"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

18 ottobre 2010

L'ISTRUZIONE, IL FALLIMENTO NAZIONALE


di Antonio G. Pesce- Siamo un Paese conformista. Trattiamo i grandi temi della civiltà – quei temi che noi per primi abbiamo portato alla ribalta della Storia – come fossero moda da rotocalchi. Tra le vicende amorose della soubrette siliconata di turno e la collezione autunno-inverno dell’alta sartoria italiana (ottimo business, ma sartoria rimane e non arte), siamo tornati a parlare di istruzione e formazione, di scuola e università. Quando perfino il Corriere della Sera ne discute a più colonne, allora la cosa è fatta, e il tabù è caduto. Coraggio, fiato alle trombe!

Da alcuni mesi, a sinistra come a destra si dice che qualcosa bisogna fare. Fin qui, credo ci arriviamo tutti. Anche perché i dati parlano chiaro: siamo tra gli ultimi al mondo. Per fortuna, le ridicole statistiche Ocse non colgono nel segno, perché fatte con parametri quantitativi che non fotografano la gravità della situazione. Fotografano l’efficienza. E l’inefficienza è un male benigno, la decadenza no.

Fino a ieri credevamo di avere solo un problema occupazionale. Facile nascondere crepe ben più profonde: in fin dei conti, ci restavano a spasso quattro sfigati letterati e un paio di filosofi. “Caspita vogliono questi? – si diceva – la gloria della storia e gli agi del tempo?”. Ora ci accorgiamo che ci rimangono fuori anche gli ingegneri. Ovviamente. Il mondo del lavoro tecnico si sta altamente specializzando, ma noi cominciamo a scarseggiare di specialisti. Per specializzarsi ci vogliono soldi in infrastrutture, tecnologie, scambi culturali. Cioè, in poche parole, ci vuole ricerca, e nel campo delle scienze naturali e tecnologiche molto più che in quelle umanistico-filosofiche. Ed è proprio la ricerca che non facciamo più. Non è più attraente. Nessuno va a letto col morto. E se ci va è un necrofilo, non un ricercatore.

Mi diceva l’altro giorno una dirigente dell’università di Catania che suo figlio, ingegnere, era stato “invitato” a concorrere al concorso a dottorato nell’ateneo in cui si era laureato. Il ragazzo ha rifiutato. Ampio il rischio di non aver le stesse opportunità di formazione come nel privato, e comunque di non trovarsi che un paio di mosche in mano alla fine dei tre anni. Ma – aprite orecchie gente – il ragazzo, tra le varie offerte, non ha scelto le aziende italiane: si è impiegato in una multinazionale che lo ha mandato a destra e manca in Europa per stage, convegni, corsi. Lo licenziassero ora – ad appena quattro anni dall’assunzione – perderebbero frutto e capitale: quel giovane si porterebbe dietro esperienza, formazione, innovazione, ecc.

Non è attraente la ricerca statale e universitaria. Non lo è quella privata e aziendale. Crediamo, però, che il problema sia solo lavorativo? Il problema è anche civile. Oltre che disoccupati, stiamo condannando le future generazione all’infelicità. Per millenni, la cultura è stata civiltà, cioè un bagaglio umano di esperienze collaudate tramandate da padre in figlio con le quali affrontare la vita, personale e comunitaria. Non stupitevi dell’aumento esponenziale della violenza e della disperazione: ogni stato, a suo modo, esprime l’incapacità umana di comprendere la complessità della vita nella solitudine in cui l’individuo si trova oggi, senza più radici né esempi. Leggere del dolore di Saffo o di quello di Leopardi, comprendere le motivazioni di un evento, porsi i dilemmi etici e politici di un Platone o di un Aristotele è un’operazione “inutile” solo per i cretini, la cui stupidità troverebbe insignificante pure la zappa – perché il contadino non ara solo per mangiare, e per rimpinzarsi da solo la pancia, ma esprime un mondo simbolico che l’idiota ‘mediaticamente lobotizzato’ non potrà mai comprendere.

Chiunque abbia un po’ di intelligenza, sa che leggere il passato non è come leggere il numero di targa della propria automobile o il libretto di istruzioni dell’ultimo Ipod: nell’esperienza della lettura e della scoperta incontra altri uomini, altre gioie e altri dolori, successi e fallimenti. Si appropria, soprattutto, di un patrimonio simbolico che gli rende più duttile lo spirito, comprendendo che la complessità esistenziale non la si affronta con l’immaturità delle piccole passioni fugaci, ma con la caparbietà di un progetto.

Prima abbiamo scoperto il bullismo. Ora che una scuola possa diventare luogo di esposizione folcloristica del provincialismo vaccaro. Non stiamo perdendo solo posti di lavoro, ma anche le ragioni dello stare insieme. Si inizia così del resto: prima si cambia la bandiera, poi le recinzioni. Dalle bande verticali del tricolore al filo spinato della simbologia celtica.

Poniamoci una domanda e diamoci la risposta: perché i paesi di cui apprezziamo il senso civico e la prosperità economica sono anche quelli che più spendono in istruzione e ricerca? La risposta, però, non può essere che noi spendiamo male, perché fra spendere male e non spendere affatto c’è un’altra possibilità, che avremmo potuto sperimentare prima di ridurre al collasso istituti e atenei: spendere bene.

