"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

29 marzo 2011

LA VOLONTA' DI POTENZA NELL'ERA ATOMICA


di Antonio G. Pesce - Il ministro delle Attività Produttive – un signore distinto che ben conosce l’arte moderna della retorica nella piazza televisiva – ha concluso salomonicamente il dibattito, da poco apertosi in Italia, circa la costruzione di centrali atomiche per la produzione di energia, rimandando alle calende italiche la decisione definitiva.

È così che si decade: quando non si ha spirito per decidere, e si rimanda di giorno in giorno, passando dalle fiamme dell’entusiasmo ai piccoli conti da bottegaio. Perché tutta la vita – parafrasando un filosofo che, in linea di massima, dovrebbe essere ben conosciuto dalla compagine oggi al potere – “è risolvere problemi”. E non c’è vita, se non c’è soluzione del problema attuale. Non c’è vita, perché non si può passare avanti, ad un altro problema. E, del resto, ogni generazione ha il suo problema, e dalla soluzione dipende l’eredità che saprà trasmettere alla generazione ventura. Non tutti i problemi sono risolvibili: quello del senso della vita, della morte, della felicità, e tanti altri non sono risolvibili. Ma i tentativi provati da chi ci ha preceduto sono il dono più grande che ci viene dal passato. Servono a non farci pesare l’angoscia della solitudine, quando la vetta – ciascuno di noi ha la sua – è ancora lontano e lontani i compagni di scalata, il campo base, l’ultimo paese attraversato.

Ora, non tocca al politico, quantunque ci abbia provato a rogarsi questo diritto, risolvere il senso profondo della vita. Gli tocca in sorte quello di “moderare la discussione pubblica” per la soluzione di problemi inerenti la comunità. E tra i problemi più impellenti non c’è quello delle centrali atomiche. Strano che non se ne siano accorti neppure i suoi cortigiani, pronti a difenderlo da quelli della parte avversa a colpi di stilo e cancellino. Il vero problema è: che società vogliamo? Cosa siamo disposti a sacrificare per una società diversa?

Martin Heidegger aveva posto esattamente il senso del nostro momento storico, quando scriveva: “Così si viene diffondendo l’apparenza che tutto ciò che si incontra sussista solo in quanto è un prodotto dell’uomo. Questa apparenza fa maturare un’ultima ingannevole illusione. È l’illusione per la quale sembra che l’uomo, dovunque, non incontri più altri che sé stesso”. Noi viviamo di questa convinzione – tutta la nostra epoca è attraversata da questo desiderio: sottomettere la natura, cioè tutto ciò che non siamo noi stessi, alla nostra volontà. Abbiamo per questo piegato lo spazio, potendo attraversare in pochi giorni distante che vedevano, una volta, il consumarsi di intere vite. Abbiamo piegato il tempo, potendo dilatare l’ultimo confine dell’esistenza grazie alla laboriosità dei nuovi artigiani della vita. Infine, perfino la Storia è in nostro possesso – la storia dell’umanità intera – perché noi siamo (forse) l’ultima generazione a godere del privilegio dell’intangibilità. Dopo di noi, gli incubi di Michel Houellebecq, l’autore di Le particelle elementari, potrebbero diventare realtà. Già gli embrioni vengono prodotti e selezionati, ma ci sfugge ancora la possibilità di determinarli in tutti i loro connotati fisici. Non è da escludere che lo si possa fare un giorno. E quando ciò accadrà, è probabile che sarà accolto come la riprova della nostra potenza, della nostra infinità libertà: fino ad oggi, ogni capacità tecnica è stata ritenuta lecita.

In una cornice come questa, svegliarsi un mattino e temere le centrali nucleari è un atto irrazionale. Non già perché non ci sia da temere. Tutt’altro. A pensarci bene, ce n’è abbastanza per essere terrorizzati: più di quattrocento centrali in tutto il mondo, senza contare le decine e decine di migliaia di testate atomiche celate nel nostro sottosuolo. Ma resta il fatto che ci siamo spinti troppo oltre, per potere ancora negoziare soltanto tecnicamente con la nostra epoca. Che significa? Noi abbiamo bisogno di potenza: ecco cosa significa. Se lasciamo tutto com’è, e se non mettiamo in conto che, cambiando, andremo incontro a enormi sacrifici, non possiamo pensare di gestire altrimenti la faccenda. Avremo sempre più bisogno di più ampie quantità di energia – per ogni fine, soprattutto per fini nobili e alti. E pensare di rispondere a questa bulimia di potenza con altra potenza, quantunque apparentemente più pulita, è altrettanto irrazionale, anche se domani potrebbe diventare tecnicamente possibile. L’apprendista stregone, che vuole rimediare ad una magia errata con un’altra, si stringe sempre più il cappio al collo.

Servirebbe una rinegoziazione etica. Prassi troppo lunga, e non solo per le impellenti faccende pubbliche italiane.


Pubblicato il 28 marzo 2011 su www.thefrontpage.it

QUALE CULTURA PER CATANIA?


di Antonio G. Pesce- Marella Ferrera non ci ha ripensato (per ora). Capita che qualcuno faccia di testa sua, nonostante la politica pensi a volte di poter aggiustare tutto. Non tutto è aggiustabile, anche perché la Ferrera un nome ce l’ha di suo, e non abbisogna di altra visibilità (semmai, in quel caso è il contrario). Tuttavia, prima di fare cose di cui poi uno debba pentirsi, sarebbe opportuno calcolare bene le ricadute. Quando un artista o un intellettuale decide di dare il proprio contributo all’amministrazione della cosa pubblica (come dicono quelli che sanno parlare bene), deve tener presente che sta lasciando il proprio palcoscenico, e che molti di coloro che lo circonderanno non subiranno il suo fascino. L’arte della politica si basa, in gran parte, sulla capacità di stipulare accordi e di scendere a patti – si chiamano compromessi, e quando c’era da fare i buonisti contro la guerra in Kossovo, anche Jovanotti, Ligabue e Pelù ne cantarono i meriti. È comprensibile che si accettino per evitare una guerra, e che risultino meno digeribili nel quotidiano, soprattutto se questa quotidianità è la traballante scena della politica catanese.

Ma la differenza è apparente: ovunque ci sia spazio pubblico, ci sono regole – scritte e non scritte – che possono non piacerci.

Non è detto, però, che Marella Ferrera abbia tutti i torti. Magari la sua impuntatura è del tutto legittima. Soprattutto se dovessero risultare vere le voci, di cui qualche giorno fa dava conto G. Grillo: la delega al Turismo data all’assessore alle Attività Produttive e non già a quello alla Cultura. Sarebbe, in questo caso, il solito luogo comune imperante negli anni Novanta, secondo il quale tutto è imprenditoria e l’imprenditore è l’unico detentore di capacità gestionali. Nel caso catanese, Franz Cannizzo è un signore distinto, che in consiglio parla con garbo stilistico, correttezza grammaticale e sicurezza di postura: un impatto scenico che fa la sua bella figura, soprattutto se confrontato con la media locale e nazionale per nulla edificante.

L’attore sarebbe, dunque, di tutto rispetto, ma la motivazione di un accorpamento del genere comunque sbagliata. Il turismo non è un’impresa come le altre, e l’insignificante opera della signora ministro Brambilla ne è dimostrazione. Se Cannizzo a Catania saprà far bene – qualora fosse lui il prescelto -, è perché avrà di suo delle capacità e una buona dose di cultura, e non già perché è stato presidente di Confcommercio.

Turismo non è innanzi tutto vendere servizi, ma proporre suggestioni e dar risalto a forme. Quali forme? Quelle che muovono, ogni anno, milioni di persone per migliaia di chilometri. Chi viene in Sicilia, chi visita Catania ha già in mente qualcosa. Ecco: questo qualcosa va esaltato, come il cuoco fa con alcuni sapori. Se abbiamo chiaro il menù, sapremo anche come offrirlo. Avete mai visto una tavola bandita di tutto punto per una salsicciata? e non è che la grigliata tra amici sia più scadente di certe anemiche portate da nouvelle cuisine. Tutt’altro, ma il bicchiere del vino non sarà di cristallo, e magari non d’argento le posate (ammesso che si voglia utilizzarle).

