"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

10 luglio 2010

LA MAFIA E' POSTMODERNA. MA IL NORD NON LO SA



di Antonio G. Pesce- Bortolussi, presidente della Cgia di Mestre, doveva essere il panzer col quale il centrosinistra avrebbe dovuto conquistare il Veneto alle scorse elezioni regionali. «L’allegra macchina da guerra» di occhettiana memoria, divenuta una riserva per indiani che non riescono a fare lo scalpo nemmeno a chi se l’è dovuto far trapiantare per vezzo di incipiente mala vecchiaia, si era affidata alle solide idee del terziario nodista. Partita IVA, idee non-di-sinistra, soprattutto accentuata inflessione veneta: l’ottimo candidato sfornato dal territorio insomma, nell’era in cui il localismo, per anni rimproverato al sud d’Italia col sinonimo di provincialismo, è diventato chic grazie alle citazioni dotte di menti raffinate dell’Oxford padana (Bossi, Calderoli & Co).

Nella puntata di Omnibus (La7) del primo luglio, abbiamo capito perché a filarselo, come presidente della regione Veneto, è stato appena il 30% dell’elettorato. Lui – uno delle partite IVA del nordest, che perde contro il ministro delle politiche agricole. Ma a sentirlo parlare bene, non è che la cosa sorprenda: Zaia, il leghista sempre abbottonato che si sbottona solo per ordinanza (del partito), non poteva che essere preferito in una delle zone più produttive del Made in Italy. Se uno ha da scegliere, infatti, a parità di prezzo preferisce l’originale. Mica il cinese!

In trasmissione si discuteva di politica, economia e mafia. Vasco Errani, presidente dell’Emilia Romagna e della conferenza delle regioni, uomo tra i più lucidi del Pd (ma non è che siano rimasti in molti), con sincerità ammette che il problema della malavita organizzata è un problema nazionale, e che anche nella sua regione è presente. Diceva anche dell’altro, e proponeva alcune soluzioni. Buonsenso attraverso il quale un uomo si qualifica come persona di buonsenso. Nessuna rivoluzione, o forse l’unica che ancora ci rimanga da provare in un Paese come il nostro che pare esserne ormai sprovvisto.

Però a Bortolussi non è piaciuto. Al nord, per definizione, non c’è mafia. Al nord, per eredità del nonno, non ci sono problemi. Se i problemi ci sono – quando non è possibile negarli in pieno Berlusconi’s style – non sono di origine autoctona. Sono allogeni, nel caso particolare di provenienza terronica. S’è pure arrabbiato: «E’ stata importata» ha sbraitato l’apparente garbato signore col piglio dei mercanti delle fiere rionali.

È dai tempi della rottura tra Bossi e Berlusconi, all’indomani del primo governo, che la sinistra flirta con le camice verdi. Scolorite quelle garibaldine, e non più ristampato il Manuale di Mao Zedong, ci si è limitati a fotocopiare l’alta produzione scientifica altrui, un copia-incolla degno di un maitre-a-penser tipicamente di sinistra come Galimberti. Fare dunque della facile ironia sul marxismo austro-veneto sarebbe indegno come continuare a sparare su Marcello Lippi e i suoi trottolini azzurri. Ma, forse, una domanda all’esperto Bortolussi (e al genio che lo volle candidato per il centrosinistra) la si potrebbe fare, non fosse per altro che per mettere in moto più cervelli possibili. Dato che i migliori li esportiamo, cerchiamo di rendere più freschi quelli che rimangono, invitandoli ad una riflessione seria sul dato: 120 miliardi di euro è il fatturato di Mafia S.p.a. Cioè quasi il 20 % del PIL nazionale.

Chiacchierare (quando va bene) e sproloquiare (come usa ora) non ha mai fatto difetto alla classe politica italiana. Ma chi non deve parare il proprio operato, né ha le mani in pasta perché qualcuno gli faccia domande ancora più imbarazzanti, non può non notare che quel dato deve cambiare parecchio il nostro modo di intendere la mafia. Perché il controllo del territorio lo si può fare con coppola e lupare. Gestire ingenti somme è già opera di esperti. Essere la prima azienda nazionale significa avere, invece, una rete di scambio, di intelligenze e di rapporti, che va ben oltre le letture sciasciane di Bortolussi e delle sue verdi partite IVA. Nessun patto d’onore che non quello del denaro; nessun omicidio che non quello sociale ed economico; nessun furto che non sia una gara d’appalto vinta (e magari in assoluta legalità, perché qualcuno di loro avrà pensato a monte di bandirla nel mondo giusto, secondo le leggi giuste, ecc.). La droga? Non è più questione di spaccio negli anfratti più bui della città, ma appare come aperitivo prima dell’inizio del festino. La prostituzione? L’organizzazione del festino appunto!

La Mafia è diventata post-moderna: non c’è niente oltre quello che c’è. Essa è nel suo darsi. Che, tradotto per Bortolussi e gli altri, significa che non c’è più la Mafia, ma i mafiosi; non più rito (collettivo) ma comportamento (personale). La mafia, se produce quel che le viene attribuito, da anni sarebbe un problema nazionale. Forse da qualche decennio. È che in Italia ci arriviamo troppo tardi. È perché il cuore civile di questa nazione che obiettivamente per un secolo ha pulsato al nord, ora ha smesso di battere. Al nord come al sud, il bieco provincialismo della classe dirigente (politica, culturale, economica, ecc.) ha messo sotto naftalina quel poco di coraggio che, in determinate stagioni della nostra storia patria (pensiamo al ’92-’93), abbiamo mostrato per tentare di cambiare qualcosa.

E possiamo ancora fare tanto, ma dobbiamo avere il coraggio di ammettere, senza offendere nessuno ma neppure restando coperti dall’ipocrisia di un democraticismo vuoto e conformista, che produrre (e vendere) cicoria non è come pensare (e agire) idee.


Pubblicato su www.cataniapolitica.it il 5 luglio 2010.

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