La riforma proposta dal ministro dell’Istruzione non potrà essere approvata che tra un mese, forse due. Forse. Di sicuro, qualora entrasse a regime, sarebbe l’ultimo colpo – perfino ben assestato – ad un organismo già cronicamente malato. L’approvazione, tuttavia, è slittata a copertura finanziaria da recuperarsi. Chi di taglio ferisce, di taglio perisce.


Pubblicato il 16 ottobre 2010 su www.cataniapolitica.it

15 ottobre 2010

SERVA STAMPA DI PADRONA POLITICA



di Antonio G. Pesce- Non ci tengo alla testa di Sallusti. Non mi piace: pelata com’è, mi fa pensare a come potrebbe diventare la mia, che di foglie ne perde tante e quelle che rimangano appassiscono sempre più. E Porro, il suo vice, ha una chioma fluente ma la faccia butterata. Due mie paure. E poi non mi piace il loro editore (quello vero, mica i prestanome), perché amo stare con i perdenti, e stavo con lui quando erano i conduttori Rai a processare lui e non viceversa. Però, in vita mia non ho neppure mai parteggiato per i santini – che venero solo se posti sull’altare da una canonizzazione papale – e per le verginelle tutte casta e redazione.

L’inchiesta di Woodcock incomincia a destarmi qualche sospetto. All’inizio ci avevo creduto pure io, ma ascoltando più campane – tutte stonate – e sentendo cosa dichiarano dalla procura, incomincio a nutrire seri dubbi. Perché è stato intercettato il vicedirettore de Il Giornale? Mistero. Non è indagato il suo interlocutore, Rinaldo Arpisella. Non è indagata la presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia (almeno così fanno sapere dalla procura). E non erano indagati Porro e Sallusti. E allora le intercettazioni? Mistero.

Nessun mistero sul fatto che la giustizia in Italia non funzioni. Ormai è un segreto di pulcinella, e tutti ci siamo abituati alla cosa. Continuiamo, invece, a marciare compatti per difendere non solo la libertà di stampa, ma la credibilità di coloro che l’amministrano. E qui ci sbagliamo. Perché i giornalisti sono questa massa di ipocriti, che mette in croce Porro prima che qualcuno li chiami a scagliare la prima pietra.

Porro è un giornalista e – puta caso – lo è pure il portavoce della Marcegaglia. Perché industriali, uomini politici, grandi case editrici, istituzioni eccetera assumono giornalisti come loro addetti stampa? Perché il mestiere lo sanno bene? No, per fare quello che fa Arpisella: sapere prima quel che potrebbe sapere dopo, e cercare di non farlo sapere a nessuno se gli riesce; o farlo sapere in un altro modo, se proprio non può far altro. E anni vissuti fianco a fianco con i “colleghi” facilitano molto. O no? Non vi è mai capitato di veder passare prima di voi, che aspettate da ore nell’ambulatorio, il figlio dell’infermiere collega di quello in servizio?

In cambio, il “portavoce” ti passa qualche altra “voce” – non sul suo mecenate, ovviamente! – sul dirigente della compagnia rivale o dell’avversario politico del suo capo. Il giornalista si fa quattro conti, e se è una persona perbene che crede nel lavoro che fa, scambia il pesce piccolo per quello grosso. Se è un filibustiere, quello grosso per quello piccolo. Ma uno scambio avviene. Sperando che, alla fine, i conti tornino, la giustizia trionfi, e tutti abbiano la coscienza a posto. E come tornano i conti? Con la pluralità dell’informazione. Non è nemmeno un problema che nel giornalismo ci siano padroni. Ognuno di loro, infatti, ha i suoi “segugi”, e nella lotta di tutti contro tutti, se non tutta ma almeno metà della verità che c’è da raccontare viene a galla. Il problema è, invece, quando ci sono pochi padroni. Come in Italia.

La mercanzia dell’informazione è una cosa seria. Porro lo sa, e tentava di estorcere un’intervista. La Marcegaglia, che scema non è, non glie l’ha concessa: avrebbe dovuto rispondere a domande più imbarazzanti di quelli sul suo voltafaccia al premier. Avrebbe dovuto spiegare alcune cose inerenti al suo gruppo. Scema non è, e ha preferito il morbido velluto del Corriere. Porro c’è rimasto male, e le ha incusso un po’ di paura. Non trattava con una velina, per la quale basta un po’ di indifferenza per mandare in fumo una neonata carriera. Si parla di potenti gruppi industriali. E siccome Emma la vispa qualche buon motivo per temere ce l’ha, ha mosso i santi del paradiso Mediaset per vedere di far girare la sorte in modo diverso. Neppure lei ci fa una bella figura.

Questo è il giornalismo. Ci sono gruppi editoriali, e se a Feltri è toccato Berlusconi, a Concita De Gregorio Renato Soru, padron dell’Unità, di Tiscali ed ex presidente della regione Sardegna. C’è differenza tra i due editori? Sì, molta. Almeno fino a quando Soru non sarà presidente del consiglio. Poi, nessuna. E tra Sallusti che trita Fini e Padellaro de “Il Fatto” che sbrana Berlusconi c’è differenza? Sì: fino a quando i lettori del primo non diventeranno giustizialisti come quelli del secondo, e quelli del secondo non vorranno la testa dei nemici politici come quelli del primo.

