"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

2 aprile 2011

ROBERTO DE MATTEI E IL CASTIGO DI DIO

Dato che è impossibile fare le pulci alla logica e alla retorica della politica italiana, non fosse che perché paiono ormai infestate, da un po’ di tempo i maestri del pensiero educato hanno cominciato a censurare i reprobi che non giacciono come converrebbe tra le lenzuola di casa, e che non pensano come si dovrebbe dalle cattedre di competenza.

Così, l’ultimo inquisito della serie è Roberto De Mattei, storico e vicepresidente del Cnr. Dai microfoni di Radio Maria – cioè, in pratica, da una sacrestia, e fino a ieri le sacrestie e gli altari, come l’intimo delle coscienze, erano ritenute estranei al seminato laicista – ha dato una lettura poco consona alle orecchie dei millenaristi attuali: i terremoti, perfino quello del Giappone (ancora mediaticamente molto forte), potrebbero essere un castigo di Dio.

Forse l’incauto studioso non sa che quel Dio, di cui egli si professa credente, è assai più misericordioso degli adepti del catastrofismo illuminista, il quale accetta di buon grado le profezie Maya, e che un conduttore le pubblicizzi (e con esse il proprio libro) da un canale televisivo pubblico, ma che poi monta su tutte le furie se tra un Pater e un’Ave qualcuno ceda alla tentazione dell’apocalismo di altra marca.

Intanto, però, nell’era della cittadinanza digitale, coloro che furono indifferenti cittadini ieri, oggi si impegnano con petizioni in rete: una delle tante chiede le dimissioni dalla vicepresidenza del Cnr del Prof. De Mattei. Chi la firma, dimostra suo malgrado di non conoscere il reale stato della cultura e della ricerca scientifica in Italia. In questi lidi pieni di cattedre, il minor danno che un accademico possa fare è spararle grosse dai microfoni di una radio. E, inoltre, è bene lasciare decidere alla fallibile discussione pubblica ciò che è giusto dire e ciò che non lo è, piuttosto che sancire, attraverso atti ufficiali, ciò che è lecito pensare.

Comprensibile che ad alcuni siano scattati i nervi, e abbiano chiesto ad un improvvisato profeta di pagare il fio delle proprie colpe: da noi mai nessuno si dimette, e dunque ci si accontenterebbe di un piccolo gesto per una colpa così insignificante, sancita da un tribunale così improvvisato. Ma come la classe politica italiana dovrebbe dimettersi per ben altre faccende che non per questioni di donne, così a quella culturale andrebbero chieste ben altre spiegazioni, che non circa le proprie vedute ultraterrene.

E poi il professor De Mattei ha detto roba vecchia perfino per le sacrestie: Dio permette le catastrofi per la redenzione dell’uomo, perché questi non si leghi ad una terra e ad una condizione che dovrà presto lasciare; da questo male, Dio può ricavarne un bene, in un modo o in un altro. Non sono concetti propriamente suoi, ma di mons. Orazio Mazzella, arcivescovo di Rossano Calabro dal 1898 al 1917, ormai passato agli onori degli annali perché deceduto da più di mezzo secolo. Parole scritte all’indomani del terremoto di Messina (1908), perché ieri come oggi, ciascuno cerca risposte all’inspiegabile, e l’assurdità del male, per chi non sa darne e, ancor più, non ne cerca, non è meno banale della banalizzazione della volontà divina.

Dovremmo ancora disputare – noi secolaristi di un secolare tempo – attorno alla domanda di senso di uno di noi, per quanto sbagliata possa sembrarci? Quale decalogo, e scritto su quale pietra, bisogna seguire nel tentativo di trovare un senso plausibile al grande mistero del dolore? E possiamo imputare a colpa le spiegazioni personali che ciascuno di noi cerca di darsi, per trovare il bandolo della matassa qui sulla terra? Perché tanto scandalo? Le idee ‘incresciose’ del professore (espresse, tra l’altro, in tono dubitativo) hanno ricadute su ciò che è stato, su ciò che potrebbe essere e sulla comunità intera? No. Avesse taciuto De Mattei, nulla sarebbe cambiato: la morte sarebbe ancora lì dov’è, pochi metri sotto le macerie. Ed è probabile che, se da quel microfono egli avesse proferito ben altre parole – quelle della ‘solidarietà’, la quale non è detto che, perché offerta, sia poi sincera – non per questo sarebbe mutato qualcosa nell’economia della tragedia. Mancano migliaia di esseri umani all’appello dell’affetto dei cari: le nostre buone parole o quelle ‘scandalose’ di De Mattei hanno lo stesso valore.

Semmai, non è chiaro a quale Dio lo studioso si riferisse. Al Dio dei cristiani? Quello rivelato da Gesù il Nazareno, un tipo molto più severo dell’allegra brigata che oggi lo rappresenta in terra, ma che un giorno disse ai suoi: “Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi” (cfr. Gv 15,15)?

Non c’è bisogno di tirare in ballo ogni volta la volontà divina: nella prospettiva del credente, Dio non ha creato il male, e ha fatto di tutto per evitare che entrasse nella storia. C’è entrato però: si chiama peccato originale. Laicamente si dice ‘debolezza ontologica’. La fragilità è la cifra della nostra essenza: noi siamo così. E così è il mondo intero. Vorremmo volare, ma non abbiamo le ali per farlo. Vorremmo l’immortalità e la sicurezza della beatitudine, ma non ci appartengono. Noi siamo quel che siamo. Possiamo diventare migliori, ma non perfetti. Possiamo rendere più pacifico il mondo, ma non più stabile.

Bisognerebbe sforzarsi di essere uomini migliori, non già dèi scadenti.


Pubblicato il I aprile 2011 su www.thefrontpage.it

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