"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

26 luglio 2010

BERLUSCONI, DON VERZE' E IL DIO MAGGIORE




di Antonio G. Pesce-
Gli dèi pagani ritornano. Ritornano in tanti modi, ma uno è particolarmente evidente: l’arbitrarietà del loro volere. Non che il loro volere sia insondabile come quello del Dio di Abramo, che chiede al patriarca di sacrificargli il figlio Isacco. Il loro volere non sembra avere una ragione diversa dal capriccio. Gli dèi al mite Ettore preferiscono l’iracondo Achille, primo esempio di una storia scritta dalla mano del vincitore.

Barbara Berlusconi è questo: il pargolo preferito dagli dèi di un Olimpo che, personalmente, non ho mai condiviso, e che oggi pare deludere molti. Perché fintanto che si fa parte della cordata giusta, non si contano le osanna ad una cricca di bambinoni non ancora cresciuti, che si diletta a muovere i fili della vita dei mortali dall’alto della loro boria. Quando, però, le scelte si abbattono sul nostro destino, non c’è sacrificio che tenga, e i vili di ieri, che leccavano il piatto dei potenti, eccoli additare la bilancia della giustizia sulla quale non hanno mai pesato il valore del proprio agire.

Alla giovane Berlusconi è successo di laurearsi alla triennale a 26 anni. E di laurearsi in filosofia. E di laurearsi in una delle più esclusive università del paese. E che alla sua laurea, oltre al presidente suo padre, presenziasse il fondatore della medesima università, don Verzè. E succede che tra i poteri grassi che ungono la vita sociale di questo paese usi regalare cattedre accademiche: Barbara, giovane e carina figlia di un aitante produttore di carriere parlamentari, si è vista donare una cattedra (o forse solo promessa), impacchettata tra i frizzi e i lazzi del cerimoniale pagano della tronfia potestà nostrana. Senza averne il merito e le competenze, notano i più. In fin dei conti, quello che suo padre fa con i seggi del parlamento e del governo.

È l’Italia che sperimentiamo ogni giorno, l’Italia dei figli di un dio maggiore, che ex-machina entra nella trama della vita per mutarne le sorti e darle un senso già deciso da altri e in altri luoghi. Però, sul rettore dell’università Vita e Salute, don Luigi Verzè, sono piovute le bestemmie dei soliti magnaccia del pensiero, di chi accetta la prostituzione intellettuale purché ne abbia l’esclusiva gestione. Dimentichi che la giustizia alla quale così facilmente ci si appella, è qualcosa di più che un passatempo per annoiati collezionisti di belle intenzioni.

Don Verzè è un sacerdote atipico, e per questo è sempre stato apprezzato dal laicume che oggi lo mette alla berlina, solo perché qualche tempo addietro mostrò scarsa considerazione per l’azione della divina Provvidenza, vedendo un di lei uomo nel nostro goliardico presidente del consiglio. Don Verzè, da buon italiano, ha capito come gira l’Italia e si è semplicemente adeguato. Si è sempre adeguato dottrinariamente, tant’è che non si contano le sue uscite imbarazzanti per il magistero della Chiesa. Sì adeguò anni addietro, quando fondò un’università “cattolica”, affidando al laicissimo Cacciari la scelta del corpo docente della facoltà di filosofia. Vi furono chiamati ad insegnare tutti i più nominati scrittori di cose filosofiche, i quali godono, oltre che di un buon stipendio, di un’ampia visibilità mediatica e di canali editoriali preferenziali. Una facoltà – la stessa in cui si è laureata la Berlusconi – che mette tutti insieme, laici e cattolici, purché abbiano presenza scenica sul grande palco. Forse si fa un torto ad alcuni, ma nel mucchio, se si spara, si prendono più colpevoli che innocenti.

Fra le pie vergini del divino ostello che si sono viste macchiate l’onorabilità c’è Roberta De Monticelli, che al San Raffaele insegna etica della persona o qualcosa del genere. In una intervista prima, e dopo in una lettera al Corriere, nel nome della libertà (non è che potesse mancare il richiamo alla libertà! essere liberi ormai è divenuta la peggiore delle schiavitù), la De Monticelli rimprovera qualcosa a don Verzè. Ma non si capisce cosa. La signora dice, lascia intuire, ma non spiega. Fa, insomma, quello che l’intellettuale italiano fa da più di mezzo secolo a questa parte: riempirsi la bocca per mettere a posto la coscienza. Sparare a salve in prima linea, e cannonate in retrovia.

Perché se è il potere e la lordura del privilegio che la docente addita, allora forse avrebbe dovuto fare molto di più assai prima, quando accettò quel posto che, nella lettera, dipinge come una ‹‹privilegiata avventura››. Perché, alla fine, se scappa perfino dalla penna, la verità non può non essere presente alla coscienza. In fondo, molto più in fondo di quello strato che si indigna per i (veri o presunti) ‹‹privilegi›› della rampolla di una baronia poco amata, c’è ancora – lo dicono quelle due paroline della lettera – un brano dell’intimo che sa che buona parte dei propri allievi sono i figli dello stesso ‘show business’ che mantiene lei, i suoi colleghi, la bella prestanza mediatica dell’università in cui insegna e le concessioni di casta che la irritano. Nessun giovane che non abbia alle spalle tanti fogli bancari con tanti zeri scritti sopra, può accedere alla conoscenza di quei fogli che la De Monticelli & Co. spiegano nella facoltà– si legge ancora nella lettera della docente – ‹‹più viva e nuova dell’Università italiana, all’interno di un Ateneo che anche per le altre Facoltà non ha bisogno di presentazioni››.

Nulla di nuovo, dunque, sotto il sole del San Raffaele. Quanto accaduto in quella seduta di laurea è solo più ‹‹eclatante›› di ciò che capita ad ogni inizio anno, nel momento delle immatricolazioni: alcuni possono – e possono i figli del dio maggiore. E siccome questa divinità è data da un comparativo di maggioranza, non stupisce che ne spunti una sempre superiore. Barbara ha avuto, in grado maggiore, quello che altri hanno in grado minore.

Poi, ci sono gli altri, quelli che non hanno più nulla, quelli per cui il dio non suda – quelli che si sono visti tagliati le borse per il diritto allo studio, gli assegni per la ricerca, i concorsi per la stabilizzazione. Da un governo forse non amico alla De Monticelli, ma in un’epoca e in uno spazio geografico attiguo a quelli in cui la signora si dilettava a fare la filosofa.