Questa è l’Italia. Non ci sono più i servi di una volta. Siamo tutti – chi più, chi meno – un po’ mercenari. Ci sono interessi. Ci sono copie da vendere. E finché ce ne saranno, si è “liberi”. Quando non ce ne saranno, disoccupati.


Pubblicato il 12 ottobre su www.cataniapolitica.it

14 ottobre 2010

LA DESTRA ALLA PROVA COMUNITARIA






di Antonio G. Pesce- Con il tempo diminuisce la qualità delle soluzioni, non già la portata dei problemi. E la battaglia a cui abbiamo assistito negli ultimi cinque mesi, tutta interna al centrodestra, richiama alla mente i problemi mai risolti del liberalismo italiano. È ben comprensibile che alcuni puristi storcano il naso, perché il paragone è davvero impegnativo, ma anche nel 1925 i liberali dovettero fare i conti sul significato da dare alla loro esperienza; anche allora il liberalismo era ad un bivio nel nostro Paese, e se uno – quello mussoliniano nell’interpretazione di Giovanni Gentile – venne sconfitto in guerra, quello non ‘riformato’ non sopravvisse ai primi anni del dopoguerra, finendo per essere più una riserva di voti parlamentari che non di consensi elettorali, schiacciato tra i due maggiori partiti, che guarda caso erano partiti di massa: la Democrazia Cristiana e il Pci.

Segno chiaro che Mussolini e, meglio di lui, Gentile avevano visto assai bene: dopo l’unità e, soprattutto, dopo Caporetto e Vittorio Veneto, le masse avevano fatto il loro ingresso nella storia, ma restava loro precluso il potere. Non si era popolo prima, e quando lo si è divenuti, la sterile politica parlamentaristica – nel suo senso più meschinamente borghese – non poteva incarnare l’ideale per cui la ‹‹giovane Italia›› era morta negli anni della Grande Guerra.

Serviva dell’altro. Tra le centinai di pagine che si potrebbe citare, forse la più emblematica è quella che Gentile scrive in Genesi e struttura della società, opera postuma ma scritta e rivista prima che l’autore venisse barbaramente assassinato nel ’44. Vi leggiamo, tra l’altro, che ‹‹l’errore del vecchio liberalismo che torna sempre variamente camuffandosi a girare pel mondo come l’ultimo figurino della politica eterna, è l’errore stesso del sindacalismo: la concezione atomistica della società, intesa come l’accidentale coacervo e incontro di individui … Individui esterni l’uno all’altro, partecipi al bellum omnium contra omnes››.

Il liberalismo del dopoguerra non poteva continuare a considerare individui, coloro che stretti dalla bandiera nazionale e nel mutuo soccorso si erano scoperti italiani. Serviva un ideale comune, una reductio ad unum, creare un organismo in cui tutti si potessero rivedere, pur se in una certa difformità di interpretazioni. L’Italia – come la Germania – ha avuto una storia affatto differente da quella di Francia e Inghilterra, e dunque era logico che in modo differente si affrontassero le questioni.

Può sembrare inopportuno – questo è chiaro – scomodare un passato che, nel bene o nel male, non è stato così misero come il presente che ci troviamo a vivere. Ma si fraintenderebbe, se si credesse che si tirino fuori dalle biblioteche i vecchi tomi dell’illustre pensiero italiano solo per interpretare le mosse di Fini e Berlusconi. Il comportamento dei due è molto più facile da comprendere sotto la categoria dell’utilitarismo spicciolo, comune del resto anche alla sinistra, che senza provare una ‘riforma’ del pensiero di Marx, si è data in braccio al bieco nichilismo libertario della provincia borghese.

Non le scelte dei due caporioni dovrebbero indurre a riflettere ma le loro schiere. Contrariamente ai pochi nomi che monopolizzano lo scenario politico, e che non sono di grande qualità, i due schieramenti hanno al loro interno uomini che, per vita e formazione, avrebbero dovuto attestarsi su trincee diverse. Che con Berlusconi ci sia Antonio Martino, mente pensante del liberismo nostrano, o un Marcello Pera, che perfino nel suo ultimo Perchè dobbiamo dirci cristiani ha dato del liberalismo la classica interpretazione individualista, è abbastanza comprensibile. Ma che ci fa da quella parte un Gennaro Malgeri, protagonista della cultura nazionalpopolare degli Anni Novanta, o Marcello De Angelis, direttore del mensile della destra sociale Area? E con Fini, cresciuto in via della Scrofa sotto la guida di Almirante, che ci fa un Benedetto della Vedova, radicale pannelliano?

Berlusconi sarà pure diventato populista – nel suo senso dispregiativo, perché è difficile non ammirare l’opera del populismo russo ottocentesco ed Herzen – ma non c’è dubbio che quel ‹‹liberalismo di massa›› promesso all’inizio fosse davvero una giusta intuizione. Mancò il coraggio forse, o forse sono abbondate le colpe ‘pregresse’ all’impegno politico. Ma un destra come la vuole Fini non esiste neppure ora in Europa, e quella che scrivono dalle parti di FareFuturo non potrà mai esistere in Italia.

Quello che l’uomo di destra europeo ha sempre cercato è un rapporto con il vissuto di un popolo, ed è di un popolo che la destra europea ha bisogno per esistere. Né la libertà eslege dell’individuo né la ferrea autorità della classe, ma uomini che, nel mutuo scambio all’interno di una tradizione condivisa, diventano per-sone.