Rimane però da capire come sia possibile che una città come la nostra, sede storica di uno dei più grandi e apprezzati atenei italiani, non stia vedendo un impegno – si trattasse pure di violenta opposizione – da parte dei tanti “intellettuali” (o pseudo tali) che affollano consigli di istituto, di facoltà e di redazione. Questo dovrebbe incutere preoccupazione: questo silenzio, questa apatia che sta rodendo Catania brano a brano.

Proprio da queste pagine, durante i festeggiamenti agatini, invitammo ad un ‘manifesto’ di intenti che vedesse impegnati la politica, la cultura e la fede. Catania – ci sembra chiaro – non può essere governata come un paesello – una sagra di tanto in tanto e un paio di strade ben asfaltate. Anche, ma non basta. Catania deve ritrovare smalto, deve riscoprirsi signora e non serva. Il fallimento dell’attuale classe dirigente sta proprio nella perdita dell’immagine della città. Immagine non mediatica, da esportare sui teleschermi per farci di rimando un po’ di consenso elettorale, ma immagine come identità. Cos’è oggi Catania per i catanesi? Cosa deve diventare per l’Italia intera? Quali le sue peculiarità? Perché pensare a Catania dalle Alpi a Capo Passero?

Marella Ferrera non ha saputo, o potuto, rispondere. Non sappiamo chi risponderà al suo posto. Per intanto, siamo in debito di una risposta. Che troppo si sta facendo attendere.


Pubblicato il 25 marzo 2011 su www.cataniapolitica.it

25 marzo 2011

LA GUERRA E' UNA COSA SERIA

di Antonio G. Pesce - Se voi foste nonni, e vedeste che i vostri nipotini sono in mano a genitori degeneri – magari i vostri stessi figli – come vi comportereste? Come reagireste se, comandanti di una barca, vedeste che durante la burrasca i primi ad entrare in panico fossero i membri del vostro stesso equipaggio? Alla fine, qualcuno un po’ di sale in zucca deve pur tenerselo e farne uso nel momento del bisogno. Ecco perché non dobbiamo attribuire alcuna colpa a Giorgio Napolitano se, da quando si bombarda la Libia, dice cose non molto esplicite. Ovvio che siamo in guerra. Perché c’è guerra quando uomini si sparano addosso, ed è abbastanza chiaro che tra il cielo e la terra della Tripolitania non ci si stia tirando balocchi in faccia.

Non è neppure un banale ossequio alla carta costituzionale, perché l’art. 11 è tra i più soggetti a continue interpretazioni. Prima del 1948 la guerra veniva dichiarata in un modo, per alcuni fini, e combattuta con alcuni mezzi. Oggi le cose sono assai cambiate. In meglio o in peggio? Di certo è che sono mutate: si attendono le risoluzioni Onu o del consesso internazionale più ampio; i fini da perseguire sono il bene e la concordia degli Stati da bombardare (sic!); le armi sono proiettili dieci volte più distruttivi di quelli di un secolo fa, ma (pare) molto più precisi. Insomma, ormai abbiamo tutti gli ingredienti per quella melassa di ideologismo borghese con cui festeggiare l’assunzione agli altari della bontà mondiale.

Il ruolo del Capo dello Stato, in una nazione come la nostra, è sempre stato, simbolicamente, una via di mezzo tra un Papa laico e un nonnino di buonsenso. Napolitano, poi, nonostante le modalità della sua elezione potessero far supporre altrimenti, si è mostrato forse l’unico uomo capace di unire un popolo ancora una volta dilaniato da conflitti personali. Ma l’attuale Presidente della Repubblica, proprio perché figlio di una tradizione poco ‘pacifista’, assai realista e culturalmente molto ferrata, sa che il momento è assai critico, e che la gente lo ha capito: siamo in un mondo di mezzetacche. E chi mezzatacca non è, pur con tutti gli errori che può commettere, deve cercare di infondere sicurezza, lasciando ad altri l’amaro compito di dire quanto sia grave la situazione.

La cattiveria va temuta, ma della stupidità bisogna aver terrore. Non si è mai visto alcun criminale fare il danno che solitamente fanno i sempliciotti. Ricordiamo la pagina biblica: Eva non era l’escort di Adamo, a cui volle far assaggiare il frutto minorenne di un rapporto sessuale. Era una ingenua e innamorata ragazza di campagna, che voleva conquistare per sé e il suo uomo la scena del mondo. Vedi com’è andata a finire!

Che l’Italia abbia le idee confuse, questa è cosa che qui si ripete spesso. Sarà che noi italiani ci amiamo meno di quanto ci amasse Montaigne, ma è meglio peccare di autocritica che di autostima. Non fosse che per il rispetto che si deve agli altri. Però, questa volta abbiamo toccato il fondo. E lo ha toccato pure quell’esperienza politica, che dal 1994 ad oggi ha cercato di dare una casa comune al conservatorismo tipico della società italiana. La destra ha fallito – e per evitare equivoci, è bene chiarire che queste righe le scrive una penna che non ha mai conosciuto alcuna tonalità di rosso. Proprio perché è con la mano destra che si scrivono certe cose, e che è bene occuparsi del lordume dei panni propri (ancorché dismessi nel 1998), proprio per questo va detto che nessuno, ancora venti anni fa, poteva immaginare un crollo così ignominioso. Guardate Roma, coinvolta in scandali tipici della Milano socialista! Guardate il governo, stampellato come i peggiori esecutivi del Pentapartito d’annata! Guardate alle idee – soprattutto guardate alle idee, e vedrete accattoni di citazioni! Non dovrebbe scuotere il pensatore di destra il fatto che, alle celebrazioni per il 150enario dell’unità dello Stato, l’intellettuale più citato sia stato Federico Chabod? Che si nomini Piero Calamandrei più di Benedetto Croce o di Giovanni Gentile? Che Cattaneo, riferimento della Lega, sia stato più studiato da Renzo Bossi per la propria tesina di diploma, che non dal partito che lo usa come una clava?

Senza forme del futuro con cui plasmare il presente, l’avvenire sfigurerà sempre se confrontato con il passato. Si sono confuse le idee con le ideologie, e si è creduto di poter fare a meno di entrambe. Col risultato che oggi non sappiamo chi siamo, perché non abbiamo riflettuto abbastanza su chi siamo stati e su chi vogliamo essere. Per questo anche l’ultimo fiore all’occhiello del centrodestra, quella politica estera di cui ci si è fatti vanto fino a qualche mese fa, è sfiorito sulla via di Bengasi.

Siamo partiti alla carlona, definendo ‘dittatore’ l’amico burlone di ieri. Ci siamo fatti portare la guerra fin dentro le viscere del nostro ‘spazio vitale’. Perché è chiaro a tutti, fuorché ai leghisti, che allo stato attuale l’intero Continente è dominato dalla Germania e, in parte, dalla Francia, e che non possiamo competere con loro. Ci siamo fatti scippare dalla più improvvisata banda di bulli che gli annali internazionali ricordino. E se la figuraccia è meno palese, è perché il mondo, questa volta, ha saputo tenerci testa.

Qualcosa, anche in questo caso, l’abbiamo appresa. Abbiamo imparato che i francesi non sono più quelli di Napoleone. Oggi l’imperatore di Francia indossa mutande griffate, fa piazzate per portare via dal set cinematografico l’avvenente moglie, e si alza di tanto in tanto sui tacchi per guardare oltre la cresta dei suoi galli. Doveva far rispettare una zona di interdizione al volo, e invece si è messo a scaricare l’intera artiglieria rimasta negli arsenali dalla guerra di Algeria.