Pubblicato su www.cataniapolitica.it il 24 luglio 2010

L'ITALIA DEI POTERI SPORCHI




di Antonio G. Pesce- La storia della nuova P2 si complica, nonostante il presidente del consiglio l’abbia derubricata tra gli sfoghi di vecchiaia di quattro pensionati. I nonni s’incontrano ai giardinetti, vanno a messa, giocano a scopone scientifico. Ma non hanno soldi, tanti soldi in banca. Altrimenti sarebbero massoni, e farebbero come Flavio Carboni, signore quasi ottantenne dal tupè posticcio, che la sera non riposa sul salotto di casa, ma pensa a come risolvere i problemi di chi si rivolge a lui.

E una sera gliene sottopongono un paio che lui solo può risolvere, illuminato dal Grande Architetto, abile muratore che sa costruire strategie col rigore del compasso e pulire il tutto nel grembiule che ebbe dai fratelli della P2 di Licio Gelli. Solo che chi glieli sottopone non dovrebbe essere a cena con lui: non perché sia penalmente rilevante, ma perché è indecoroso politicamente. C’è ancora spazio all’indignazione politica che non precorra né attenda i tempi biblici della giustizia?

Tra gli amici di Carboni ci sono Marcello dell’Utri, Denis Verdini, Nicola Cosentino e Giacomo Caliendo. Cioè, rispettivamente, l’organizzatore di Forza Italia e stretto collaboratore del presidente Berlusconi, il coordinatore del Pdl, il sottosegretario all’economia e quello alla giustizia. Tutti pronti a dirsi perseguitati dal fango, quando è forse il fango a non avere pace. Il fango scorre – scorre a scuola come in ufficio, in parrocchia come in piazza. Al comune, in prefettura, in caserma, in redazione, e chi più ne ha più ne metta. Ed è anche vero che ci scorre più vicino di quanto non siamo disposti a credere a causa del nostro stupido perbenismo. Qualche spruzzata può capitare. Ogni tanto. Qui, invece, non ci si fa mancare occasione per farsene un bagno, convinti che sia salutare (tranne poi stracciarsi le vesti quando a qualcuno non pare proprio si tratti di fango di terme ma di melma fognaria).

Alle terme, i pensionati governativi trovavano massaggiatori di prima scelta, altro che la povera Francesca che mostrava i paradisi fisiatrici a Bertolaso. C’è Pasquale Lombardi, un tizio che da del tu a pezzi grossi, il costruttore Arcangelo Martino e il capo degli ispettori del ministero di Grazia e giustizia Arcibaldo Miller. Il maestro cerimoniere è Flavio Carboni appunto. Per capire chi sia Carboni, basta fare una breve ricerca in emeroteca o, più sbrigativamente, in rete, e si potrà tutti concordare che a cena con un tipo del genere pezzi del governo e del partito di maggioranza relativa non devono andarci punto.

Però alle terme, i quattro pensionati ci vanno eccome. Hanno un po’ di acciacchi da risolvere: intanto, fare pressioni sulla Corte costituzionale perché dichiari costituzionale il lodo Alfano; poi, perché del latte eolico della vacca sarda non vada perso nulla; perché, ancora, si possa trovare una pista per ammorbidire gli inquirenti sugli appalti del G8; infine, perché Caldoro, candidato Pdl in Campania al posto di Cosentino, indagato per collusione con la camorra, sia coperto da una palata di fango – quello vero, mica quello salutare delle terme massoniche.

Un po’ troppo movimento per dei vecchi rincretiniti. Che non sempre ottengono quel che vogliono, ma che di tanto in tanto ci arrivano: riescono a pilotare anche delle nomine di giudici, come quella a presidente della Corte d’Appello di Milano di Alfonso Marra. E intanto, mentre si leggono queste righe, escono altri nomi e si indaga su altre nomine. E su altri ‹‹eccellenti›› della politica italiana.

Che di fatto non esiste più. Perché è passata dalla piazza alla segreteria per finire in loggia, dove si magna non solo metaforicamente. È la vecchia, meschina Italia dei poteri sporchi (e occulti), contro la quale, da diverse sponde e per ragioni diverse, hanno combattuto fascisti, cattolici e comunisti. È il galoppo del ‹‹privato››, del borghese interesse (e tornaconto) proprio, dell’utilitarismo economicista, la cui ideologia è solo una copertura ideologica del barbaro saccheggio della comunità. Ladrocinio che si ammanta di pensieri e pensatori, ma che con liberalismo e il liberismo centra come i cavoli a merenda.

Addirittura, nella prosaica Seconda Repubblica, nella quale per ingurgitare il bene comune non servono più i cantici dell’antifascismo e dell’anticomunismo, gli illuminati fratelli hanno rinnegato i simboli del passato per dedicarsi soltanto al profitto. Niente più corazze ideali e problemi esistenziali, niente più tessere di appartenenza e divise di ordinanza. Denaro-Potere-Denaro: la nuova formula della decadente epoca che viviamo. Che non sa farsi storia, ma muore nell’attimo. E quando scompare l’uomo, scompare l’affare, e si perde, infine, la memoria. Ecco perché non c’è più politica: perché non c’è più voglia di fare storia. E perfino la biografia del singolo si perde nel caos delle carte di credito.

Pubblicato su www.cataniapolitica.it il 22 luglio 2010.

23 luglio 2010

STERCO DI MEDIOCRITA' (storia minima di provincialismo)



di Antonio G. Pesce- Signora rimbambita con annesso marito inconcludente. Siamo a Maganuco, incantevole spiaggetta della costa modicana. Qui si mangia bene, e si vive meglio. Viene da pensare che, se tutte le spiagge fossero tenute come questa, nessuno ci schioderebbe dalla nostra terra (e forse la Sicilia sarebbe conosciuta più per il suo mare che per altri accidenti).

La signora la pensa pure così, altrimenti perché caricarsi di marito, nipotina e varie suppellettili con i quasi quaranta gradi di un sabato di luglio? Eppure, la signora comincia sproloquiare. Preventivamente. Il due-a-briscola, e cioè l’insignificante marito, posteggia vicino ad un’altra auto. La signora teme qualcosa, forse che le graffino la sua Fiat Uno di fine secolo (scorso). Esce in silenzio. Poi si accorge della presenza di due garbati giovani, che identifica come autoctoni. E qui scatta la sindrome milanese, quella strana malattia che ti rende antipatico alla sola vista, insopportabile come il ronzio di una zanzare, cafone vero come l’immagine finta che al nord persiste del meridione.