La destra finiana, con le sue troppo ampie maglie tra le quali inserire l’arbitrio di ciascuno, non ha futuro. Se ancora è lecito parlare di avvenire per i partiti, di certo non lo è per quello finiano, al di là del pur consistente seguito elettorale che potrebbe avere. Tuttavia, l’avventura del prof. Alessandro Campi, pensatore di corte, e di Filippo Rossi, rapsodo bohemien dalla barbetta incolta, ha il merito di rendere ormai evidente la giusta intuizione di Marcello Veneziani, quando anni fa si chiedeva se la prossima alternativa sarebbe stata quella tra comunitari e liberal (Laterza, 2006). Sì, Veneziani aveva ragione: non moriremo né di destra né di sinistra, ma dovendo scegliere se sacrificare un po’ di noi agli altri o un po’ degli altri a noi.

Fini e la sinistra post-sessantottarda hanno scelto. Serve qualcuno che sappia incarnare l’altra alternativa.


Pubblicato il 9 ottobre 2010 su www.cataniapolitica.it

12 ottobre 2010

IL RITORNO DEL DOTTOR MENGELE



di Antonio G. Pesce- L’altro giorno Robert Edwards, colui che ha sperimentato la fecondazione in vitro, è stato insignito del primo Nobel per la medicina. Ha ricevuto il massimo del riconoscimento che, da almeno mezzo secolo a questa parte, viene concesso come imprimatur al conformismo mondiale. Da lì – dall’Accademia di Svezia che gestisce il lascito del chimico Alfred Nobel – vengono diramati i dogmi della cultura dominante.

Nel mondo letterario, questi sconosciuti critici di Stoccolma hanno combinato disastri incalcolabili: basti pensare che hanno scelto come ‘ambasciatore’ della letteratura italiana contemporanea Dario Fò, quando erano candidati Anna Maria Ortese e Mario Luzi, quest’ultimo non ancora protagonista della ben nota polemica con Silvio Berlusconi (altrimenti di premi gliene avrebbero dati due, uno dei quali per la pace nel mondo).

Nel campo scientifico, l’ultimo abbaglio lo hanno preso nel 2008, quando diedero il Nobel per la fisica a due giapponesi, gli studi dei quali erano basati sulle scoperte di Nicola Gabibbo, italiano ma soprattutto cattolico – cosa che da quelle parti deve essere molto indigesta. Tuttavia, fuori da ogni polemica, questa volta ci hanno azzeccato: gli esperimenti di Edwards – quale che ne possa essere il giudizio morale – sono davvero epocali. Tanto epocali, da poter segnare una svolta totale nella storia umana.

Così, la chiesa del Nichilismo è stata in festa un paio di giorni: come quella Cattolica dopo Trento porta i suoi santi in processione, simbolo della santità che vive nella storia, quella Nichilista ha visto le bacheche dei social networks riempirsi di festoni inneggianti il nome del novello illuminato. E mentre li stavano per togliere, il tribunale di Firenze ha decretato il prolungamento dei festeggiamenti, sollevando dubbi di costituzionalità sulla legge 40, che pur introducendo la fecondazione in vitro nel nostro Ssn, non permette quella eterologa – cioè con spermatozoi od ovuli esterni alla coppia.

Per molti si è trattato di un passo avanti dell’umanità. Un passo verso cosa? Un progresso verso un’umanità più giusta, e c’è chi ha parlato della vittoria del bene sul male. Ora, mi è ben chiaro il rispetto che si deve all’altro, soprattutto in quel contenuto dell’esperienza umana che la sorregge nel cammino angoscioso verso la fine, ma in un lavoro scientifico – una di quelle cose che si scrivono perché le leggano due o tre paia di persone – ho già detto che un simile discorso è un discorso di fede e nient’altro che di fede. Non ho nulla contro la fede, quale che ne sia il tipo, ma vedere il bue dare del cornuto all’asino (e tacere) è un atto di bieco conformismo, a cui potrei sottomettermi solo se candidato al Nobel (non per l’autorità che conferisce il premio, ma per l’assegno che ti stacca).

Maritain chiamò ‘gnosticismo storico’ l’idea hegeliana che ci sia un corso determinato della storia, che tutto sia un continuo progresso (verso il meglio ovviamente). Nulla ci prova che le conquiste della scienza ci portino verso un futuro migliore, e anzi tutto fa presagire l’opposto, se l’aspetto etico della scienza – cioè il fatto che la tecnoscienza debba essere giudicata secondo il bene e il male che può arrecare all’umanità – viene considerato ormai un vecchio tabù – l’ultimo ancora persistente – che va abbattuto per far spazio alla libertà degli individui.

Non voglio tirare il ballo questioni giuridiche – credo abbastanza rilevanti – come l’idea che il legislatore (nell’ordinario attraverso le istituzioni, e nello straordinario attraverso l’istituto referendario) abbia diritto e dovere di sancire il limite di pratiche mediche dal carattere sociale, perché 1) poste in essere da denaro pubblico, 2) in luogo pubblico, 3) con dipendenti pubblici e 4) coinvolgenti la vita di soggetti non ancora capaci di tutelarsi da soli. Vorrei essere più radicale. Si tratta della più terribile forma di alienazione che il genere umano avrà da sperimentare nel futuro prossimo perché, statene certi, la sperimenteremo. Qui non ci viene sottratta l’opportunità di sviluppare tutto il nostro essere nel lavoro, dovendo invece lavorare in modo seriale. Né veniamo alienati dai mezzi di produzione, e cioè in fin dei conti dalla nostra possibilità di sostentamento, dovendo poi alienare il frutto della nostra fatica per sopravvivere.

