"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

29 marzo 2011

LA VOLONTA' DI POTENZA NELL'ERA ATOMICA


di Antonio G. Pesce - Il ministro delle Attività Produttive – un signore distinto che ben conosce l’arte moderna della retorica nella piazza televisiva – ha concluso salomonicamente il dibattito, da poco apertosi in Italia, circa la costruzione di centrali atomiche per la produzione di energia, rimandando alle calende italiche la decisione definitiva.

È così che si decade: quando non si ha spirito per decidere, e si rimanda di giorno in giorno, passando dalle fiamme dell’entusiasmo ai piccoli conti da bottegaio. Perché tutta la vita – parafrasando un filosofo che, in linea di massima, dovrebbe essere ben conosciuto dalla compagine oggi al potere – “è risolvere problemi”. E non c’è vita, se non c’è soluzione del problema attuale. Non c’è vita, perché non si può passare avanti, ad un altro problema. E, del resto, ogni generazione ha il suo problema, e dalla soluzione dipende l’eredità che saprà trasmettere alla generazione ventura. Non tutti i problemi sono risolvibili: quello del senso della vita, della morte, della felicità, e tanti altri non sono risolvibili. Ma i tentativi provati da chi ci ha preceduto sono il dono più grande che ci viene dal passato. Servono a non farci pesare l’angoscia della solitudine, quando la vetta – ciascuno di noi ha la sua – è ancora lontano e lontani i compagni di scalata, il campo base, l’ultimo paese attraversato.

Ora, non tocca al politico, quantunque ci abbia provato a rogarsi questo diritto, risolvere il senso profondo della vita. Gli tocca in sorte quello di “moderare la discussione pubblica” per la soluzione di problemi inerenti la comunità. E tra i problemi più impellenti non c’è quello delle centrali atomiche. Strano che non se ne siano accorti neppure i suoi cortigiani, pronti a difenderlo da quelli della parte avversa a colpi di stilo e cancellino. Il vero problema è: che società vogliamo? Cosa siamo disposti a sacrificare per una società diversa?

Martin Heidegger aveva posto esattamente il senso del nostro momento storico, quando scriveva: “Così si viene diffondendo l’apparenza che tutto ciò che si incontra sussista solo in quanto è un prodotto dell’uomo. Questa apparenza fa maturare un’ultima ingannevole illusione. È l’illusione per la quale sembra che l’uomo, dovunque, non incontri più altri che sé stesso”. Noi viviamo di questa convinzione – tutta la nostra epoca è attraversata da questo desiderio: sottomettere la natura, cioè tutto ciò che non siamo noi stessi, alla nostra volontà. Abbiamo per questo piegato lo spazio, potendo attraversare in pochi giorni distante che vedevano, una volta, il consumarsi di intere vite. Abbiamo piegato il tempo, potendo dilatare l’ultimo confine dell’esistenza grazie alla laboriosità dei nuovi artigiani della vita. Infine, perfino la Storia è in nostro possesso – la storia dell’umanità intera – perché noi siamo (forse) l’ultima generazione a godere del privilegio dell’intangibilità. Dopo di noi, gli incubi di Michel Houellebecq, l’autore di Le particelle elementari, potrebbero diventare realtà. Già gli embrioni vengono prodotti e selezionati, ma ci sfugge ancora la possibilità di determinarli in tutti i loro connotati fisici. Non è da escludere che lo si possa fare un giorno. E quando ciò accadrà, è probabile che sarà accolto come la riprova della nostra potenza, della nostra infinità libertà: fino ad oggi, ogni capacità tecnica è stata ritenuta lecita.

In una cornice come questa, svegliarsi un mattino e temere le centrali nucleari è un atto irrazionale. Non già perché non ci sia da temere. Tutt’altro. A pensarci bene, ce n’è abbastanza per essere terrorizzati: più di quattrocento centrali in tutto il mondo, senza contare le decine e decine di migliaia di testate atomiche celate nel nostro sottosuolo. Ma resta il fatto che ci siamo spinti troppo oltre, per potere ancora negoziare soltanto tecnicamente con la nostra epoca. Che significa? Noi abbiamo bisogno di potenza: ecco cosa significa. Se lasciamo tutto com’è, e se non mettiamo in conto che, cambiando, andremo incontro a enormi sacrifici, non possiamo pensare di gestire altrimenti la faccenda. Avremo sempre più bisogno di più ampie quantità di energia – per ogni fine, soprattutto per fini nobili e alti. E pensare di rispondere a questa bulimia di potenza con altra potenza, quantunque apparentemente più pulita, è altrettanto irrazionale, anche se domani potrebbe diventare tecnicamente possibile. L’apprendista stregone, che vuole rimediare ad una magia errata con un’altra, si stringe sempre più il cappio al collo.

Servirebbe una rinegoziazione etica. Prassi troppo lunga, e non solo per le impellenti faccende pubbliche italiane.


Pubblicato il 28 marzo 2011 su www.thefrontpage.it

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