La signora ultrasessantenne, che farebbe meglio a stringere in mano un rosario e a tener quiete le coronarie, comincia a borbottare ad alta voce – lo facessimo a Catania o a Ragusa, il nostro vicino (che sia un tantino garbato) si schiferebbe di salutarci il giorno dopo. Ma la signora mostra un marcato accento milanese: crede di potersi permettere qualsiasi deroga al galateo. E così che passa in rassegna i triti luoghi comuni della spocchia settentrionale, una sequela di idiozie (ormai politicamente corrette solo nella decadente Italia) che in altri stati civili basterebbe per metterti alla berlina. Primo, qui non capiamo niente. Secondo, qui siamo in Africa. Terzo, anzi: nel quarto mondo. Infine, qui siamo peggio degli arabi, anzi gli arabi sono più civili di noi (siciliani).

Anni da sguattera in qualche ristorante, o chi sa dove e come per guadagnare quei quattro spiccioli che permettano di pagare il soggiorno ad appena cinquanta euro di volo low cost da casa (e risparmiando su ombrellone e sdraio, andando a stenderti in una spiaggia libera tra tanti africani) senza poter profittare della vita intellettuale di una tra le più vivaci città del mondo; anni passati senza neppure sapere cosa si pensi lì dove è passata la vita civile e culturale del nostro paese, sempre in periferia, vicina ai rimpianti di una vita che, al di là delle Alpi, credi migliore; anni di bile vomitata su fantomatici nemici, considerato che con quelli veri sei costretta a chinar il capo e a mandar giù il rospo pur di arrivare a fine mese.

È la vittoria del provincialismo sul ruolo guida di cui la città ha sempre goduto. L’Italia repubblicana che credeva chiusa e arretrata quella fascista, solo perché mutava in lingua nazionale i cognomi dal vago sapore esotico, oggi soccombe sotto una coltre di grettezza, meschinità e maleducazione paesana. Al nord come al sud: è il territorio che vince, quel territorio che non è quello colto da uno sguardo lucido sull’orizzonte del mondo. Il territorio abitato da gente miope, che nel piccolo borgo in cui trascorre la propria vita anonima, tra capre, vacche e lupi, si inventa filosofo e politico, artista e liturgista, nel disperato tentativo di credersi qualcosa di più di ciò che è: sterco di mediocrità. Non più il contadino che viveva di civiltà, né il pastore che recitava versi in dialetto o perfino il sommo Poeta come neppure le pecore delle classi liceali sanno fare, ma branchi di buoi che seguono le mode del pettegolezzo, dimentichi della campagna che hanno lasciato e mai padroni della città che abitano. Sempre alla periferia della storia che conta, delle idee che formano, della vita che vale.

È lo specchio dell’Italia cafona che viviamo: potremmo citare casi altrettanto paradigmatici il cui protagonista è un Sud borioso, a cui è stato dato un camice da medico, un timbro da ingegnere, una toga da avvocato o da docente, e ha poi dimenticato i piedi che ha leccato per arrivare lì dove è arrivato.

La signora -per la cronaca- indica alla nipotina la villeggiante tedesca del giorno prima. La Padania che vuole entrare, da sola, nell’Europa che conta. La signora tedesca rimane, però, tutto il tempo di spalle, mostrandole il grosso ammasso di cellulite a forma di deretano. Non la guarda nemmeno, a stento risponde al saluto, e la nostra compatriota, che voleva essere considerata un po’ di più della gretta paesanotta che è, rimane a fissare il mare africano, dettando ordini ad un marito inconcludente e a una discola nipotina. Che neppure l’ascolta.

Pubblicato su www.cataniapolitica.it il 20 luglio 2010.

20 luglio 2010

TESTOSTERONE ITALICO BASSO



di Antonio G. Pesce– Fu l’anno scorso di questi tempi (grosso modo), che avemmo di che spettegolare. Non è che ci facessimo una gran bella figura, ma almeno le nostre televisioni non trasmettevano a lutto il loro palinsesto come oggi. In un anno, in un solo, brevissimo anno, in un paese come il nostro, nel quale per fare la più banale delle leggi ce ne vogliono due o tre, in un solo anno è finita la festa. Non siamo più il paese del mandolino, del buon vino e, soprattutto, dell’amore.

L’altro giorno ti vedo in tv il nostro presidente del consiglio. Il capello, a destra, un po’ rigonfio come se fosse un panettone natalizio – segno che Fini lo sta facendo bollire di brutto. E che la cura per l’accessorio non è più quella di una volta. Parla da qualche tribuna, farfuglia un paio di cose, parla anche di donne, ma che ti dice? Che lui non è più un playboy, un ‹‹ragazzino birichino›› in poche parole. Non è più quello che radunava a palazzo Grazioli una schiera di femmine come se fossimo da Gucci per i saldi, né lo stesso che dormiva un paio di ore a notte, riservandosi il resto per il gioioso spasso genitale. No! Lo ha detto lui: ora è un ‹‹playold››. Che, in soldoni, significa ‹‹vecchio dal testosterone basso›› (sfumatura in più, sfumatura in meno). Molto basso. Moscio. Come la ripresa italiana – che non c’è; come la rivoluzione liberale – che non si è mai mossa dal palo; come l’umore degli elettori del suo partito – stanchi di vedersi affibbiare intenzioni mai espresse col proprio voto, come quello di difendere a spada tratta una loggia di affaristi sanguisughe.

In Italia – ‹‹Povera patria! schiacciata dagli abusi del potere›› intonava il siculo cantore – l’unica cosa che tira è la brutta aria. Silvio sta cadendo. Lentamente come le candele che arrivano alla fine. Si è consumato lui e, quel che è peggio, ha consumato l’Italia intera. Lombardo non sta bene – ha continue ricadute. Basta uno spiffero, e si ritorna in convalescenza. Stancanelli non ne parliamo: da quando è rimasto zoppo di maggioranza, l’idioma catanese, nella torrida estate siciliana, ha sfornato l’ennesimo epiteto che non fa onore al signor senatore, ora per tutti ‹‹Sciancanelli››.