Qui assistiamo all’alienazione dell’esperienza intima del nostro corpo. Sono certo che, infine, lo spirito umano – le capacità mentali, culturali, morali, ecc – saprà farsi ragione anche di questa mostruosa prigionia nel passato di una scelta troppo prossima, com’è quella della generazione precedente. Ma quali le conseguenze? Scoprire che il proprio corpo – se stessi – sia prodotto del potere di altri uomini, e non già di un destino cieco, che per tramite delle forze della natura si protrae nel tempo; scoprire di essere stati selezionati fra altri, in modo ancor più agghiacciante di quanto già non accada con la pratica abortiva (solo che, in quest’ultimo caso, non si ha da fare, poi, con l’essere scelto); scoprire, infine, che non si avrà neppure la possibilità, seppur remota, di venire a conoscenza di chi sia il genitore naturale, perché non c’è un genitore e non c’è stato nulla di naturale; scoprire tutto ciò davvero non cambierà il modo che un uomo attualmente ha di relazionarsi con se stesso (col proprio corpo), e il rapporto generazionale?

Sono dubbi. È bene lasciare ad altri le certezze nate sull’altare dello scientismo, nel nome del quale è stato sacrificato pure l’antidogmatismo della laicità. Ci sono ancora dinosauri tra noi: è bene concedere loro l’onore delle armi, accogliendo con benevolenza ,niente più, le loro paure.


Pubblicato su www.cataniapolitica.it il 7 ottobre 2010.

11 ottobre 2010

ROSY LA PAPESSA, L'ERETICO RINO E SILVIO L'IMPENITENTE



di Antonio G. Pesce- Appena il tempo di incassare la fiducia, e il presidente del Consiglio si è inguaiato nuovamente. A metterlo nei pasticci, più che le barzellette sugli ebrei e le bestemmie, la nuova dottrina politica, comune ormai a tutti i partiti, che vuole ridurre lo spazio tra eletti ed elettori. Almeno a parole, perché poi nei fatti il mondo è sempre andato in tutt’altro modo: basti pensare che chi legge queste parole le legge di suo, e non ha nessuno che gli faccia un sunto per quattro spiccioli al mese (perché poi, nonostante i rimborsi, il politico carrierista è pure taccagno).

È per questo che Berlusconi se ne va in giro a sproloquiare. Non lo fa apposta. È l’altra faccia della sua strategia comunicativa, il risvolto che si può intuire ma non comandare – perché ogni cosa, seppur studiata bene, ha sempre conseguenze che non si possono prevedere. Magari avrà fatto ridere quattro elicotteristi di stanza a L’Aquila, e serrato le sparute fila di ammiratori che lo attendevano sotto casa, ma ora si ritrova magistratura e preti contro. Non ha fatto un bell’acquisto.

Per giunta, non solo i finiani hanno colto l’occasione per marcare le distanze, ma Rosy Bindi – protagonista insieme a Domine Iddio di una delle barzellette – ha avuto l’ambone che voleva e, divenuta per un giorno dottore della Chiesa, ha insegnato la dottrina cattolica Urbi et Orbi. Scomunicando mons. Fisichella, reo di aver detto quello che tutti sanno, e cioè che ci sono parecchi modi per offendere Dio e la comunità credente, e se volessimo stimmatizzarle tutte, apriremmo continue contese in un Paese – l’Italia – che di gente incauta, maleducata e volgare abbonda.

Berlusconi ha tanti demeriti – uno, il più grande, è essere rimasto tre lustri sulla scena politica (due dei quali al governo), senza realizzare quelle tanto promesse riforme, che avrebbero dovuto portare la nostra nazione al pari delle altre grandi d’Europa. Non c’è stato alcun miracolo italiano, né rivoluzione meritocratica. Di liberalismo manco a parlarne. Però, è da quando gli sono arrivati i primi avvisi di garanzia, che Berlusconi ha una chiara opinione sulla magistratura. Ha ragione? torto? Si può anche averne sostenuto le battaglie, per poi accorgersi del loro significato e cambiare opinione. Legittimo. Ma lo scandalo no, nossignore! Non c’è alcuna sorpresa: il politico ha cambiato idea più volte, e la cambia continuamente; l’uomo e le sue fisime sono rimasti quelli di sempre.

E che qualcuno si senta offeso come credente, e trovi disgustoso il comportamento dietro le quinte, lo si può capire. Se poi ne è bersaglio, avrebbe diritto a formali scuse. L’insulsa – non ci sono altri modi per definirla – barzelletta berlusconiana contro la Bindi e l’annessa bestemmia finale, è stata pronunciata in luogo pubblico da persona che, per ruolo e visibilità, rappresenta il nostro Paese. Ma anche in questo caso i farisei tacciano. Berlusconi non è uno stinco di santo, ma nessuno ha mai mostrato grandi capacità esorcistiche. La stessa Bindi che – ripetiamolo – ha tutto il diritto di sentirsi offesa (come donna e, soprattutto, come persona), non può poi andare a pontificare in nome di una fede da lei stessa più volte piegata alle esigenze della politica. Pur con tutta la solidarietà che le si possa esprimere, pare un po’ troppo accettarne i ricordi del catechismo, o vederla più lealista del re e più papalina del Papa. Monsignor Fisichella ha soltanto ricordato una triste realtà, che è una gravissima accusa: bisogna contestualizzare. Ci scandalizzeremmo se uno scaricatore imprecasse in una bettola?