Abbiamo capito, inoltre, che il silenzio comunitario sugli ‘alti guai’ lanciati da Maroni per gli sbarchi a Lampedusa (lasciata sola dal governo ‘federale’), non era dovuto a indifferenza ma all’inesistenza dell’Unione: l’Europa non c’è, non l’abbiamo ancora fatta, e chissà quando la faremo. Spicca, però, la miopia tedesca: dal collasso greco al manicomio maghrebino è stato tutto un defilarsi. Non stupisce che in Italia la Merkel sia tanto apprezzata, perché noi neppure sappiamo come si diventi (e ci si resti) una potenza continentale. Ma fino a quando i tedeschi potranno non sporcarsi le mani di quel miele che a loro tanto piace? La Germania deve molto all’Euro. L’Europa sempre meno alla Germania.

Infine – ed è forse una novità per la quale sarebbe opportuno non gioire troppo frettolosamente – Jeremy Rifkin non si sbagliava di molto, quando in un suo libro del 2004 parlava dell’eclisse del sogno americano. Un Gibbon dei nostri tempi, che ha previsto un tramonto, ma si è mostrato troppo ottimista sull’alba europea. Obama era quello che ci si poteva aspettare: vuole governare l’opinione pubblica e ne è capace. Ma governare un Paese è tutt’altra cosa. Perché una nazione ha una sua storia, e non ci si rinventa così, da capo e alla prima occasione. Bush e i suoi sono poco amati, e perfino a ragion veduta. Avevano idee sbagliate, tuttavia non le avevano confuse. Obama con i suoi proclami, i suoi slogan, i suoi incitamenti, illude e fa sperare un nuovo mondo, ma alla fine lo lascia così come l’ha trovato, se non peggio. Un Totò a stelle e strisce, che invita gli altri ad armarsi e partire, limitandosi a intessere elogi della pace a Oslo e panegirici dei diritti umani a New York. Non vuole esportare la democrazia, e dice di volerla far germogliare. Per questo registra messaggi in arabo e fārsì, ma quando autonomamente le popolazioni si sollevano, autonomamente lui ripiega e lascia che le illusioni si infilzino nelle baionette della repressione. Essere sognatori o realisti a corrente alternata mette in dubbio le proprie capacità strategiche.

A tutto questo, per condire meglio la frittata, si aggiungano i litigi tra gli Zar di Russia, la novella casa Vianello del pianeta, e i ripensamenti della Lega Araba. Ce n’è abbastanza per rendere indigesta una poltiglia del genere anche a chi ha il pelo della diplomazia sullo stomaco.

La guerra è ancora una extrema ratio necessaria. Voglia Iddio che non lo sia più domani stesso. Per ora lo è. E come tutte le cose necessarie, è davvero una cosa seria. Bisognerebbe evitarla fino all’inverosimile, e combatterla con assoluta decisione. Avendo chiari i motivi (chiari come possano esserlo per gli uomini), i mezzi, i fini. Tattica e strategia, forza militare e lungimiranza politica. Se qualcuno vuole divertirsi, lo faccia nel salotto di casa sua con i soldatini di piombo (costano relativamente poco). Ed eviti di accendere la miccia dell’idiozia umana, sulla potenza ed estensione della quale non si raccapezzò mai neppure un genio del calibro di Einstein.


Pubblicato il 23 marzo 2011 su www.thefrontpage.it

24 marzo 2011

FIGURACCIA LIBICA


di Antonio G. Pesce- Con buona pace di quel che dichiara il presidente Napolitano, noi siamo in guerra. Che poi questa guerra non sia dichiarata dalla nostra nazione, a cui è impedito dall’art. 11 della Costituzione, ma da un organo sovranazionale, tanto utile a tenere pulire le coscienze, poco cambia nella dinamica delle cose. Con o senza l’avallo dell’Onu, ci sono armi che sparano, uomini che muoiono, diritti da far valere, interessi da difendere, e precauzioni da prendere.

Il Risorgimento che dovremmo esportare in Libia, non potrebbe essere migliore di quel che facemmo noi 150 anni fa. E allora, per la nostra libertà, dovemmo combattere, sparare, uccidere e morire. E con noi, altri europei che credevano nella nostra causa. Oggi sull’altra sponda del Mediterraneo si combatte. E se si combatte per la libertà, tanto meglio. Ma ciò che si sta combattendo è una guerra: possiamo nasconderci dietro un dito, ma quel che è tale rimane.

Avere una classe politica incapace ci ha condotti all’ennesima figuraccia storica. Sia chiaro: la politica è fatta da uomini, non da angeli. E gli interessi nazionali, checché ne dicano le verginelle tornate alla ribalta nel Pantheon del perbenismo borghese, vanno a volte perseguiti stringendo mani immonde. Ma non è che le mani dell’assassino, mentre stringono la penna dei trattati, siano più pulite di quando imbracciano le armi.

Questa volta, poi, ci è andata anche peggio (e non credevamo potesse esserlo). Nel ’43 almeno avevamo scommesso sul cavallo dato per vincente: un’industria potente e il miglior esercito dell’epoca. I tedeschi ci snobbavano, ma i nostri non baciarono loro la mano, e non si sa chi dei due duci ricevette l’accoglienza più grandiosa nel paese dell’altro. Insomma: salvammo le apparenze. Hitler era quel che era anche prima del ’43, ma Mussolini, più che un idiota, fu un avventuriero: tutti gli altri Stati ci videro come degli opportunisti, pronti a saltar sul carro del vincitore, ma non dei fenomeni da baraccone, in preda ad un palese stato confusionale pronti a rimangiarsi la parola data in ufficiali trattati. Inoltre – non è cosa da poco – il duce che firmò il patto d’acciaio è lo stesso che rimase fedele all’alleato tedesco: pur nella sua tragicità, Salò aveva un senso.

La differenza tra avere una classe dirigente di spregiudicati politici ed una di incapaci comparse maccheroniche sta tutta nel modo di cadere: chi con dramma e chi con farsa. Non solo abbiamo offerto le nostre basi, ma pure il nostro apporto bellico. Per abbattere chi? Lo stesso che abbiamo accolto in pompa magna, tra salamelecchi e coreografiche pacchiane nella nostra capitale, baciandogli mani e dandogli pacche sulle spalle. Berlusconi tace. In poche occasioni ha avuto tanto pudore come oggi. Quel che aveva da capire, lo ha capito: statene certi! Frattini – più duro di comprendonio – parla di quel dittatore come se non l’abbia mai incontrato. E non ne abbia mai difeso le pagliacciate.

Intanto, i francesi hanno portato la guerra nel Mediterraneo. A un tiro di schioppo dalle nostre coste. Invase, ormai, da disperati, che vengono accolti da disperati. Lampedusa è stata trasformata in una discarica a cielo aperto di quei “derelitti” di cui il nord leghista – e dunque non tutto il nord, ma quello xenofobo e antimeridionalista di Maroni e Bossi – non vuole sentire il puzzo.

Dopo esserci fidati, siamo stati venduti. Ancora una volta. A questo punto, il Ponte, più che lo Stretto, è meglio farlo con l’Africa. Per risparmiare quelle vite umane perse nei flutti delle traghettate improvvisate. E per rendere chiaro ormai dov’è che ci vogliono confinare.