Intanto, la Rai ci trasmette il vigore di Iniesta, che con un goal ha portato la coppa del mondo in terra iberica. Ci fa vedere la Spagna che, nonostante crisi e disoccupazione, se la canta e se la spassa. Noi che ci rodiamo il fegato – noi che abbiamo sperimentato nel fallimento più assoluto il ‹‹ghe pensi mi›› di Lippi, la prestanza di Cannavaro, il fiato di Zambrotta, ci tocca vedere Iker Casillas che bacia in diretta quel bel tocco di figliuola della fidanza giornalista. Noi che non abbiamo, quest’anno, neppure Noemi né Patrizia di cui sparlare. Noi che vediamo trecento giornalisti del servizio pubblico seduti a commentare partite che non ci hanno fatto mai vedere. Pure le partite sono ormai centellinate. E quelle trasmesse sarebbero state pure mosce, se non ci fosse stata l’iperbolica dialettica del commento di Salvatore Bagni ad innervosirti come una mosca a pranzo o una zanzare a letto.

Perfino i ladri non sono più quelli di una volta. C’era un combriccola che voleva condizionare addirittura l’operato della Corte Costituzionale; che si spartiva centinaia di milioni di euro, mentre duemilioni e mezzo di italiani sono a spasso, galoppa la disoccupazione, e i più giovani lasciano l’Italia che muore di vecchiume ristagnante in poltrone. E per il presidente del consiglio sono quattro rimbambiti pensionati (loro!). Cioè, in poche parole, per essere ladro, ma di quelli che contano, in Italia devi essere almeno un ultrasettantenne, come Flavio Carboni.

Neppure l’opinione pubblica è più quella di una volta. Comprensibile che, in tempi di recessione, non si voglia lapidare nessuno lanciandogli monetine – anche perché, dato lo stile e il gusto dell’attuale marciume, è possibile che il malcapitato colga l’occasione per l’ultimo arraffo. Però che si rimanga a sventolarsi col ventaglio, facendo la siesta con la birretta accanto, sia anche nonno o solo papà che si gioca il futuro della propria discendenza, dimostra che la tensione morale, in Italia, è l’unica risorsa di cui non disponiamo più.

Che il testosterone sia basso in gente che, a detta dei loro patrimoni editoriali, soffre di prostata è fuor di dubbio. Ma rimane incomprensibile il silenzio di quel poco di gioventù che ancora rimane nella Penisola. Impossibile un altro Sessantotto, dato il livello medio della cultura italiana (e di conseguenza dell’intelligenza, perché un motore mai oleato finisce per gripparsi), e forse neppure auspicabile, perché quegli anni furono per noi come una visita dal medico: ci entri per una messa a punto e ne esci rifatto. Non sempre in meglio. Ma il vuoto della piazza (agorà) è il vuoto di un’anima che non sa più sognare una nazione migliore, un futuro migliore. Un posto migliore dove fare l’amore. E così rimaniamo, impotenti, a guardare gli spagnoli che tubano come piccioncini nonostante tutto.


Pubblicato su www.cataniapolitca.it il 16 luglio 2010.

15 luglio 2010

CATANIA "PARCHEGGIATA"


di Antonio G. Pesce - È la vecchiaia che fa male. Mica è il mondo ad essere marcio. Ecco perché – il lettore ci scuserà – noi abbiamo preso molto sul serio le sparatorie di qualche settimana fa. Perché sarà che, nonostante l’età media della redazione sia molto bassa, siamo stati colti tutti da senilità incipiente, i cui effetti sul sistema nervoso sono stati accentuati dal caldo estivo.

Stiate tranquilli: a Catania va tutto bene. Capita a tutti di andare a comprare il pane o di andare all’università, e rischiare di non tornare a casa perché bersaglio (tra l’altro errato) di qualche raffica di proiettili. Capita. E capita di dover scortare e farsi scortare per le vie deserte la sera, o di non trovare più l’auto sotto casa, o che ti aprano lo sportello mentre sei in marcia per rubarti la borsa o qualcosa dal cruscotto. Capita.

Qualche tempo prima delle elezioni che sancirono la maggioranza bulgara con la quale il centrodestra governa, il governo precedente (di centrosinistra) si difendeva dall’accusa di non far nulla per rendere le nostre città più sicure, minimizzando i dati e dicendo che era tutta colpa della percezione “mediatica” del fenomeno. Insomma: non è che fossimo più insicuri, ci sentivamo tali perché i mezzi di informazione enfatizzavano gli eventi. Manco un anno passò, che a ripeterci la tiritera fu il ministro Maroni, il cavaliere indomito della marca padana.

Va bene: è tutto sotto controllo. Del resto, al governo della nazione abbiamo Silvio Berlusconi e all’amministrazione della città Raffaele Stancanelli: che c’è da desiderare oltre ad un amaro? Ecco perché parleremo di altro, un po’ come trovare il pelo nell’uovo. Un pelo che costa un euro – un euro a fermata. Perché la domenica, quando da mattino a sera le strade rimangono deserte di personale qualificato (ognuno interpreti a proprio modo), fermarsi nelle zone limitrofe al centro o ai luoghi di ritrovo costa quanto un biglietto urbano di un bus (ma in questo caso ci sarebbe da aggiungere anche il cero da accendere al santo patrono per la grazia di vederne uno arrivare), e sicuramente più di un’ora di sosta a pagamento.

Un euro: prezzo fisso chiesto da personale volontario a scopo di lucro, che prende servizio alle sette e mezzo del mattino e smonta la sera, presumibilmente verso la mezzanotte. In realtà, quanto più gli aggrada. Un lavoro difficile, che solo alcuni (reclutati per concorso interno) possono fare. Un lavoro che prevede propensione peripatetica, borsello a tracolla o marsupio, e nei casi di più alto valore professionale cappello e pezzetto di carta comprovante pagamento. Un euro, come la tassa sul macinato o l’IRPEF attuale: non si sfugge. Si può provare una domenica d’estate, d’inverno, e poi essere più pignoli e appurare che accade in giorni feriali e festivi, e non si vedrà che questi zelanti guardamacchine usufruenti di spazio pubblico non reclamato dagli aventi diritto.

Ora, vecchi sì. Stupidi no. Basta fare quattro conti per capire che il giro d’affari è abbastanza succulento per far venire la bava ai più ingordi. E basta ancora far un giro per rendersi conto che il troppo, alla fine, storpia. Quello che, però, non è abbastanza chiaro, è il perché venga tollerato tutto questo. Tutto questo e in queste proporzioni. Qualcuno dice si tratti di un accomodo per chi non ha lavoro. Altri, addirittura, ne ringraziano la presenza: ‹‹Almeno non sono sola – ci si può sentire dire da una donna – quando esco dall’ufficio, dalla facoltà, ecc››. Sono solo ingenuità di chi deve far di necessità virtù. È la “necessità” che non si capisce perché continui a prosperare.

