"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

23 luglio 2010

STERCO DI MEDIOCRITA' (storia minima di provincialismo)



di Antonio G. Pesce- Signora rimbambita con annesso marito inconcludente. Siamo a Maganuco, incantevole spiaggetta della costa modicana. Qui si mangia bene, e si vive meglio. Viene da pensare che, se tutte le spiagge fossero tenute come questa, nessuno ci schioderebbe dalla nostra terra (e forse la Sicilia sarebbe conosciuta più per il suo mare che per altri accidenti).

La signora la pensa pure così, altrimenti perché caricarsi di marito, nipotina e varie suppellettili con i quasi quaranta gradi di un sabato di luglio? Eppure, la signora comincia sproloquiare. Preventivamente. Il due-a-briscola, e cioè l’insignificante marito, posteggia vicino ad un’altra auto. La signora teme qualcosa, forse che le graffino la sua Fiat Uno di fine secolo (scorso). Esce in silenzio. Poi si accorge della presenza di due garbati giovani, che identifica come autoctoni. E qui scatta la sindrome milanese, quella strana malattia che ti rende antipatico alla sola vista, insopportabile come il ronzio di una zanzare, cafone vero come l’immagine finta che al nord persiste del meridione.

La signora ultrasessantenne, che farebbe meglio a stringere in mano un rosario e a tener quiete le coronarie, comincia a borbottare ad alta voce – lo facessimo a Catania o a Ragusa, il nostro vicino (che sia un tantino garbato) si schiferebbe di salutarci il giorno dopo. Ma la signora mostra un marcato accento milanese: crede di potersi permettere qualsiasi deroga al galateo. E così che passa in rassegna i triti luoghi comuni della spocchia settentrionale, una sequela di idiozie (ormai politicamente corrette solo nella decadente Italia) che in altri stati civili basterebbe per metterti alla berlina. Primo, qui non capiamo niente. Secondo, qui siamo in Africa. Terzo, anzi: nel quarto mondo. Infine, qui siamo peggio degli arabi, anzi gli arabi sono più civili di noi (siciliani).

Anni da sguattera in qualche ristorante, o chi sa dove e come per guadagnare quei quattro spiccioli che permettano di pagare il soggiorno ad appena cinquanta euro di volo low cost da casa (e risparmiando su ombrellone e sdraio, andando a stenderti in una spiaggia libera tra tanti africani) senza poter profittare della vita intellettuale di una tra le più vivaci città del mondo; anni passati senza neppure sapere cosa si pensi lì dove è passata la vita civile e culturale del nostro paese, sempre in periferia, vicina ai rimpianti di una vita che, al di là delle Alpi, credi migliore; anni di bile vomitata su fantomatici nemici, considerato che con quelli veri sei costretta a chinar il capo e a mandar giù il rospo pur di arrivare a fine mese.

È la vittoria del provincialismo sul ruolo guida di cui la città ha sempre goduto. L’Italia repubblicana che credeva chiusa e arretrata quella fascista, solo perché mutava in lingua nazionale i cognomi dal vago sapore esotico, oggi soccombe sotto una coltre di grettezza, meschinità e maleducazione paesana. Al nord come al sud: è il territorio che vince, quel territorio che non è quello colto da uno sguardo lucido sull’orizzonte del mondo. Il territorio abitato da gente miope, che nel piccolo borgo in cui trascorre la propria vita anonima, tra capre, vacche e lupi, si inventa filosofo e politico, artista e liturgista, nel disperato tentativo di credersi qualcosa di più di ciò che è: sterco di mediocrità. Non più il contadino che viveva di civiltà, né il pastore che recitava versi in dialetto o perfino il sommo Poeta come neppure le pecore delle classi liceali sanno fare, ma branchi di buoi che seguono le mode del pettegolezzo, dimentichi della campagna che hanno lasciato e mai padroni della città che abitano. Sempre alla periferia della storia che conta, delle idee che formano, della vita che vale.

È lo specchio dell’Italia cafona che viviamo: potremmo citare casi altrettanto paradigmatici il cui protagonista è un Sud borioso, a cui è stato dato un camice da medico, un timbro da ingegnere, una toga da avvocato o da docente, e ha poi dimenticato i piedi che ha leccato per arrivare lì dove è arrivato.

La signora -per la cronaca- indica alla nipotina la villeggiante tedesca del giorno prima. La Padania che vuole entrare, da sola, nell’Europa che conta. La signora tedesca rimane, però, tutto il tempo di spalle, mostrandole il grosso ammasso di cellulite a forma di deretano. Non la guarda nemmeno, a stento risponde al saluto, e la nostra compatriota, che voleva essere considerata un po’ di più della gretta paesanotta che è, rimane a fissare il mare africano, dettando ordini ad un marito inconcludente e a una discola nipotina. Che neppure l’ascolta.

Pubblicato su www.cataniapolitica.it il 20 luglio 2010.

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