"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

18 ottobre 2010

L'ISTRUZIONE, IL FALLIMENTO NAZIONALE


di Antonio G. Pesce- Siamo un Paese conformista. Trattiamo i grandi temi della civiltà – quei temi che noi per primi abbiamo portato alla ribalta della Storia – come fossero moda da rotocalchi. Tra le vicende amorose della soubrette siliconata di turno e la collezione autunno-inverno dell’alta sartoria italiana (ottimo business, ma sartoria rimane e non arte), siamo tornati a parlare di istruzione e formazione, di scuola e università. Quando perfino il Corriere della Sera ne discute a più colonne, allora la cosa è fatta, e il tabù è caduto. Coraggio, fiato alle trombe!

Da alcuni mesi, a sinistra come a destra si dice che qualcosa bisogna fare. Fin qui, credo ci arriviamo tutti. Anche perché i dati parlano chiaro: siamo tra gli ultimi al mondo. Per fortuna, le ridicole statistiche Ocse non colgono nel segno, perché fatte con parametri quantitativi che non fotografano la gravità della situazione. Fotografano l’efficienza. E l’inefficienza è un male benigno, la decadenza no.

Fino a ieri credevamo di avere solo un problema occupazionale. Facile nascondere crepe ben più profonde: in fin dei conti, ci restavano a spasso quattro sfigati letterati e un paio di filosofi. “Caspita vogliono questi? – si diceva – la gloria della storia e gli agi del tempo?”. Ora ci accorgiamo che ci rimangono fuori anche gli ingegneri. Ovviamente. Il mondo del lavoro tecnico si sta altamente specializzando, ma noi cominciamo a scarseggiare di specialisti. Per specializzarsi ci vogliono soldi in infrastrutture, tecnologie, scambi culturali. Cioè, in poche parole, ci vuole ricerca, e nel campo delle scienze naturali e tecnologiche molto più che in quelle umanistico-filosofiche. Ed è proprio la ricerca che non facciamo più. Non è più attraente. Nessuno va a letto col morto. E se ci va è un necrofilo, non un ricercatore.

Mi diceva l’altro giorno una dirigente dell’università di Catania che suo figlio, ingegnere, era stato “invitato” a concorrere al concorso a dottorato nell’ateneo in cui si era laureato. Il ragazzo ha rifiutato. Ampio il rischio di non aver le stesse opportunità di formazione come nel privato, e comunque di non trovarsi che un paio di mosche in mano alla fine dei tre anni. Ma – aprite orecchie gente – il ragazzo, tra le varie offerte, non ha scelto le aziende italiane: si è impiegato in una multinazionale che lo ha mandato a destra e manca in Europa per stage, convegni, corsi. Lo licenziassero ora – ad appena quattro anni dall’assunzione – perderebbero frutto e capitale: quel giovane si porterebbe dietro esperienza, formazione, innovazione, ecc.

Non è attraente la ricerca statale e universitaria. Non lo è quella privata e aziendale. Crediamo, però, che il problema sia solo lavorativo? Il problema è anche civile. Oltre che disoccupati, stiamo condannando le future generazione all’infelicità. Per millenni, la cultura è stata civiltà, cioè un bagaglio umano di esperienze collaudate tramandate da padre in figlio con le quali affrontare la vita, personale e comunitaria. Non stupitevi dell’aumento esponenziale della violenza e della disperazione: ogni stato, a suo modo, esprime l’incapacità umana di comprendere la complessità della vita nella solitudine in cui l’individuo si trova oggi, senza più radici né esempi. Leggere del dolore di Saffo o di quello di Leopardi, comprendere le motivazioni di un evento, porsi i dilemmi etici e politici di un Platone o di un Aristotele è un’operazione “inutile” solo per i cretini, la cui stupidità troverebbe insignificante pure la zappa – perché il contadino non ara solo per mangiare, e per rimpinzarsi da solo la pancia, ma esprime un mondo simbolico che l’idiota ‘mediaticamente lobotizzato’ non potrà mai comprendere.

Chiunque abbia un po’ di intelligenza, sa che leggere il passato non è come leggere il numero di targa della propria automobile o il libretto di istruzioni dell’ultimo Ipod: nell’esperienza della lettura e della scoperta incontra altri uomini, altre gioie e altri dolori, successi e fallimenti. Si appropria, soprattutto, di un patrimonio simbolico che gli rende più duttile lo spirito, comprendendo che la complessità esistenziale non la si affronta con l’immaturità delle piccole passioni fugaci, ma con la caparbietà di un progetto.

Prima abbiamo scoperto il bullismo. Ora che una scuola possa diventare luogo di esposizione folcloristica del provincialismo vaccaro. Non stiamo perdendo solo posti di lavoro, ma anche le ragioni dello stare insieme. Si inizia così del resto: prima si cambia la bandiera, poi le recinzioni. Dalle bande verticali del tricolore al filo spinato della simbologia celtica.

Poniamoci una domanda e diamoci la risposta: perché i paesi di cui apprezziamo il senso civico e la prosperità economica sono anche quelli che più spendono in istruzione e ricerca? La risposta, però, non può essere che noi spendiamo male, perché fra spendere male e non spendere affatto c’è un’altra possibilità, che avremmo potuto sperimentare prima di ridurre al collasso istituti e atenei: spendere bene.

La riforma proposta dal ministro dell’Istruzione non potrà essere approvata che tra un mese, forse due. Forse. Di sicuro, qualora entrasse a regime, sarebbe l’ultimo colpo – perfino ben assestato – ad un organismo già cronicamente malato. L’approvazione, tuttavia, è slittata a copertura finanziaria da recuperarsi. Chi di taglio ferisce, di taglio perisce.


Pubblicato il 16 ottobre 2010 su www.cataniapolitica.it

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