Se Catania è così sicura, tanto da non far scomodare l’illustre ministro degli Interni, allora non si comprende il perché di questo personale parastatale. Ad ogni buon modo, è l’assenza dello Stato che preoccupa. Almeno per chi non passeggia in via Etnea o in corso Italia.



Pubblicato su www.cataniapolitica.it il 13 luglio 2010.

13 luglio 2010

SCUOLA, IL FUTURO A PEZZI



di Antonio G. Pesce- I corridoi sono vuoti. Con la cappa di caldo che copre la città, non ci fossero le vacanze, i ragazzi avrebbero ammutinato in massa. Eppure, in questo cimitero di solitudine, da una tomba provengono le urla dell’ultima battaglia dell’anno per la salvezza e la perdizione di qualche anima. È per questo che, paradossalmente, l’aria appare meno spettrale che se il vuoto fosse senza suono. La bidella, comunque, sente il dovere di esprimerti – tu estraneo al girone – tutta la propria costernazione per quel trambusto. «Sa, ci sono scrutini» profferisce con molto garbo.

Siamo al nord. Qui la Lega è arrivata già da anni col suo manipolo di eroi celtici in giacca e cravatta (verde). Qualcuno – i più maligni – dice che ha fatto dei posti di poteri un bivacco per i propri uomini. Con annessa parentela varia. La sinistra, storico signore del feudo, ha visto rodersi l’immensa baronia, ed ha finito per montare vecchi ronzini con la lucidità del cavaliere spagnolo seicentesco. Nessuno, del resto, poteva resistere al dio Thor, venuto a salvare l’Eden padano dal demonio clandestino, ad esorcizzare gli spettri dell’insicurezza, a render giustizia al popolo ariano sfruttato dall’iniquo (e scialacquone) terrone.

Eppure, nulla è cambiato nel piccolo liceo della cittadina. «Anzi, è peggiorato. Ed era già difficile prima», ci dice l’uomo che aspettavo dopo che, paonazzo e madido di sudore, ha lasciato il limbo e mi ha portato in un bar vicino. Cerco di farlo calmare. «Lascia perdere – mi dice – ho trent’anni di carriera, e le mie coronarie ormai ci hanno fatto l’abitudine». Docente di lettere classiche, è noto per i suoi lavori scientifici e per l’autorevolezza della sua didattica. «Ora, tra i miei meriti pure l’essere autoctono».

«Sta andando anche peggio –aggiunge – La scuola è stata smantellata. Stampa diplomi che non hanno alcun valore. Manca l’oro della cultura a farne da garante. Chi assumerebbe un giovane che, oltre a non saper far di conto, non sa neppure parlare e scrivere correttamente nella propria lingua?». Gli faccio notare che è catastrofico. E che il cornetto alla crema è buono pure qui, nel profondo nord. Ma non mi segue.

«Sai di chi è il futuro? E di Xiao Bao. E di qualche indiano. È di chi è stato educato al sacrificio, e di quei popoli che sanno ancora dare un valore alle cose. Abbiamo voluto scuola e università vicini ai “problemi” dei ragazzi, alle loro “esigenze”, ed ecco che le abbiamo allontanate dalla vita. Perché amico mio, la vita è ben altra cosa. Non hai sempre la mamma a coccolarti. E la scuola è ormai la grande mamma di un popolo mammone come quello italiano».

Il cornetto era buono. L’ho fatto fuori in un battito di denti. Anche perché la pasta sfoglia era troppo leggera (unica pecca; beh, e anche la poca crema…): si scioglieva in bocca. Lui ne ha preso solo un piccolo pezzo dal suo, mentre il cappuccino è tutto ancora lì. Il cappuccino! con trenta e più gradi d’umido. Viene d’istinto – un riflesso – pensare alla granita sicula con brioche (mandorla e cioccolato, con doppio strato di panna, uno in fondo al bicchiere, l’altro a coprirlo).

Comunque, il prof. sei tu, e tocca a te fare delle scelte. Tocca a te scegliere se promuovere o bocciare … «Bocciare? Ah, faccio prima a vederli disoccupati per mancanza di credenziali, che a rafforzarli io un annetto. Perché questo solo potevi fare: bocciarli, e sperare che ritornassero sulle loro scelte di vita. Ora neppure questo. Ma così non si fa il loro bene, li si illude soltanto. Ed è ignobile». Solita tiritera dei docenti: volete fare i buoni, vi piace essere amati. E poi, con certe madri che vanno in giro per le aule, rischiate pure il collo. «No, non è così. La questione è ben altra. La scuola pubblica è al collasso. Non arrivano fondi neppure per le cose indispensabili. Il personale è stato ridotto al minimo, e di conseguenza gli studenti vengono ammassati in luoghi, che non sono solo poco igienici ma perfino insicuri. Alle famiglie importa poco. Credono, come dici tu che siano lamentela lobbistiche dei docenti, i quali, peraltro, non si vede come possano spiegare, interrogare e seguire dai ventisette ai trenta alunni per classe». E dunque, la qualità dell’insegnamento va a farsi benedire.

«Sì, ma per motivazioni ancora più sottili di queste. È un problema di numeri. E i numeri sono business. I presidi sono ormai dei manager. Devono fare cassa, anche perché una buona parte della gestione è affidata all’ “autonomia” della scuola (lo stipendio dei supplenti, i corsi di recupero, ecc). così, più iscritti significa più soldi. E come li fai gli iscritti? Non con la qualità, in un Paese immeritocratico come il nostro non serve a nulla. Li fai con promozioni facili, gite, attività collaterali come la danza, i giochi, le gare, il teatro, ecc. Ecco come un docente diventa un “animatore scolastico”».

E pensare che Francia, Inghilterra, Germania e Stati Uniti discutono, invece, propria della qualità dell’insegnamento. Ed Obama, come prima di lui Roosvelt nel dopo ’29, rilancia la formazione come volano dell’economia. Noi siamo fermi, come una bicicletta al palo. «Già – beve una sorso di cappuccino, ormai poco bollente, e vi inzuppa poi un altro pezzo di croissant – e la Lega se ne va in giro col suo populismo parolaio. Qui, fra poco, saremo scarsamente appetibili pure per gli immigrati del Congo. Siamo un Paese in decadenza. Dobbiamo solo ammetterlo».