Pubblicato il 21 marzo 2011 su www.cataniapolitica.it

21 marzo 2011

PIERPAOLO GIUFFRIDA, ARTISTA DELLA FOTOGRAFIA



Pierpaolo Giuffrida, giovane artista, vive e lavora a Motta S. Anastasia (Catania).


di Antonio G. Pesce - Gli amici che in Pierpaolo Giuffrida hanno visto, non molti anni fa, oltre l’uomo di cui i genitori possono andare fieri, il genio dell’artista e non solo la capacità del professionista, non hanno ancora saputo offrirgli o procurargli un palcoscenico più degno della loro pur viva attenzione.
E forse non è un male, perché il talento acerbo matura di giorno in giorno, e se si confrontano le ultime opere da ritrattista con le prime da sperimentatore di forme e colori, si nota come l’occhio si stia facendo sempre più aperto alla vita. E quando parliamo di vita è degli uomini, invero, che parliamo. Perché gli oggetti, che in un primo periodo della sua produzione Giuffrida coglieva, erano giochi che la luce faceva col nostro senso comune.
Ora è da qualche anno, che egli va interrogando persone – e, interrogando, si lascia interrogare. E persona è chi ha coscienza – quale che ne sia il grado poco importa – di ciò che è, e coglie il barlume di ciò che sente di dover essere. Non è un’opera facile: non si contano i meriti, se l’impresa di far parlare un volto riesce; e neppure i demeriti, quando il volto venisse manipolato per farlo mero specchio della vanità dell’artista che lo ritrae.
Come si risolve Pierpaolo in questa impresa? Proprio nella ‘discussione’ artistica, che egli sta affrontando da anni col suo oggetto, è venuto a dei punti fermi che non possono che apparire interessanti. Tra i primi questo: ‹‹Dobbiamo ridare al mondo, ciò che il mondo in noi imprime, questo mestiere produce prevalentemente memoria››. Un dia-logo, appunto. E questa coscienza non è per nulla banale. Ma è banale il richiamo alla memoria? Una foto non è forse questo per antonomasia? Sì, se non fosse che in Giuffrida è chiaro che questa memoria è storia – come ogni dialogo; è l’apparire dell’evento dell’esistenza altrui nell’orizzonte della propria (il mondo e l’artista; il tu che si imprime e l’io che lo interpreta).
E qui un senso profondo di umiltà che – non è per piaggeria che lo si scrive – solo un artista ‘vero’ può avere. Pierpaolo sa che il suo occhio non fa la vita: deve soltanto raccontarla nel suo farsi. Nel suo dialogo coll’oggetto, egli permette all’uomo di mostrarsi non già come oggetto – in fin dei conti, punto focale d’un occhio – ma soggetto, volto appunto, interrogato e interrogante.
‹‹Il nero è la base d’argilla sulla quale costruisco la profondità di un immagine››. Il nero è, allo stato attuale della sua ricerca iconica, un altro punto fermo del giovane artista mottese. E può sembrare che egli ci smentisca. No, egli ci conferma ancor più, che il suo ruolo è quello della levatrice: far emergere, portare alla luce. Infatti aggiunge: ‹‹Nel ritratto la profondità prospettica permette al soggetto di esprimere la propria identità, il non volersi fermare all’apparenza, permette all’occhio di continuare a viaggiare››.
Il nero, dal quale Giuffrida vuol far emergere la profondità, diremmo il carattere di un soggetto, che cosa è, se non l’insondabile mistero dell’esistenza umana che il volto afferma, ma che non del tutto riesce a spiegare (neppure a se medesimo)? E può l’‹‹altro››, che non sia il datore dell’esistenza, assorbirci in sé tanto da dirci inconfutabilmente chi siamo? – a noi, che ogni giorno
cerchiamo di chiarire a noi medesimi il senso della nostra esperienza? Può la macchina – la sua camera – tracciare i confini della vita e quelli della morte?
Qualcuno pensa sì. L’Artista, quando ritrae, afferma decisamente il suo no. La vita non può essere arginata – trabocca continuamente dallo spirito, e dall’immagine che imprime. Se trabocca, è perché non è conchiusa. E se non è conchiusa, è imperfetta – è questo cerchio che non si chiude. Per questo, l’artista afferma: ‹‹Se per assurdo dovessi accorgermi d’aver lavorato un’immagine perfetta, aggiungerei di proposito un errore per darle umanità››.
Egli sa che, qualora malauguratamente fosse soddisfatto, non avrebbe creato un’opera d’arte, ma confezionato una merce, immagine del suo ego e prodotto della sua macchina, e dunque infinitamente riproducibile. E se riproducibile, non più evento, arte, ma tecnica. Per cui non si tratterebbe certamente di un poeta, ma di un costruttore;insomma di un mestierante.

Pubblicato su L'Alba del marzo 2011.


FESTEGGEREMO L'ITALIA CHE SIAMO DIVENTATI



di Antonio G. Pesce - Il buongusto vorrebbe che i compleanni non venissero mai dimenticati. Passino pure gli onomastici, soprattutto quando le fantasiose madri non si curano di verificare se una qualche santità è ascesa agli onori degli altari con nome del pargolo. Ma del genetliaco delle persone care non ci si può scordare. E neppure degli anniversari: molti matrimoni, prima che davanti al giudice, finiscono per una dimenticanza. Poi, è solo questione di tempo. Ricordare non è un’arte facile. Almeno per gli uomini. Un ricordo è sempre un maestro che sale sulla cattedra della vita. Non capita spesso che si voglia prendere lezioni. Però, chi smette di apprendere – di educare e di essere educato – smette di vivere. Di vivere almeno come uomo (ed iniziano i problemi per la civiltà).
Proprio per questo dovrebbe farci riflettere il dibattito (inutile e sterile!) che si è aperto sulla opportunità di dare festività il giorno dell’unificazione nazionale, giovedì 17 marzo. Le ragioni addotte, poi, da chi voleva soprassedere, quando non sono pericolose, sono tanto ridicole da meritare di essere compiante più che derise. Suona strano che a far lezioni di produttività sia il capitalismo nostrano, soprattutto perché, ancora prima della crisi, gli allegri compari di Confindustria non si evincevano, nella graduatoria mondiale, per il loro zelo. Colpa degli scioperi sindacali? Forse. Ma non è da escludere che possa aver pesato anche la fin troppa dimestichezza con la politica e con un mercato drogato dai parassiti dello Stato. Infine, l’omelia sul risparmio, fatta da chi sperpera miliardi di euro l’anno di danaro pubblico dall’alto del proprio scanno, non va neppure presa in considerazione.
Le ragioni storiche sono, invece, le più pericolose. Non perché false, ma perché dimostrerebbero lo strano senso della storia secondo gli italiani (qualora le accettassero). Diciamocelo chiaramente: il nostro Risorgimento non è stato fatto bene. Poteva essere fatto meglio. Alla fine, abbiamo avuto un Nord diviso dal Sud, per intanto. E poi il Paese reale – contadino, cattolico, legato alla provincia – dal Paese (che si voleva) “ideale” – industriale, laico, orbitante attorno alle grandi città.
Però che l’Italia fosse un’idea, che frullava in testa agli italiani da moltissimi secoli prima del suo realizzarsi, è un fatto. Ed oggi, con buona pace dei secessionisti di là e degli autonomisti di qua, siamo quell’Italia che il mondo conosce attraverso Dante, Manzoni, Pirandello. E nessuno, fuori dalle Alpi, li pensa innanzi tutto come toscano, lombardo e siciliano. Inoltre, nel mondo si nasce e, col tempo, si muore pure. Così è per gli uomini, per le attività commerciali e – non si vedrebbe perché no – anche per gli Stati. Nulla di umano è eterno – da sempre e per sempre. Le stesse razze pure sono una pura invenzione: andando verso le origini si scoprono commistioni a volte perfino imbarazzanti. E le tradizioni culturali, passando dalle mani del padre a quelle del figlio, si imperniano dell’odore della vita. Del sudore del padre come di quello del figlio, il quale, un giorno, sarà anch’egli padre. Perché la vita non si è mai fermata, ed è difficile dire quando sia iniziata.
Il 17 marzo, dunque, non festeggeremo l’Italia di quel giorno di centocinquanta anni fa, né quella che sarà tra altrettanti. Festeggeremo l’Italia che siamo oggi, quell’Italia che siamo diventati. Sarà forse per questo che abbiamo saputo dividerci anche sul senso della nostra unità.

Pubblicato sul L'Alba di marzo 2011.

