, e prima di poter sperimentare il fallimento del suo progetto di sincretismo ebraico-protestante naufragato nel campo di sterminio di Auschwitz, e a Theresienstadt, dove perirà nel 1942 pure Martha, sua moglie.

Cohen e la sua generazione non si resero conto, tuttavia, non solo dei dettagli, seppur tragici e sanguinosi, del loro errore, ma neppure del fatto che il modo che avevano di intendere la religione non era, di necessità, l’unico. E infatti si passò dal mito della religione civile dell’Impero guglielmino al profetismo apocalittico e solitario della repubblica di Weimar, nei cui anni apparvero due opere ritenute fondamentali da Lilla per comprendere quell’epoca: l’Epistola ai Romani (1922) di Barth e La stella della redenzione (1921) di Rosenzweig. Fa specie, certo, vedere Barth invischiato in una trama dalla quale si ha ragione di pensarlo assai distante, eppure il linguaggio messianico, la retorica antimoderna e antiumanistica, la solitaria attesa di una decisione di salvezza da parte di Dio e per la salvezza da parte dell’uomo; lo iato tra la temporalità dell’uomo e l’eternità di Dio, verso la quale bisogna tendere lasciando il mondo alle sue noie – tutto ciò doveva pesare in quel turbinio d’eventi: bene e male, l’antinazismo di Bonhoeffer e la prima adesione al nazionalsocialismo di Gogarten si diedero battaglia, convinti fosse ‹‹il momento decisivo››.

Fu quella una stagione di messia: del Volk tedesco del 1933, e del proletariato del 1917. Entrambi venuti al mondo alla fine dei tempi, per compiere la redenzione laica della e nella Storia. Emblematico il pensiero di Ernst Bloch, che vede l’uomo muoversi sul cammino tracciato da Mosé, da Gesù e, infine, da Marx.

In conclusione, tra afflati mistici e prosaiche interpretazioni messianiche è difficile, secondo Lilla, tenere Dio lontano dalle nostre faccende. La laicità non è questione di istituzioni e di carte costituzionali, né è l’acquisizione di un momento dato: è, semmai, la coscienza di muoversi continuamente su un terreno accidentato per natura. Avere questa coscienza è, in fondo, l’unico modo che abbiamo per prevenire una rovinosa caduta.

La lettura del lavoro di Lilla induce a più caute osservazioni circa il rapporto tra religione e politica. La religiosità è insita nel cuore dell’uomo: poco importa che non sia il Dio di Abramo a parlare, o che addirittura non esista alcun dio. La coscienza dell’uomo abbisogna di una fede, cioè di un ideale al quale conformare la propria vita per darle un senso: ideale religioso o intellettuale che sia questo fine, questa ‹‹redenzione›› dell’esistenza, uno Stato che si dica liberale non può imporne uno e impedirne un altro. Inoltre, se la democrazia abiura il discernimento di ciò che è bene da ciò che è male, lasciando che lo spazio pubblico venga fagocitato dalla sfera affettiva dell’individuo, non si vede come poi si possa fare appello agli attori politici perché approvino leggi ‹‹secondo coscienza›› senza farsi condizionare dal proprio credo: ammesso che il concetto di credo identifichi solo i sentimenti e le dottrine religiose, come può l’attore politico dividere fuori di sé, ciò che già vede unito così internamente a sé? E, poi, questa suddivisione non smentisce proprio ciò che afferma? Chi decide quale atto politico è stato compiuto secondo ciò che taluni identificano come ‹‹buona coscienza››? E infine: perché una coscienza è buona e l’altra no? E quando un atto politico, ancorché generato dalla corrotta coscienza dogmatica, venisse giustificato con ragionevoli argomentazioni, ha diritto di essere discusso dalla comunità dei parlanti o no?

Lilla è conosciuto come attento studioso del pensiero di Vico, al quale ha dedicato un saggio nel 1993. La politica è esercizio di prudenza, dunque, non produzione di sistemi ideologici astratti, di teorie scientifiche universali e immutabili. Ed è negli stessi interessi degli uomini evitare che la situazione sfugga loro di mano, cedendo ad esaltazioni unilaterali di passioni incontrollabili. E se chi fa pubblica professione di agnosticismo non può scegliere preventivamente quale coscienza abbia diritto di esprimersi, colui che, invece, ha un credo, dovrebbe evitare di legare troppo le sorti della propria fede al tenore e ai risultati della discussione politica.

Il credente può, invece, profittare proprio della democrazia, che se non è il migliore dei sistemi possibili, certamente è l’unico sul quale, attualmente, ci si trovi tutti concordi. Ora, proprio la partecipazione democratica a un tempo attenua vecchie frizioni e apre a nuove possibili soluzioni: non solo è venuta meno l’identità di Stato e sovrano, ma la volontà dello Stato si mette ed è messa in discussione dalla mia volontà, la quale magari non avrà la meglio sulle altre, ma non deve necessariamente averla perché io, credente, non abbia abbandonato questo mondo al male che lo ammorba. Non ho da invocare apocalissi sulle novella Betel, né da interrogarmi sulla moralità di un tirannicidio: devo solo far valere ‹‹le mie ragioni››, quale che sia la loro scaturigine in me. Il mondo che uscirà fuori da questa discussione magari non sarà perfettamente corrispondente con l’idea che ne avevo, ma in tal caso non ne avrò alcuna colpa: esso sarà solo il prodotto dell’interazione di ogni singolo uomo chiamato alla risoluzione di problemi – ogni uomo col proprio vissuto e con le proprie ‹‹buone ragioni›› da far valere. Poi, ovviamente, ciascuno si assumerà la responsabilità di come e di quanto ha partecipato a produrre: l’importante è aver agito bene per quanto si poteva. Non avrò creato un paradiso, certo – tocca agli uomini crearlo? – ma avrò ridotto al minimo il pericolo di generare un nuovo e sanguinoso inferno.

Antonio G. Pesce.

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