So dove vuole andare a parare – almeno immagino. Mi offro da spalla: «Va bene – gli dico – vuol dire che finiremo tutti dai preti!». Lo provoco. Ma questa volta mi sorprende. «Non sarà così. Nonostante il ciellismo opportunista della Gelmini, che quando parla di educazione sembra un positivista d’annata, le scuole paritarie sono alla canna del gas anche loro. Anche a loro è stato tagliato tantissimo. Ovviamente, parlo delle scuole dei preti, di quelle scuole paritarie che, almeno in alcune zone e per alcuni gradi d’istruzione (pensa alle scuole elementari, lì dove non ce ne sono), suppliscono alle deficienze dello Stato. Di quelle scuole a 500, 600 euro a trimestre per intenderci. Non parlo di quelle con rette da diecimila euro all’anno, che usufruiscono comunque del bonus dato dalla regione [indovini il lettore quale! n.d.A.]. Semmai, sono queste il futuro che il governo vuole. Un futuro che dovremo pagare caro. Un futuro di società per azioni, laiche o cattoliche che siano». Del resto, il dio quattrino è sempre più immanente (e convincente) del Dio Trino.

Ormai, però, è più calmo. Sorride pure. Ha ripreso il colore naturale. Ma che gli è successo che lo ha fatto tanto arrabbiare? «E’ successo che i quattro diventano cinque, nei consigli di classe. E che i presidi pretendono che i cinque diventino sei. E i sette nove, per poi mettere in vetrina i loro centisti. Non solo, ma pur di non bocciare – che cattiva nomina che poi si fa l’istituto! – abbiamo promosso uno che si porterà il debito in italiano, latino, greco e matematica. E insufficienze in scienze e filosofia. Dimmi tu se non siamo al ridicolo!». Siamo in un altro mondo. Pian piano, ormai, siamo in un altro mondo da quello vissuto solo un decennio fa. E, quel che è peggio, è che lo troviamo migliore.

Paga il conto lui, perché mi vuole suo ospite. Poi, andiamo a scuola, perché ha da firmare delle carte. Intanto, hanno già affisso i voti delle classi scrutinate. I ragazzi ballano felici. Cantano che tutto è in equilibrio sopra la follia… «L’equilibrio l’abbiamo già perso» mi dice, e si avvia per le scale.



Pubblicato su www.cataniapolitica.it il 10 luglio 2010.

11 luglio 2010

PENSIERO LX

Berlusconi ha fatto la politica italiana degli ultimi vent'anni. Speriamo si sia dimenticato di fare i coperchi.

10 luglio 2010

LA MAFIA E' POSTMODERNA. MA IL NORD NON LO SA



di Antonio G. Pesce- Bortolussi, presidente della Cgia di Mestre, doveva essere il panzer col quale il centrosinistra avrebbe dovuto conquistare il Veneto alle scorse elezioni regionali. «L’allegra macchina da guerra» di occhettiana memoria, divenuta una riserva per indiani che non riescono a fare lo scalpo nemmeno a chi se l’è dovuto far trapiantare per vezzo di incipiente mala vecchiaia, si era affidata alle solide idee del terziario nodista. Partita IVA, idee non-di-sinistra, soprattutto accentuata inflessione veneta: l’ottimo candidato sfornato dal territorio insomma, nell’era in cui il localismo, per anni rimproverato al sud d’Italia col sinonimo di provincialismo, è diventato chic grazie alle citazioni dotte di menti raffinate dell’Oxford padana (Bossi, Calderoli & Co).

Nella puntata di Omnibus (La7) del primo luglio, abbiamo capito perché a filarselo, come presidente della regione Veneto, è stato appena il 30% dell’elettorato. Lui – uno delle partite IVA del nordest, che perde contro il ministro delle politiche agricole. Ma a sentirlo parlare bene, non è che la cosa sorprenda: Zaia, il leghista sempre abbottonato che si sbottona solo per ordinanza (del partito), non poteva che essere preferito in una delle zone più produttive del Made in Italy. Se uno ha da scegliere, infatti, a parità di prezzo preferisce l’originale. Mica il cinese!

In trasmissione si discuteva di politica, economia e mafia. Vasco Errani, presidente dell’Emilia Romagna e della conferenza delle regioni, uomo tra i più lucidi del Pd (ma non è che siano rimasti in molti), con sincerità ammette che il problema della malavita organizzata è un problema nazionale, e che anche nella sua regione è presente. Diceva anche dell’altro, e proponeva alcune soluzioni. Buonsenso attraverso il quale un uomo si qualifica come persona di buonsenso. Nessuna rivoluzione, o forse l’unica che ancora ci rimanga da provare in un Paese come il nostro che pare esserne ormai sprovvisto.

Però a Bortolussi non è piaciuto. Al nord, per definizione, non c’è mafia. Al nord, per eredità del nonno, non ci sono problemi. Se i problemi ci sono – quando non è possibile negarli in pieno Berlusconi’s style – non sono di origine autoctona. Sono allogeni, nel caso particolare di provenienza terronica. S’è pure arrabbiato: «E’ stata importata» ha sbraitato l’apparente garbato signore col piglio dei mercanti delle fiere rionali.

È dai tempi della rottura tra Bossi e Berlusconi, all’indomani del primo governo, che la sinistra flirta con le camice verdi. Scolorite quelle garibaldine, e non più ristampato il Manuale di Mao Zedong, ci si è limitati a fotocopiare l’alta produzione scientifica altrui, un copia-incolla degno di un maitre-a-penser tipicamente di sinistra come Galimberti. Fare dunque della facile ironia sul marxismo austro-veneto sarebbe indegno come continuare a sparare su Marcello Lippi e i suoi trottolini azzurri. Ma, forse, una domanda all’esperto Bortolussi (e al genio che lo volle candidato per il centrosinistra) la si potrebbe fare, non fosse per altro che per mettere in moto più cervelli possibili. Dato che i migliori li esportiamo, cerchiamo di rendere più freschi quelli che rimangono, invitandoli ad una riflessione seria sul dato: 120 miliardi di euro è il fatturato di Mafia S.p.a. Cioè quasi il 20 % del PIL nazionale.