17 marzo 2011

LA LEZIONE DI FALCONE E BORSELLINO

Non dovrebbe apparire turpe dire che in Italia l’amministrazione della giustizia non funzioni. Semmai, è chi lo dice che dovrebbe tacere. Ma il problema c’è, quantunque sempre più spesso sollevato dai meno valenti nel risolverlo, e ultimamente ne stiamo avendo qualche prova ulteriore. Non ne sono mancate in questi anni. Perché, non appena si è distolto lo sguardo dall’imputato d’eccellenza, sono emersi gli errori di una casta che, per inefficienza nel computo generale, non ha nulla da invidiare alle altre già presenti sul suolo nazionale.

Sabato, però, abbiamo avuto l’ennesima dimostrazione della confusione in cui si cerca di sopravvivere in Italia. Non mi piace la piazza, e se devo farmela piacere, preferisco usarne più che abusarne. Capisco che ognuno ha la sua fede, e che anche il più convinto laico ha bisogno di un rito. La democrazia, in questo caso, andrebbe celebrata nei luoghi atti a difenderla, e non già in quelli dai quali, solitamente, la si rovescia.

Le masse possono non avere testa. E sono pericolose. Se però un potere dello Stato le capeggia, allora sarebbe imprudente non fronteggiarle. E spiace che il momento clou di una tra le molte piazzate degli ultimi tempi, sia stato rappresentato dal discorso del procuratore aggiunto di Palermo, Antonio Ingroia. Era nel posto sbagliato. E, peggio, con la postura sbagliata: mettere le mani in tasca e tenere degli occhiali neri in viso non è un atteggiamento minimalista, per chi sa leggere i segni. L’eloquio furente avrebbe dato l’impressione di un capopopolo – vero -, ma quello del pubblico ministero è sembrato tipico della spocchiosa eminenza grigia.

Spiace dirlo. Spiace a chi è stato svezzato alle cose civili dall’eroico esempio di Falcone e Borsellino, ora neppure vent’anni fa, e già pare passato un secolo in questa Italia dal passo di gambero. Ma proprio quell’esempio ha lasciato impresso uno stile, che oggi non possiamo permetterci di dimenticare. Perché andare in diretta televisiva, o anche in convegni organizzati da forze politiche, per parlare di lotta alla mafia – si trattasse pure di smascherarne i collusi in campo politico – ha un valore ben diverso che accettare, nel contesto che stiamo vivendo, un microfono in piazza, tenere il proprio comizio, e opporsi ad una proposta di legge. Ancora prima che venga discussa in Parlamento. Ancora prima che l’intera nazione abbia cominciato a discuterne per ‘chiarirsi’ le idee – cosa ben diversa dall’avercele ‘chiarite’ – su pregi e difetti di un’azione legislativa.

Si dirà – lo dicono sempre politici in avanzato stato di decomposizione logica e giornalisti dal taccuino di partito – si dirà che i magistrati con quei ferri ci lavorano, e dovrebbero saperne più di altri. Non è argomento privo di un qualche fondamento, anche perché la politica, che dovrebbe legiferare, quando lo fa – sempre che lo faccia – lo fa assai male, con pastrocchi che mettono bene in luce le deficienze culturali della nostra classe dirigente. E lo fa senza autorità, se dalla Sicilia alle Alpi negli ultimi lustri il candidato più credibile non è più il docente universitario di diritto costituzionale, bensì il magistrato salito alla ribalta per questa o quest’altra inchiesta. Ma una domanda dovrebbe apparire legittima: fino a che punto possiamo venire meno ai nostri doveri, per salvare controvoglia chi si è dato alla perdizione? Da un male si può ricavare, sempre e comunque, un bene?

Dagli sconfinamenti in ruoli diversi non se n’è cavato alcunché di buono. Abbiamo un presidente del Consiglio senza più alcuna briglia; un presidente della Camera a due livelli: il piano giorno per il ruolo istituzionale, e il piano notte per quello da capo di partito; un presidente del Senato che nelle polemiche tace, piuttosto che difendere a spada tratta il Capo dello Stato. Davvero abbiamo bisogno di una magistratura che scende in piazza per mischiarsi alle ‘piazze’? Davvero abbiamo bisogno di epistolari, in cui i cittadini vengono derisi e offesi proprio da coloro che domani potrebbero inquisirli?

Chi difende d’ufficio Ingroia, fa leva sulla ‘distinzione’ di ruolo tra il cittadino e il magistrato. E sulla Costituzione, che garantisce ad ogni persona l’espressione della propria opinione. In un sol colpo, ci si contraddice e ci si rimangia il tanto moralismo sputato nei mesi scorsi. Perché, oltre che di reati e di libertà personale, non era anche questione di ‘etica pubblica’, indistinta da buongusto e dalle buone maniere? Forse che la Costituzione, che tanto solerte pare nel garantire a ciascuno di noi di far il casino che vuole, poi sia così restia a lasciarci copulare come meglio crediamo, innamorati o no, per mera voluttà o nella reciproca convenienza? Eppure, per paura che l’inchiesta sulla signorina marocchina, amica del signor Silvio Berlusconi, si sgonfiasse, o che il giudizio immediato sui giornali divenisse regola valevole per tutti, ci si è messi ad impartire lezioni di galateo in diretta televisiva. Addirittura ascoltando belle signorine dall’inconfondibile accento yankee raccontarci quanto sia bello vivere in una società puritana (sic!).

Ora qualcuno ci dica se in quei “Paesi civili” tanto decantati, divenuti l’Eden del conformismo perbenista, sia permesso a chi deve amministrare la giustizia, scendere in piazza per bloccarne, ancorché giustamente, la modifica. E chi ha la fortuna di servire la nazione, senza bisogno di doversi prima contendere la simpatia dell’elettorato, trovi altri modi di salvarla dallo scempio giuridico, evitandoci la propria imbarazzante presenza tra le trincee del politicume attuale.


Pubblicato il 15 marzo 2011 su www.thefrontpage.it

CONSIGLIO COMUNALE DI CATANIA: MANCA ANCORA IL NUMERO LEGALE


di Antonio G. Pesce- Al consiglio comunale di ieri sera, l’ordine del giorno prevedeva la votazione sulle concessioni degli impianti sportivi, e l’altra, non meno importante, per passare l’Amt da municipalizzata a società di capitali. Alla fine, non n’è stata votata una. Ancora la scomparsa del numero legale. E non sono cose di poco conto.

Eppure, la seduta era iniziata bene. Almeno per noi di CataniaPolitica. Il consigliere Manlio Messina (Pdl) ci ha citati. Ebbene sì: qualcosa di buono l’abbiamo fatta anche noi. L’11 febbraio, in un suo pezzo, Antonio Musumeci da questo fogliaccio invitava l’amministrazione comunale a partecipare ad un concorso per l’assegnazione di una delle 150 reti wi-fi per altrettanti luoghi pubblici. Messina si faceva portavoce dell’accorato appello in seno al consiglio comunale e all’amministrazione. A distanza di un mese, Catania risulta assegnataria. Sarà la villa Bellini il luogo dove si potrà andare per navigare assolutamente gratis!

‹‹La chiara dimostrazione – ha detto Messina – degli ottimi risultati che si ottengono, quando società civile e istituzioni collaborano per il bene della città››. (Seguiva poi il riconoscimento al nostro operato, che qui tralasciamo di ripetere, perché chi ci segue lo ha già capito che siamo i migliori!).

Ma per un servizio che arriva (gratuitamente anche per l’amministrazione), ce ne sono di altri che non vengono neppure pagati, nonostante siano di vitale importanza. Rosario D’Agata (Pd) ha riferito della riunione di mercoledì con i dipendenti comunali, ai quali non erano state ancora versate le dovute mensilità. Scriviamo ‘ancora’ perché, come lo stesso D’Agata ha detto, nella giornata di mercoledì sono arrivati i pagamenti. Quanta tempestività! – ha fatto notare sia il capogruppo Pd che, successivamente, anche il collega e compagno di partito Lanfranco Zappalà. E mentre D’Agata ha chiesto spiegazioni anche per la mancata presentazione del piano contabile di quest’anno, Zappalà ha invitato il presidente del consiglio ad allegare alla lettera di convocazione anche i nominativi degli assessori presenti alle sedute, così da permettere ai consiglieri di trattare temi che possano trovare immediata risposta da parte dell’amministrazione.