Pubblicato il 4 ottobre 2010 su www.cataniapolitica.it

8 ottobre 2010

LIBERTA' DI STAMPA E COSCIENZA MORALE


di Antonio G. Pesce- La querelle che vede contrapposti il free press Sud, diretto dall’ottimo Antonio Condorelli, e il presidente della regione Sicilia, Raffaele Lombardo, si sta arricchendo di nuovi episodi. Ormai, non è più questione di toni ma di denunce. La procura ha perfino ordinato una perquisizione nella redazione del giornale, e noi proprio ieri abbiamo pubblicato un comunicato del direttore.

Questo è solo un episodio – il più vicino alla terra sicula – di un tema che fino a non molti mesi fa ha opposto intellettuali, giornalisti, politici. La cosiddetta “legge bavaglio”, proposta dal governo Berlusconi per ‘regolare’ l’utilizzo delle intercettazioni, ha diviso l’opinione pubblica, la classe politica, e perfino quella della carta stampata, di solito molto compatta quando si tratta di difendere prerogative di casta.

Il rispetto del diritto alla riservatezza del cittadino è solo la spiegazione più banale di provvedimenti che hanno ben altre motivazioni. Non si vede cosa ci sia di così riservato nelle nostre conversazioni private che non possa venire divulgato. Ognuno ritorni alla memoria a quel che dice alla cornetta, e capirà da solo che divulgare i fatti nostri, sperando che aumentino le vendite di già anemici prodotti editoriali, è come credere che il confessore non abbia altro a cui pensare che ai nostri peccati.

È che ciascuno si crede l’ombelico del mondo. Non siamo così speciali. Tutti abbiamo gli stessi desideri, le stesse speranze, gli stessi scoramenti. Anche l’amante, in un’ Italia dal dubbio gusto come quella che viviamo, può diventare motivo di vanto più che di scandalo. Ciò che ci rende speciali agli occhi (indiscreti) altrui, è quello che gli altri possono vedere in noi: l’illusione della fama, la vanità della bellezza, l’influenza della decisione. Quest’ultimo caso è assai diverso dei due precedenti, perché si tratta di una relazione univoca. Mentre nei primi due c’è un mutuo scambio di convenienze, nel terzo no. La fama dell’attore si alimenta della mia stessa brama di identificazione, e questo è tanto risaputo da essere alimentato dal pettegolezzo organizzato: finire in prima pagina è nell’interesse anche del belloccio o della scostumata di turno, e le spiagge più appartate, le cenette più intime sono un set cinematografico nel quale si gioca al divismo.

In politica non è così. Socrate, nella ‘Repubblica’, invoca condizioni svantaggiose per chi vada al potere. In modo tale che, non avendo onori ma oneri, solo i più virtuosi si sacrificherebbero. Solo chi crede, ha ferrea fede che il proprio dovere vada compiuto. Al di là di tutto. Se, però, già allora i politici non scarseggiavano, vuol dire che proprio malaccia la vita in uno scanno non è.

Oltre, però, al personale, c’è il sociale che oggi viene bandito dalle pagine dei nostri giornali. Passi che non si voglia far sapere con chi si ceni, o quali numeri telefonici ricevano più attenzione di quelli mai riservati agli affetti del cuore. Ma oggi scompaiono dall’informazione intere fette di società, uomini e donne inghiottiti dall’oblio che genera una rabbia più grande del torto subito. Perché è un po’ come non esserci. È un po’ come non esistere. Un dolore non raccontato è un dolore mai provato, un dolore vano, un disagio insensato.

La realtà non è l’immediato che viviamo. Ci viene restituita dagli altri. È successo da bambini, quando il nostro piccolo mondo si dilatava grazie ai racconti dei nostri genitori, dei nostri nonni. Succede ancora oggi, ogni giorno, nella lettura di libri e giornali, nell’ascolto di notiziari e bollettini, nella discussione con amici, colleghi e conoscenti. Il giornalista, lo scrittore, l’intellettuale che deve ricostruire dai cocci la realtà per darcene un’immagine la più esaustiva possibile non si sta limitando al campo del puro intellettualismo: sta facendo politica. Provate a non pensare alle cose che avete imparato o saputo da altri, e scoprirete che il vostro mondo è davvero molto diverso e più piccolo.

Si capisce perché chi la politica la fa nel senso comune del termine, non abbia mai avuto molta simpatia per chi gli costruisce il mondo su cui dovrà provarsi, e alla fine essere giudicato. La libertà di stampa, però, non è codice giuridico ma coscienza morale. Perché è facile liberarsi dal peso esterno dell’autorità, molto meno da quello interno del convincimento: non capita di rado di vedere faziosità anche in chi fa professione di imparzialità.