Chiacchierare (quando va bene) e sproloquiare (come usa ora) non ha mai fatto difetto alla classe politica italiana. Ma chi non deve parare il proprio operato, né ha le mani in pasta perché qualcuno gli faccia domande ancora più imbarazzanti, non può non notare che quel dato deve cambiare parecchio il nostro modo di intendere la mafia. Perché il controllo del territorio lo si può fare con coppola e lupare. Gestire ingenti somme è già opera di esperti. Essere la prima azienda nazionale significa avere, invece, una rete di scambio, di intelligenze e di rapporti, che va ben oltre le letture sciasciane di Bortolussi e delle sue verdi partite IVA. Nessun patto d’onore che non quello del denaro; nessun omicidio che non quello sociale ed economico; nessun furto che non sia una gara d’appalto vinta (e magari in assoluta legalità, perché qualcuno di loro avrà pensato a monte di bandirla nel mondo giusto, secondo le leggi giuste, ecc.). La droga? Non è più questione di spaccio negli anfratti più bui della città, ma appare come aperitivo prima dell’inizio del festino. La prostituzione? L’organizzazione del festino appunto!

La Mafia è diventata post-moderna: non c’è niente oltre quello che c’è. Essa è nel suo darsi. Che, tradotto per Bortolussi e gli altri, significa che non c’è più la Mafia, ma i mafiosi; non più rito (collettivo) ma comportamento (personale). La mafia, se produce quel che le viene attribuito, da anni sarebbe un problema nazionale. Forse da qualche decennio. È che in Italia ci arriviamo troppo tardi. È perché il cuore civile di questa nazione che obiettivamente per un secolo ha pulsato al nord, ora ha smesso di battere. Al nord come al sud, il bieco provincialismo della classe dirigente (politica, culturale, economica, ecc.) ha messo sotto naftalina quel poco di coraggio che, in determinate stagioni della nostra storia patria (pensiamo al ’92-’93), abbiamo mostrato per tentare di cambiare qualcosa.

E possiamo ancora fare tanto, ma dobbiamo avere il coraggio di ammettere, senza offendere nessuno ma neppure restando coperti dall’ipocrisia di un democraticismo vuoto e conformista, che produrre (e vendere) cicoria non è come pensare (e agire) idee.


Pubblicato su www.cataniapolitica.it il 5 luglio 2010.

5 luglio 2010

LA VECCHIA CATANIA RITORNA (?)



di Antonio G. Pesce- Compostezza nel commentare questo rigurgito della vecchia Catania, questa melma che ritorna a galla. Lo vuole la serietà della testata, il rispetto per il lavoro del direttore e dei colleghi. Ma soprattutto il riguardo per Laura, la studentessa il cui unico errore è quello di non frequentare uno degli atenei per signorotti, che presto o tardi saranno gli unici enti culturali di questo schifo che è la seconda repubblica. Nella quale il marcio attuale ricicla il peggio di quello di ieri.

La si deve – la compostezza – anche ai ventimila lettori di Catania Politica, che non hanno bisogno di uno che scriva improperi contro il nulla che inghiotte Catania – per questo, c’è il bar e le nostre vie (ammesso che non ci vengano ad ammazzare pure lì). I nostri lettori vogliono fatti, non sentimentalismo, che è poi così facile da sfornare. Quando perfino chi dovrebbe comandare si limita a rammaricarsi, allora è bene essere cinici ed andare diritti al sodo. Ci scusi Laura se non parliamo di lei: riceverà solidarietà da tutta la Catania che conta, ma le consigliamo di tenersi cari gli auguri di quella che non conta, e che insieme a lei dovrà sorbirsi per un paio di settimane pure il fritto misto di corbellerie e amenità.

I fatti, dicevamo. I fatti dicono che la zona in cui è avvenuta la sparatoria, che voleva togliere di mezzo un tizio, e stava per ammazzare una innocente, è una delle zone più affollate di Catania: tre università tra le più frequentate, due scuole superiori, tre presidi ospedalieri. Ogni giorno, ci stanno dentro come in un girone dantesco migliaia di persone, cercano posteggio centinai e centinai di veicoli, si svolgono decine di iniziative. Ma – nell’ordine – è la zona meno servita dai mezzi pubblici, la più ingolfata e, soprattutto, la meno controllata. Lo Stato lì – a piazza Dante e dintorni – si materializza con la divisa di un ausiliario del traffico. Dopo le sei, in inverno, c’è il coprifuoco, manco fossimo sotto i bombardamenti alleati: i colleghi scortano le colleghe, si cerca di fare squadra, e si va avanti.

Una parte dei fatti è questa. L’altra è molto più lunga. E più dolorosa. Dice grosso modo che Catania è ritornata al passato. Che in appena dieci anni, tra buste della spesa, mance pre-elettorali, appalti truccati, casse vuote, fughe in senato, giunte amministrative mobili più del Mongibello, ci si è mangiato quel poco che pure era stato fatto in anni belli di serena e fruttuosa ‹‹co-abitazione››. Inutile essere più espliciti, ma dato che il gesto che ci ha svegliati lo è stato come solo il dolore innocente e il sangue incolpevole possono esserlo, allora è bene dire pane al pane e vino al vino: dopo gli anni in cui Bianco era al comune e Musumeci alla provincia s’è vista solo una lenta ma continua agonia del tessuto sociale e culturale della nostra città. Avrei mille cose da rimproverare ai due, ma non è merito loro né colpa mia se chi li ha seguiti ha fatto di tutto per farli apparire uomini politici di ben altro lignaggio.

Capisco che c’è stato il crollo delle Torri Gemelle, la guerra in Afghanistan e Iraq, il crollo delle borse mondiali, eccetera. Ma fare politica – a tutti i livelli – è prevedere il possibile e tenere botta davanti all’impossibile. Missione difficile? Certo, anzi difficilissima. E infatti nessuna epoca ha conosciuto tanta voglia di consigliare la città, di amministrare i propri concittadini come la nostra. Forse perché, quando poi succedono certi fatti – disgrazie per i singoli, che potevano non trovarsi lì, ma abbastanza prevedibili nel computo delle vicende sociali – ci si limita a spendere un poco di carta e infarcirla di un altrettanta infima retorica.

Catania ha ancora speranze. Tante speranze. Basta volerle. Basta capire che non ci si limita a vendere agli incompetenti, che raccattano voti, la propria dignità di cittadino e il futuro lavorativo dei propri figli, ma addirittura la vita. Basta capire questo. In un voto dato per amicizia o, peggio, per palese connivenza, si sacrifica il bene che più dovrebbe starci a cuore: l’incolumità dei nostri cari.