La risposta dell’assessore al Bilancio (presente in aula come già altre volte, e dunque onore al merito) non si è fatta attendere. Bonaccorsi ha replicato al Pd di aver già detto, nella seduta di lunedì, che l’amministrazione aveva predisposto tutti i bonifici di pagamento, e che si attendevano solo i trasferimenti da parte dello Stato, non potendo il comune coprire frattanto con una propria liquidità di cassa (giacché lo stato delle casse comunali è quel che è, ed è per giunta risaputo). Quindi, si è fatto in fretta perché si attendeva solo i bonifici statali per procedere con gli accrediti ai dipendenti. Inoltre, i termini di presentazione dei bilanci è stato fatto slittare dal decreto sulle ‘mille proroghe’. Dunque non è una mancanza imputabile alla giunta Stancanelli.

Bilancio ma anche commercio. Valeria Sudano (Pid) ha fatto notare come Catania sia stata commissariata dalla Regione per la mancata presentazione, nei tempi utili, di un piano per il commercio. ‹‹Un fatto gravissimo per la democrazia›› ha dichiarato la Sudano, che vede la città privata della possibilità di determinarsi in autonomia su un tema di capitale importanza. Ha poi chiesto di verificare se non si sia in ritardo anche col piano regolatore.

Manfredi Zammataro (La Destra), invece, ha interrogato l’amministrazione comunale sulla salute pubblica. Catania fa parte, secondo Legambiente, di 22 città a rischio per le micropolveri. Qual è il piano dell’amministrazione in merito? Zammataro ha poi concluso il suo intervento sulla Tarsu del 2004-05, che a detta di alcune associazioni di consumatori non sarebbe da pagare perché prescritta. Il giovane consiglieri non è voluto entrare nel merito, ma a chiesto che a pagare siano innanzi tutto gli evasori totali. La risposta di Bonaccorsi è stata netta, citando il Sole24Ore e la legge 296 del 2006: la Tarsu s’ha da pagare.

Non è una bella notizia. Ma non lo è neppure l’ennesimo rinvio dei lavori su argomenti rilevanti per la qualità della vita in questa città. Ancora una volta, infatti, è venuto a mancare il numero legale per procedere alle votazioni. L’ordine del giorno prevedeva, come detto, la concessione della gestione degli impianti sportivi (sono dieci in tutto), e la trasformazione dell’Amt da municipalizzata a Spa. Pare che, all’interno della maggioranza, non si riesca a trovare un accordo sui parametri di concessione degli impianti. Ma se non si vota su questo punto, non si procede col successivo, l’Amt cioè.

Per quanto tempo ancora i catanesi dovranno perdere il tram? Speriamo che il prossimo consiglio sia quello giusto.


Pubblicato l'11 marzo 2011 su www.cataniapolitica.it

I LADRI DI DEMOCRAZIA


di Antonio G. Pesce- Si può passare su tutto. Ma salviamo le apparenze. Se la classe dirigente di questa città, ridotta ormai ad essere l’ombra di ciò che è stata, ha ancora un minimo di pudore, abbia il pudore di non spiattellare in faccia alla gente che amministra la dura realtà della politica a Catania.

Alcuni consiglieri comunali si trovano più a loro agio col dialetto che con la lingua di Dante. È un fatto: si offenda chi vuole. Ma passi. E passi che si arrivi in ritardo di un’ora al consiglio; che, pur essendo già ritardatari, non ci si perita di restare in aula. E passi ancora che, pur restando in aula, ci si mostri chiaramente ad altre faccende affaccendati.

Passi tutto questo, e quel molto altro che la pietà e la quiete impongono. Ma dopo aver privato il cittadino catanese del decoro di una tra le più belle e vive città italiane, non gli si espropri, proprio davanti al naso, quel briciolo di democrazia di cui ancora si dice padrone.

Ultimamente stiamo assistendo a fatti davvero incresciosi. Ieri ne dava notizia G. Grillo: alle sedute del consiglio comunale i cittadini non possono accedere. Quale che sia la ragione, sarà sempre e comunque pessima. Di cattivo gusto, oltre che lesiva della dignità dell’elettorato ormai ‘bue’, da tirare fuori dalla stalla solo al momento del pascolo elettorale. Poco spazio? Si affitti un luogo idoneo. Chiacchiericcio? Mai quanto quello dei signori consiglieri, che non si ascoltano manco tra loro.

Ieri si votava la creazione del parco del mare della Plaia e la concessione delle strutture sportive. Cosucce? No, ma passi che lo fossero. Per ciò dovrebbe disinteressarsene il cittadino? Si dirà che ci sono le dirette. Quali? Per contratto l’emittente televisiva non copre le sedute che si aggiornano. E la diffusione online dal sito web comunale era pessima. Ad intermittenza come le luci di Natale (e la partecipazione democratica a Catania).

Quali altri modi? Quale altra vigilanza della vita politica cittadina? I giornali? Noi di Catania Politica? Coraggio signori: qui nessuno vuol fare lo sbruffone né l’eroe da copertina. Il nostro giornale, così come gli altri della città, sono un luogo di approfondimento, di riflessione, perfino di informazione per chi non può muoversi o non può essere presente. Per le centinaia di migliaia di cittadini che – è ovvio – non saranno mai presenti. Ma la stampa non può salvare la faccia, quando le istituzioni elettive l’hanno persa. Né una setta smette di essere tale, solo perché concede il lasciapassare a un paio di ragazzi col pallino della scrittura. O concedendolo ai propri compari, pronti a garantirle l’omertosa copertura.

Speriamo di non essere i soli a lamentare questa ‘demolizione dello spazio pubblico di discussione’. Per intanto ci tocca osservare che, se gli anni ’50-’60 furono dei ladri di biciclette, e gli anni ’70-’80 dei ladri della ricchezza nazionale, il ventennio che – speriamo! – volge ormai al tramonto, con l’ignominosa ‘repubblica’ a cui ha dato vita, pare essere quello dei ladri di democrazia. E dopo essere stata razziata, Catania non meritava di essere oscurata.



Pubblicato il 9 marzo 2011 su www.cataniapolitica.it

8 marzo 2011

Consiglio in ritardo e in bianco


di Antonio G. Pesce- Alle 22.37, il presidente del Consiglio comunale, Marco Consoli, ha sciolto la seduta. L’ha sciolta perché, come spesso accade nella massima assise catanese, è venuto a mancare il numero legale. E sì che c’era da votare per cose di non poco conto: l’istituzione del parco commerciale naturale “Parco del Mare Catania” della Plaia, le concessioni per l’utilizzo delle strutture sportive, la trasformazione dell’A.M.T. da partecipata del Comune a società per azioni.

Poco presenti i consiglieri comunali. E poco puntuali. A lamentare l’inizio dei lavori in ritardo – puntualmente in ritardo – Manlio Messina (Pdl), e poco dopo anche Francesca Raciti (Pd): entrambi scocciati di aspettare un’ora – dicasi una – prima che i lavori abbiano inizio.

‹‹Ricordo ai signori colleghi che l’art. 13 dello statuto comunale – ha detto il consigliere Pdl – prevede che la seduta si apra all’ora di indizione, e che il numero legale venga verificato in quel momento››, scusando comunque il presidente del consiglio, perché impegnato precedentemente in incontri istituzionali.

E sì che c’era da discutere, oltre che da votare. Puccio La Rosa (Fli) ha interrogato l’amministrazione comunale sul mancato pagamento dello stipendio dei dipendenti comunali. In che condizioni versa la cassa di Palazzo di Elefanti? Rispondendo, l’assessore Bonaccorsi ha spiegato che il problema è dovuto ai mancati trasferimenti statali (l’ultima trance del 2010 e la prima del 2011), ma che non si aspetta altro che gli stanziamenti (peraltro, l’amministrazione ha ricevuto garanzie sulla celerità degli stessi). Forse, in una settimana si potrebbe procedere al pagamento.

