"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

21 marzo 2011

PIERPAOLO GIUFFRIDA, ARTISTA DELLA FOTOGRAFIA



Pierpaolo Giuffrida, giovane artista, vive e lavora a Motta S. Anastasia (Catania).


di Antonio G. Pesce - Gli amici che in Pierpaolo Giuffrida hanno visto, non molti anni fa, oltre l’uomo di cui i genitori possono andare fieri, il genio dell’artista e non solo la capacità del professionista, non hanno ancora saputo offrirgli o procurargli un palcoscenico più degno della loro pur viva attenzione.
E forse non è un male, perché il talento acerbo matura di giorno in giorno, e se si confrontano le ultime opere da ritrattista con le prime da sperimentatore di forme e colori, si nota come l’occhio si stia facendo sempre più aperto alla vita. E quando parliamo di vita è degli uomini, invero, che parliamo. Perché gli oggetti, che in un primo periodo della sua produzione Giuffrida coglieva, erano giochi che la luce faceva col nostro senso comune.
Ora è da qualche anno, che egli va interrogando persone – e, interrogando, si lascia interrogare. E persona è chi ha coscienza – quale che ne sia il grado poco importa – di ciò che è, e coglie il barlume di ciò che sente di dover essere. Non è un’opera facile: non si contano i meriti, se l’impresa di far parlare un volto riesce; e neppure i demeriti, quando il volto venisse manipolato per farlo mero specchio della vanità dell’artista che lo ritrae.
Come si risolve Pierpaolo in questa impresa? Proprio nella ‘discussione’ artistica, che egli sta affrontando da anni col suo oggetto, è venuto a dei punti fermi che non possono che apparire interessanti. Tra i primi questo: ‹‹Dobbiamo ridare al mondo, ciò che il mondo in noi imprime, questo mestiere produce prevalentemente memoria››. Un dia-logo, appunto. E questa coscienza non è per nulla banale. Ma è banale il richiamo alla memoria? Una foto non è forse questo per antonomasia? Sì, se non fosse che in Giuffrida è chiaro che questa memoria è storia – come ogni dialogo; è l’apparire dell’evento dell’esistenza altrui nell’orizzonte della propria (il mondo e l’artista; il tu che si imprime e l’io che lo interpreta).
E qui un senso profondo di umiltà che – non è per piaggeria che lo si scrive – solo un artista ‘vero’ può avere. Pierpaolo sa che il suo occhio non fa la vita: deve soltanto raccontarla nel suo farsi. Nel suo dialogo coll’oggetto, egli permette all’uomo di mostrarsi non già come oggetto – in fin dei conti, punto focale d’un occhio – ma soggetto, volto appunto, interrogato e interrogante.
‹‹Il nero è la base d’argilla sulla quale costruisco la profondità di un immagine››. Il nero è, allo stato attuale della sua ricerca iconica, un altro punto fermo del giovane artista mottese. E può sembrare che egli ci smentisca. No, egli ci conferma ancor più, che il suo ruolo è quello della levatrice: far emergere, portare alla luce. Infatti aggiunge: ‹‹Nel ritratto la profondità prospettica permette al soggetto di esprimere la propria identità, il non volersi fermare all’apparenza, permette all’occhio di continuare a viaggiare››.
Il nero, dal quale Giuffrida vuol far emergere la profondità, diremmo il carattere di un soggetto, che cosa è, se non l’insondabile mistero dell’esistenza umana che il volto afferma, ma che non del tutto riesce a spiegare (neppure a se medesimo)? E può l’‹‹altro››, che non sia il datore dell’esistenza, assorbirci in sé tanto da dirci inconfutabilmente chi siamo? – a noi, che ogni giorno
cerchiamo di chiarire a noi medesimi il senso della nostra esperienza? Può la macchina – la sua camera – tracciare i confini della vita e quelli della morte?
Qualcuno pensa sì. L’Artista, quando ritrae, afferma decisamente il suo no. La vita non può essere arginata – trabocca continuamente dallo spirito, e dall’immagine che imprime. Se trabocca, è perché non è conchiusa. E se non è conchiusa, è imperfetta – è questo cerchio che non si chiude. Per questo, l’artista afferma: ‹‹Se per assurdo dovessi accorgermi d’aver lavorato un’immagine perfetta, aggiungerei di proposito un errore per darle umanità››.
Egli sa che, qualora malauguratamente fosse soddisfatto, non avrebbe creato un’opera d’arte, ma confezionato una merce, immagine del suo ego e prodotto della sua macchina, e dunque infinitamente riproducibile. E se riproducibile, non più evento, arte, ma tecnica. Per cui non si tratterebbe certamente di un poeta, ma di un costruttore;insomma di un mestierante.

Pubblicato su L'Alba del marzo 2011.


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