Catania si sveglierà, siamo certi. Ma la Catania che deve svegliarsi non è un’entità autonoma: è la somma dei cuori, delle menti, dell’integrità morale degli ‹‹uomini onesti›› che la compongono. Che non accettano cariche – diceva un noto signore che ancora, nonostante i duemilacinquecento anni di distanza, bazzica dalle parti di piazza Dante – né per ‹‹denaro né per gli onori››, ma se condannati da una pena. ‹‹Ma la pena più grave, nel caso non si voglia governare di persona, sta nell’essere governati da chi è moralmente inferiore; questo è il timore che a mio parere spinge gli uomini onesti a governare, quando lo fanno. In tal caso assumono il potere non come se fosse qualcosa di buono in cui possono deliziarsi di piacere, ma come se andassero verso qualcosa di necessario, poiché non possono affidarlo a persone migliori o uguali a loro››.

Catania deve tirarsi su. Anche se non doveva cadere. Perché cadendo, si è portata dietro in tanti. Anche la nostra cara Laura, che speriamo si rialzi presto.

Pubblicato su www.cataniapolitica.it il 1 luglio 2010.

4 luglio 2010

ELOGIO DI PIETRO TARICONE



di Antonio G. Pesce- Quando ho saputo del suo incidente – che qualcosa, durante un lancio col paracadute, era andata storta – ho pregato perché l’epilogo non fosse quello che, infine, è stato. Tra i tanti motivi, non solo quelli umani, il fatto che siamo su questa terra e condividiamo la ricerca della felicità, il timore del dolore e la possibilità della morte. Motivi anche meno nobili, come quello di evitare di fare zapping per non sentire commenti di vecchie glorie, di avvizzite meteore, di improvvisati massmediologi.

Come tutte le persone frustrate, guardavo la televisione ma invidiavo chi la faceva. E allora, quando io ero un promettente studente sulla via della disoccupazione, e lui il dongiovanni più seguito della nazione, sprecai una serie di luoghi comuni pur di denigrarlo. Un po’ come i vecchi che lo guardavano di nascosto, ma poi a tavola facevano i loro sermoni contro la gioventù senza ritegno (e pensare che lui ne ebbe molta, se consideriamo gli esempi seguenti). Proprio non mi andava giù che un parvenu, un homo novus, uno della strada insomma, avesse fatto tanto successo, solo perché aveva lo sguardo da fico (che io non ho), gli addominali non ‹‹appannati›› (io ho la nebbia davanti allo stomaco), e un’opportunità che non a molti è data, in televisione e altrove.

Ho cambiato idea da anni. Da quando, al Telegatto di un decennio fa, la platea li fischiò, e fischiò lui innanzi tutto, che seppur con scarse argomentazioni, seppe tener testa ai detrattori. L’Italia dei lecchini non nasce ora, non si è fatta con l’era berlusconiana: l’Italia che non si ‹‹desta››, neppure per rispetto della propria dignità, c’è sempre stata. E vedere uno che ha il coraggio di prendere il toro per le corna, in quella grande arena di conformismo che sono i programmi televisivi italiani, già dovrebbe indurre a pensare che il tizio ha del carattere. Gli mancherà la cultura, forse anche il blasone mediatico, ma c’è sempre tempo per farseli. È sempre tardi, invece, per avere rispetto di se stessi, e non asservirsi come ‹‹pecore matte››.

Poi, col successo, era arrivato anche il silenzio. Il giovane, dopo un po’ di tempo in cui era logico si godesse la notorietà, si era messo in disparte. E in un mondo in cui lo spettacolo è dato dall’improvvisazione, si era messo a studiare recitazione. Non voleva essere una marionetta, diceva. Quanto coraggio nel lasciare il certo (fuggevole) per l’incerto (che se non è più duraturo certamente è più meritato). Non aveva voluto cavalcare l’onda che lo aveva messo così in alto: voleva domarla. C’era riuscito. E quando Antonello Piroso lo volle nel suo NienteDiPersonale, il giovane palestrato stese a colpi di ironia titolate mummie dell’establishment politico e televisivo. Dicendo solo ed esclusivamente quello che altri, per connivenza, non dicono. Facendosi portavoce di quello che si sente nei bar, dove il buonsenso, non ancora divenuto politicamente corretto, si pone domande e pretende risposte.

Non ce l’ha fatta, però. È morto. Ed io, stanco di vedere i pezzi confezionati tutti nello stesso modo, mi sono messo a fare zapping. E poi gribbio! Un Paese come il nostro, con tutti i suoi problemi, con tutte le riforme che ci sono da fare! (Non fà così l’attuale tiritera? Il famoso ‹‹benaltrismo››). Ci sono cose più importanti! Giro canale, e trovo Mariastella Gelmini, esempio tipicamente italiota di come si faccia di tutto per non meritare la manna che è piovuta dal cielo. Pulitina, compunta, sempre col broncio, sproloquia su sentenze che non ha mai seguito, non foss’altro perché, se avesse avuto tutta questa voglia di leggersi migliaia di pagine, avrebbe potuto leggersi le centinaia che le hanno fatto firmare. Vado allora avanti. Altro canale. Il signore condannato. Almeno, questa volta non si offrono cannoli. Ma la sparata è dello stesso calibro, forse anche più grossa. C’è una generazione di siciliani battezzati alla vita civile dal sangue di Falcone e Borsellino. Chi è rimasto nel limbo dell’incoscienza, considera miti Valentino Rossi, Vasco Rossi, Paolo Rossi. Ma nessuno, nei bar dove il buonsenso è parecchio politicamente scorretto, direbbe che suo eroe è un mafioso. Proprio non si può, perché è cambiato il mondo – il nostro “mondo”, il mondo che vivevamo prima di quel ’92. Io ricordo la sera, quando seppi di Capaci. Ricordo quando seppi di via D’Amelio. E dei Parioli, dei Georgofili, di Milano.

Cambio ancora canale. Ritorno indietro. E mi piace rivedere il giovane considerato incolto solo perché diceva cose troppo semplici – come semplice è la verità. Il giovane che sapeva essere pure autoironico, segno di intelligenza antica davanti ad una modernità che si è fatta boria. Mi piace rivedere un sorriso, soprattutto un sorriso, di un mascalzone latino che sapeva prendersi poco sul serio, pur essendolo più di tante lapidi del grande cimitero televisivo.

Piero Taricone è morto. Una delle poche novità nel panorama nostrano. Per il resto, è sempre la solita solfa: ministri incompetenti, deputati collusi, ecc.


Pubblicato su www.cataniapolitica.it il primo luglio 2010.