Alessandro Porto e Antonio Bonica (entrambi dell’Mpa) hanno sollevato problemi inerenti la vivibilità di Catania: dalle piazze non vigilate, che finiscono per essere ritrovo di bande di giovani balordi, intenti a disturbare anziani e bambini, a manto stradale di via Manzoni ridotto ormai ad un colabrodo (il povero consigliere Bonica ha lasciato intendere di aver sperimentato a suo danno cosa voglia dire percorrere in moto la via).

Che viviamo in una città poverella di quattrini e un po’ rattoppata, questo è risaputo. Ma non è bello neppure farsi sfiorare dal dubbio che la nostra Catania sia anche vergognosamente ingiusta. Sarà così? Bé, Gemma lo Presti (LaDestra-Alleanza Siciliana) e il collega di partito Manfredi Zammataro la pulce nell’orecchio la mettono. La prima chiedeva all’amministrazione – ed è parsa domanda retorica – quali siano i criteri di selezioni per l’assunzione nelle partecipate del Comune, avendo potuto riscontrare casi di aventi diritto che ancora non hanno ricevuto risposta. Il secondo, invece, ha giocato sull’ironia, trattando della diverse tipologie di disabilità a Catania. Ci sarebbe, a detta di Zammataro, chi, pur con apposita certificazione da parte dell’Asl, può accedere con la propria autovettura al cimitero cittadino per la visita ai cari estinti solo nei giornali feriali, e chi, avendo specifica concessione da parte del sindaco o dell’assessore competente, potrebbe farlo anche la domenica. O meglio: chi manca di quest’ultimo (e assai ambito) lasciapassare non potrebbe farlo, acquistando inspiegabilmente un’abilità che, negli altri giorni, è certificato non abbia. Se non fosse per l’ufficialità della dichiarazione, si stenderebbe a credere a tanto squallore.

E non è l’unica deficienza dell’amministrazione, secondo Zammataro. C’è anche il disincentivo al commercio: che altro sarebbe, infatti, l’aver tappezzato di strisce blu il centro cittadino, quando i grandi centri commerciali possono usufruire di ampi (e gratuiti) parcheggi? Era, questo, solo l’ouverture. Da lì a qualche decina di minuti, avrebbe preso la parola il capogruppo, Nello Musumeci, dichiarando che non parteciperà all’inaugurazione prossima del punto vendita dell’Ikea. Altrettanto ha dichiarato il presidente del consiglio, Consoli.

Oggi si riprendono i lavori. Speriamo sia una seduta un po’ più fruttuosa.


Pubblicato l'8 marzo 2011 su www.cataniapolitica.it

6 marzo 2011

Rivoluzione Lombarda (in salsa sicula)



di Antonio G. Pesce– Lombardo è troppo furbo per non essere preso sul serio. Sta preparando qualcosa. Lo sa che sta cambiando tutto in Italia. Nel suo blog personale, l’unico che in casa Mpa sia continuamente aggiornato e assai visitato (il che già dice qualcosa), annuncia che il partito va mutato. Tutta la brava gente che c’è stata finora deve rimanere, ma non si può non aprirsi ad altri. E lui sa – ne ha la scaltrezza politica per percepirlo – che appena l’argine verrà meno, scenderà a valle un mare di gente dal pacchetto di voti pesanti ma senza più un’assicurazione del posto fisso (l’unico rimasto in Italia) in politica. Appena Berlusconi verrà giù, verrà giù tutto il partito. Si sa come vanno queste cose. E allora ci sarà la corsa di vassalli, valvassori e valvassini per la legittimazione del proprio feudo. Chi rimarrà in piedi, dopo la prossima fine della seconda repubblica (ormai è questione di qualche mese), avrà il giuramento di fede incondizionata. Almeno fino a quando potrà garantire feudi ed onori.

Lombardo sa che deve esserci. E sa anche come dovrà esserci: in modo affatto diverso da come c’è ora, e da come ci sono gli altri. L’esempio di Berlusconi e di Fini è fin troppo chiaro. A che serve entrare nelle polemiche e contendersi palmo a palmo uno studio televisivo? Si perde in prestigio. Si perde in consenso. Si perde in comunicazione. E si perde in azione politica, quando si devono accontentare i tanti galli del pollaio. Pensare al partito e pensare al governo, dovendo mescere poltrone a destra per non far fibrillare quelle a manca.

Invece, uno che si sporchi le mani col partito (e con le sue polemiche interne). Magari – scrive sempre il presidente nel suo blog – un intellettuale. Cioè una mente pensante, che capisca i profondi cambiamenti della società. E fa l’esempio di quel che sta accadendo in Egitto, Tunisia, Libia.

Che Lombardo sia un fine politico è fuor di dubbio. Proprio per questo è difficile credere che si sia messo a fare il “figlio dei fiori” nel giardino del Maghreb. È che ha intuito: ritornano gli snobisti. Ritornano quelli con la ‘r’ moscia che vogliono pudicizia, stile, classe, buongusto, idee, e tante altre cosa da palati raffinati di bottega non più oscura, ma d’alta classe. E ha espresso in un linguaggio più vicino alla sua formazione democristiana (Sturzo fu un fine sociologo), quello che il povero Nichi Vendola dice col linguaggio vetusto dell’ideologismo comunista d’annata. C’è bisogno di un’idea, di una ‘narrazione’. C’è bisogno, in soldoni, di far quello che Machiavelli diceva della politica: far credere. Magari senza costruire cattedrali e vitelli d’oro. Una cosuccia semplice, ma che giustifichi il potere e il suo tifo da stadio.

Scosse telluriche in vista. Dalle quali la sempreverde volpe di Grammichele non si farà seppellire.


Pubblicato il 3 marzo 2011 su www.cataniapolitica.it

LEGALAND, Il Veneto infelix della crisi

di Antonio G. Pesce- L’ultima corsa chissà quando c’è stata. Poi il treno si è fermato, e noi a raccontarci ancora la storia del suo viaggio. Canetta e Milanesi, giornalisti d’inchiesta noti ai lettori del Manifesto, ‹‹non guardando in faccia nessuno››, nemmeno la sinistra e la sue colpe (come scrive nella prefazione Massimo Carlotto), ci portano sul binario dove staziona la locomotiva d’Italia, muta senza più gli sbuffi del passato offerto in sacrificio al ridente avvenire.

Scopriamo che i veneti, in fondo e in gran parte, ne attendono ancora il passaggio, ignari che la corsa è stata soppressa. Ignari come tutti gli italiani, perché più simili agli altri italiani di quanto siano disposti ad ammettere. Campagnoli quando gli italiani mangiavano pane e cicoria, industriali quando il territorio è stato svenduto all’illusione del benessere. E che rimane? Spritz e coca. E i nipoti emigranti come i nonni. Ieri perché non c’erano soldi, oggi perché n’è rimasta solo la parvenza.

Legaland. Miti e realtà del nord est (Manifestolibri, 2010, pp.174, € 18,00), gioca con il linguaggio, forgiandosi le metafore che gli servono per raccontare il dramma di un popolo, che cercando se stesso (e fin troppo) finisce per perdersi. È il 29 marzo del 2010: Luca Zaia, leghista, è presidente della regione. La grezza macchina da guerra padana ha spazzato via avversari e perfino alleati, in un crescendo di esaltazione elettorale, che nei piccoli paesini del vicentino raggiunge proporzioni bulgare. Il carroccio entra vittorioso in fabbriche deserte, in aziende vuote.

‹‹Vene-tilt è un gigantesco oleogramma – scrivono Canetta e Milanesi – architettato sopra fondamenta di sterco. Spiace comunicarlo ai professionisti in carriera. Stringe il cuore risvegliare l’esercito di imprenditori senza qualità. Forse, sarà scorretto politicamente. Magari, non è elegante sputare nel piatto di Lions, Rotary, camarille beneficenti e massonerie di provincia. Ma il re è nudo, di nuovo, in queste lande dove si finge di vivere come a New York finché si uccide Timisoara›› (p. 22).