Bisogna vigilare su se stessi innanzi tutto. Solo allora si avrà quel coraggio di fare quel che Orwell chiedeva alla stampa: dire alla gente – a tutta la gente – quello che non vuole sentirsi dire.


Pubblicato il 2 ottobre 2010 su www.cataniapolitica.it

5 ottobre 2010

PENSIERO LXIII

Solo smettendo di amare, l'uomo si consegna definitivamente alla morte.

4 ottobre 2010

VENGHINO SIGNORI, VENGHINO AL TEATRINO DELLA POLITICA


di Antonio G. Pesce- Quando nel ’92 nacque l’illusione che il nostro Paese stesse cambiando, ci venne detto che due cose non avremmo visto sugli schermi della nascente videocrazia: il ‹‹teatrino della politica›› e la coercizione della coscienza.

Mentivano. Fu tutto un imbroglio. Come già la prima repubblica fece contro tutto il fascismo, gli scavezzacollo che seguirono ai ladri patentati non avevano molto da dire, ma quel poco che avevano imparato, vendendo pentole, sapevano come dirlo. La visione manichea del mondo, che divide buoni e cattivi con semplicità scolastica, è un sottile stratagemma per farsi dare ragione anche quando si ha torto marcio.

Sta andando in onda – proprio in questo momento – la peggiore adulterazione della capacità veritativa del linguaggio umano. Mentre leggiamo queste parole, qualcuno ne sta pronunciando di altre. Non è teatrino quello di Montecitorio? E dov’è la libertà di coscienza, tanto pretesa davanti a dilemmi che mai la politica ha pensato di dirimere, se oggi la si perde per uno scanno più alto o, peggio, per continuare ad avercelo nei decenni avvenire?

Avventuristi sprovveduti quando c’è da affrontare questioni fin troppo urgenti per la vita della povera gente, finiscono per diventare accorte volpi quando si tratta di rimanere in sella, raccattando favori per poi farcene pagare il costo. Fossero stati così prudenti quando tagliavano risorse alla scuola, all’università, allo stato sociale! Avessero perso le loro notti per riformare un vecchio carrozzone statale che non si muove più e una società ormai stantia, piuttosto che vegliare al telefono alla ricerca dell’ultimo voto prostituito!

Berlusconi ha affermato che gli italiani non capirebbero una crisi di governo, e per questo porrà la fiducia su un testo – lo giudicheremo quando l’avremo letto – diviso in cinque punti. Frattanto che lo scriveva, a palazzo Grazioli sono passati decine di transfughi e fuoriusciti per vedere quanto “apprezzato” sarebbe stato il loro sostegno. I finiani, dal canto loro, si sono detti pronti a votare il documento di governo ancora prima di averlo sentito. È un proseguimento degli impegni già presi con gli italiani – rassicurano. A sinistra sentono l’aria cambiata, ma sarebbe imprudente cambiarla troppo: si rischia chissà che malanno a spalancare le finestre. Meglio farla stagionare un po’. Magari fino a marzo, quando tutti i mille perdigiorno che affollano uno dei luoghi più alti della nostra vita civile avranno maturato la pensione.

Non so quali italiani conoscano questa gente. C’è da credere che ce ne siano tanti in giro di gente come loro. Ed è anche vero che andare alle urne ora e con questo obbrobrio di legge elettorale significherebbe dare uno scossone alla nostra malferma economia. Però c’è una cosa che noi italiani non siamo mai stati, ed abbiamo ragione di esserne fieri: non siamo mai stati dei fighetti appesi alla sottana del buonsenso materno.

Questo vergognoso giuoco del cerino, che nessuno vuole spegnere per paura della conseguenze, umilia una nazione che ha tantissimi difetti, ma non quello di non sapere cosa sia il senso di responsabilità. Migliaia di italiani si alzano prima dell’alba per lavorare da sottopagati, con l’ansia del licenziamento, della fine del mese, del futuro dei figli. Migliaia di italiani non sapranno così sia una pensione, ben più magra di quella che in due anni e mezzo di legislatura un parlamentare matura. Però fanno in modo – ogni santo giorno – che l’Italia continui ad essere il sesto paese più industrializzato al mondo. Ogni santo giorno, col proprio sudore, fermano il corso della cancrena cronica che ci affligge da cinquant’anni a questa parte.

La smettano lì sopra di recitare a soggetto, con i soliti pennivendoli a dare un senso alle loro improvvisazioni: non sanno dove stiamo andando punto. Il che significa che stiamo andando allo sbando. Prodi finì pure così: stagnando in una immensa palude. E allora ci fu chi gli rimproverava proprio questo, di tenere a bagnomaria sessanta milioni di persone. Ora è lo stesso. Prendiamone atto: non c’è più una maggioranza, le riforme che aspettiamo da almeno vent’anni non sono arrivate prima, non potranno arrivare nei prossimi tre anni.

Regaliamo a questi signori la loro pensione. E riprendiamoci il futuro che è nostro.


Pubblicato il 29 settembre 2010 su www.cataniapolitica.it

PENSIERO LXII

La più grande sofferenza è la perdità della speranza.

3 ottobre 2010

PENSIERO LXI

Nessuno pensi di affrontare un solo momento importante della propria vita, senza aver l'ambascia di confrontarsi con altre migliaia contemporaneamente. La vita è il sistema della complessità della coscienza: problemi intellettuali e problemi morali sono tutt'uno. E servono spalle grandi per sopportarli.

