"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

17 marzo 2011

LA LEZIONE DI FALCONE E BORSELLINO

Non dovrebbe apparire turpe dire che in Italia l’amministrazione della giustizia non funzioni. Semmai, è chi lo dice che dovrebbe tacere. Ma il problema c’è, quantunque sempre più spesso sollevato dai meno valenti nel risolverlo, e ultimamente ne stiamo avendo qualche prova ulteriore. Non ne sono mancate in questi anni. Perché, non appena si è distolto lo sguardo dall’imputato d’eccellenza, sono emersi gli errori di una casta che, per inefficienza nel computo generale, non ha nulla da invidiare alle altre già presenti sul suolo nazionale.

Sabato, però, abbiamo avuto l’ennesima dimostrazione della confusione in cui si cerca di sopravvivere in Italia. Non mi piace la piazza, e se devo farmela piacere, preferisco usarne più che abusarne. Capisco che ognuno ha la sua fede, e che anche il più convinto laico ha bisogno di un rito. La democrazia, in questo caso, andrebbe celebrata nei luoghi atti a difenderla, e non già in quelli dai quali, solitamente, la si rovescia.

Le masse possono non avere testa. E sono pericolose. Se però un potere dello Stato le capeggia, allora sarebbe imprudente non fronteggiarle. E spiace che il momento clou di una tra le molte piazzate degli ultimi tempi, sia stato rappresentato dal discorso del procuratore aggiunto di Palermo, Antonio Ingroia. Era nel posto sbagliato. E, peggio, con la postura sbagliata: mettere le mani in tasca e tenere degli occhiali neri in viso non è un atteggiamento minimalista, per chi sa leggere i segni. L’eloquio furente avrebbe dato l’impressione di un capopopolo – vero -, ma quello del pubblico ministero è sembrato tipico della spocchiosa eminenza grigia.

Spiace dirlo. Spiace a chi è stato svezzato alle cose civili dall’eroico esempio di Falcone e Borsellino, ora neppure vent’anni fa, e già pare passato un secolo in questa Italia dal passo di gambero. Ma proprio quell’esempio ha lasciato impresso uno stile, che oggi non possiamo permetterci di dimenticare. Perché andare in diretta televisiva, o anche in convegni organizzati da forze politiche, per parlare di lotta alla mafia – si trattasse pure di smascherarne i collusi in campo politico – ha un valore ben diverso che accettare, nel contesto che stiamo vivendo, un microfono in piazza, tenere il proprio comizio, e opporsi ad una proposta di legge. Ancora prima che venga discussa in Parlamento. Ancora prima che l’intera nazione abbia cominciato a discuterne per ‘chiarirsi’ le idee – cosa ben diversa dall’avercele ‘chiarite’ – su pregi e difetti di un’azione legislativa.

Si dirà – lo dicono sempre politici in avanzato stato di decomposizione logica e giornalisti dal taccuino di partito – si dirà che i magistrati con quei ferri ci lavorano, e dovrebbero saperne più di altri. Non è argomento privo di un qualche fondamento, anche perché la politica, che dovrebbe legiferare, quando lo fa – sempre che lo faccia – lo fa assai male, con pastrocchi che mettono bene in luce le deficienze culturali della nostra classe dirigente. E lo fa senza autorità, se dalla Sicilia alle Alpi negli ultimi lustri il candidato più credibile non è più il docente universitario di diritto costituzionale, bensì il magistrato salito alla ribalta per questa o quest’altra inchiesta. Ma una domanda dovrebbe apparire legittima: fino a che punto possiamo venire meno ai nostri doveri, per salvare controvoglia chi si è dato alla perdizione? Da un male si può ricavare, sempre e comunque, un bene?

Dagli sconfinamenti in ruoli diversi non se n’è cavato alcunché di buono. Abbiamo un presidente del Consiglio senza più alcuna briglia; un presidente della Camera a due livelli: il piano giorno per il ruolo istituzionale, e il piano notte per quello da capo di partito; un presidente del Senato che nelle polemiche tace, piuttosto che difendere a spada tratta il Capo dello Stato. Davvero abbiamo bisogno di una magistratura che scende in piazza per mischiarsi alle ‘piazze’? Davvero abbiamo bisogno di epistolari, in cui i cittadini vengono derisi e offesi proprio da coloro che domani potrebbero inquisirli?

Chi difende d’ufficio Ingroia, fa leva sulla ‘distinzione’ di ruolo tra il cittadino e il magistrato. E sulla Costituzione, che garantisce ad ogni persona l’espressione della propria opinione. In un sol colpo, ci si contraddice e ci si rimangia il tanto moralismo sputato nei mesi scorsi. Perché, oltre che di reati e di libertà personale, non era anche questione di ‘etica pubblica’, indistinta da buongusto e dalle buone maniere? Forse che la Costituzione, che tanto solerte pare nel garantire a ciascuno di noi di far il casino che vuole, poi sia così restia a lasciarci copulare come meglio crediamo, innamorati o no, per mera voluttà o nella reciproca convenienza? Eppure, per paura che l’inchiesta sulla signorina marocchina, amica del signor Silvio Berlusconi, si sgonfiasse, o che il giudizio immediato sui giornali divenisse regola valevole per tutti, ci si è messi ad impartire lezioni di galateo in diretta televisiva. Addirittura ascoltando belle signorine dall’inconfondibile accento yankee raccontarci quanto sia bello vivere in una società puritana (sic!).

Ora qualcuno ci dica se in quei “Paesi civili” tanto decantati, divenuti l’Eden del conformismo perbenista, sia permesso a chi deve amministrare la giustizia, scendere in piazza per bloccarne, ancorché giustamente, la modifica. E chi ha la fortuna di servire la nazione, senza bisogno di doversi prima contendere la simpatia dell’elettorato, trovi altri modi di salvarla dallo scempio giuridico, evitandoci la propria imbarazzante presenza tra le trincee del politicume attuale.


Pubblicato il 15 marzo 2011 su www.thefrontpage.it

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