Di nuovo nudi, come una volta. L’associazione degli industriali infarcita di società di servizio, con l’imprenditore che chiude bottega, e che spinge il figlio a prendere la via di Milano, se non dell’estero. ‹‹Questa era periferia che ha fatto il suo bel giro nella giostra della ricchezza›› parla il nipote di chi andò via con la valigia di cartone.

Eppure, i sintomi erano chiari già dal 2007, quando i prestiti alle aziende erano in aumento dell’11%, crollavano i risparmi delle famiglie, e l’economia del mattone era tutta un’ipoteca. Sotto queste banali Note sulla congiuntura, pubblicate dalla Banca d’Italia (mica da una loggia segreta), si copriva il vero volto delle partite Iva: padroncini, artigiani, posatori d’opera in sub-appalto, commercianti di nicchia, spazzini di scorie, e ‹‹coltivatori di contributi europei, concessionari di simboli, immobiliaristi da paese›› (p. 59). L’Alpi Eagles in bancarotta, e Padova che campa di sanità. Poi il 2008, il deragliamento della locomotiva. A Padova, un quarto dei finanziamenti diventa pignoramento. A Treviso, ad un artigiano su quattro si revoca il fido, e Venezia perde posti di lavoro a gogò. Leggendo, si scopre di Hasana, 25 anni, marocchina e nessun zio egiziano d’alto rango, ‹‹schiava della monnezza››; o di quella sera – il 7 maggio 2010 – quando la Confartigianato di Treviso incontra la Guardia di Finanza e la verità sul lavoro ‹‹nero››.

È un libro di biografie questo, e da biografia in biografia ricostruire il profilo di un mito che si sta sfaldando. E può disorientare il lettore il ballo dei temi, con paragrafi che descrivono il crollo dell’economia e altri che disanimano lo sballo e lo sbando morale di una generazione cresciuta col modello del guadagno facile (dopo che quella precedente si era spenta di lavoro onesto). Canetta e Milanesi non propongono un filo conduttore. Deriva morale o fallimento economico? Scelga il lettore. I fatti sono questi: il benessere se n’è andato, e al benessere si era sacrificato tutto. Non solo il territorio, una marea di capannoni abbandonati. Anche l’anima. Lo si era già capito quel mercoledì 17 marzo 2004, quando dal centro di tossicologia e antidoping del’Istituto di Medicina legale dell’università di Padova scomparirono (nell’ordine) 49 chilogrammi di eroina, quasi 6 di cocaina e 2 di hashish. Una pista bianca che si segna, infine, di rosso. Lo si capisce dal crescente numero di Tso – trattamento sanitario obbligatorio, 400 all’anno.

‹‹È la maionese impazzita di una società sradicata dall’identità. O l’ubriacatura da ricchezza nel bicchiere vuoto di senso. A volte, soltanto debolezza e incapacità di dimostrarsi sempre e comunque forti, potenti e vincenti. Insomma, è il Veneto che si ammala perché non c’è più un altare chiamato madre terra su cui sperare››.

Sotto la cenere della combustione turboefficientista, però, giace ancora il vecchio e rimpianto Veneto. Che non pensa alla secessione golpista, ma al volontariato caritatevole. E che non va a ‹‹caccia›› di zingari e terroni, ma che sperimenta il meglio di sé a scuola, in via Anelli. O riempiendo un palazzetto dello sport per scoprirsi ancora (come sempre) solidale. Questa, infine, l’identità vera dei veneti, il valore aggiunto che manca ad un’Italia sempre più uguale, perché sempre più falsa.


Pubblicato il 4 marzo 2011 su www.cataniapolitica.it

2 marzo 2011

Villaggio della Solidarietà: abbiamo cuore ma non siamo fessi





di Antonio G. Pesce- Alla fine è stato deciso: sarà Mineo, bel paesino di appena 5 mila abitanti, ad accogliere le decine di migliaia di immigrati sfollati dal Maghreb in fiamme. Se dovessimo guardare alla cosa in sé, senza dare una sbirciatina oltre, non bisognerebbe neppure discuterne: ci sarebbe da essere fieri della nostra terra. Non siamo ricchi né lo Stato ha mai dimostrato particolare attenzione alla sicurezza in Sicilia. Ma quando esondano fiumi e ci sono calamità in giro, il cuore siciliano si apre perfino a chi voleva farlo inghiottire dall’Etna. Tra i primi a dare affetto e comprensione agli alluvionati del Veneto ci sono stati gli abbandonati di Scaletta Zanclea e Giampilieri.

C’è da essere fieri. Costi quel che costi, perché anche la fierezza ha un costo. Ma è il prezzo di chi sa essere autentico. E noi siciliani manchiamo di lavoro, di danaro e di quell’efficienza che altri sbandierano. Ma non di sincerità di sentimenti.

Non stupisce, allora, che a Lampedusa i primi sfollati dal Nordafrica siano stati accolti benevolmente e aiutati dalla stessa popolazione. Come non stupisce che, quando si è prospettato “l’esodo biblico“, a Lampedusa abbiano cominciato ad innervosirsi un poco. Perché non c’è peggior errore che scambiare la bontà sicula per stupidità terronica. Ed è bene ricordarlo non già ai poveri immigrati, ma a certe mezzetacche della politica italiana, che lo squallore attuale ha reso strateghi.

L’Italia, per contiguità geografica e intreccio economico, ha un legame speciale con i paesi della sponda sud del Mediterraneo. Si presume, allora, che faccia buona guardia ai propri interessi. E, per questo, i nostri ministeri pullulano di gente: impiegati di tutti i livelli, consiglieri, analisti, ecc. Si presume, ancora, che non tutti i posti vadano all’idiota raccomandato di turno, ma che un paio siano riservati dalla sorte ai raccomandati di un certo spessore culturale. Alla fine della fiera, ci sarà posto anche per il non-raccomandato, il cervellone che farà tutto il lavoro dei primi e anche parte di quello dei secondi.

Si spieghi, allora, come sia stato possibile farsi cogliere totalmente impreparati.

Impunemente, siamo andati in Europa ad elemosinare aiuti appena avvistata la prima scialuppa. Siamo arrivati a sparare cifre come 300/400 mila immigrati, senza considerare che per un esodo di questo tipo sarebbero state necessarie qualcosa come 80 navi da crociera riempite all’inverosimile. Poi, preso il due di picche dall’Europa, che c’è quando c’è da spartirsi la torta (e allora non c’è l’Italia), ecco ripiegare sui terronici lidi. Perché il signor ministro degli Interni non poteva certo dire, a Catania, che la soluzione del problema andava “federata”. Figurarsi! Dopo anni di lotta all’immigrato, portarsene cinque, diecimila dietro casa avrebbe rappresentato l’ennesimo colpo alla credibilità del partito-quartiere.

E allora? Esportiamo in Sicilia l’eccellenza: ammassiamo migliaia di sfollati, e lo chiamiamo ‘Villaggio della solidarietà’. E sia chiaro: nel linguaggio di chi scrive e, ci si augura, in quello di molti che leggono, ciò è da considerarsi un segno di civiltà. Ma che senso si crede abbia nell’Italia delle ronde? Nell’Italia in cui ci si vanta di aver disinfettato i compartimenti dei treni dove viaggiano i “negri”? E qualcuno pensa davvero che si voglia ricordare Mineo come “cuore” della solidarietà nazionale? Proprio ora, quando fino a ieri invocavamo respingimenti anche a colpi di fucile?

La politica isolana tace. Qualche mugugno, ma niente più. E forse, per una volta, non si può non concordare con i razzisti dal DDT facile: le classi dirigenti del Meridione sono scandenti. Perché farsi far fessi dai tonti non è per nulla facile. Bisogna essere davvero incapaci.


Pubblicato l'1 marzo 2011 su www.cataniapolitica.it