1 ottobre 2010

SCUOLA: LA SECESSIONE DI PITTONI


di Antonio G. Pesce- È solo pregiudizio la rabbia che pare aver generato nei precari della scuola il disegno di legge, presentato al Senato, dal senatore leghista Pittoni? Perché non si dovrebbe accettare un reclutamento diverso da quello attuale? Perché sulla rete, nei fori telematici, sui giornali non si fa altro che parlare del disegno n. 997? Perché l’oggetto del documento è già tutto un dire:‹‹Nuove norme per il reclutamento regionale del personale docente››. Perché si sa: moglie e buoi dei paesi tuoi. Ma anche la scuola?

Prima di commentare, però, atteniamoci ai fatti. Leggiamo il testo.

Il ddl consta di venti pagine, metà delle quali dedicate alla relazione introduttiva. Di queste, le prime cinque sono dedicate al ripasso della materia vigente. Ma a p.6 leggi quel che non ti saresti mai aspettato da un leghista che fa parte di questa maggioranza: ‹‹Nel XXI secolo, con l’avvento della società della conoscenza … è stata ribadita l’importanza dell’istruzione e di conseguenza i sistemi educativi si trovano ora ad affrontare nuove sfide. I giovani devono essere in grado di far fronte e di adattarsi alle esigenze di un contesto economico e sociale in forte cambiamento. Se da una parte è necessario che essi apprendano materie specifiche essenziali, come le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione (TIC) e le lingue straniere, dall’altra devono poter conoscere e condividere valori umani quali la tolleranza e la solidarietà››.

L’illusione, però, non va oltre le due colonne e mezzo. Alla fine di p.7 Pittoni tira fuori una di quelle statistiche che manda in visibilio il popolo di Pontida: ‹‹Il Sud e le isole assorbono oltre il 48,93 per cento degli aspiranti inclusi nelle graduatorie permanenti e più del 63 per cento degli iscritti è nato nel Sud e nelle isole››. E poi aggiunge: ‹‹L’Italia risulta essere tra i pochi Paesi che adottano un meccanismo centralizzato, attraverso concorso, di selezione degli insegnanti››. Come a dire che i meridionali sono in credito.

Il nodo cruciale viene affrontato nelle ultime due paginette. In cosa consiste? Per evitare accuse di faziosità, rifacciamoci ancora al testo: ‹‹ Il presente disegno di legge istituisce distinti Albi regionali, ai quali possono accedere i docenti che hanno conseguito la laurea magistrale, il diploma accademico di secondo livello e l’abilitazione all’insegnamento, con il vincolo della residenza in uno dei comuni del territorio regionale, dove viene espletato il concorso››.

Il comitato regionale valuterà se il candidato ha i seguenti requisiti – e qui attenti perché Harvard ci fa un baffo: ‹‹a) le aspettative e gli obiettivi che i docenti si pongono, al fine di garantire il raggiungimento degli standard previsti e il possesso delle qualità personali e intellettuali adatte per diventare insegnanti; b) la conoscenza delle proprie responsabilità future all’interno del sistema d’istruzione e sui metodi da attuare riguardo i bisogni educativi speciali meno diffusi; c) la conoscenza di una vasta gamma di strategie per promuovere l’educazione alla cittadinanza, alla legalità, alla salute e il rispetto delle proprie radici culturali; d) l’influenza che il sistema valoriale può avere sull’apprendimento degli studenti, influenzando il loro sviluppo fisico, intellettuale, linguistico, culturale ed emotivo; e) la buona conoscenza delle tecnologie didattiche, sia nell’insegnamento della loro materia sia come supporto del ruolo professionale››.

Nessun errore: se vuoi fare il docente, devi conoscere le radici culturali della zona in cui viene bandito il concorso. Ma quali radici? Quelle giudaico-cristiani di cui parla la Lega di Pittoni tra un rito pagano e l’altro? Quelle nazionali, la cui capitale Pittoni conosce bene perché lo scanno di velluto è lì che ce l’ha? O quelle regionali? E in questo caso, chi sancirà cosa sia tradizionale e cosa no? E se all’interno di una regione sono presenti più “radici”, quali saranno quelle valide?

Un’ultima domanda: un sistema del genere si può ritenere ‹‹libero da condizionamenti››? Svolgere un esame sotto casa dovendo dimostrare di conoscere qualcosa di cui, messi insieme il bergamasco Calderoli e il friulano Pittoni neppure loro sanno decidersi cosa sia, può essere un concorso diverso dal sistemare parenti e amici, come del resto già avviene per l’assemblea regionale lombarda o per il parlamento di Strasburgo?

Il ddl Pittoni non passerà mai. E Pittoni lo sa. Non si è curato neppure di raccogliere qualche altro firmatario, oltre a una decina dei suoi compagni di partito. Non solo. Ma nella fine mente di Pittoni non è passata l’idea di dotare il suo testo di un’altra statistica: se bastino i soli autoctoni a coprire i posti già esistenti.

Il rischio che si tratti solo di propaganda è dunque forte. Venti paginette a stampa da mostrare al proprio elettorato. Un gioco piccolo piccolo col futuro di un’intera nazione che si diceva grande.


Pubblicato il 24 settembre 2010 su www.cataniapolitica.it