"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

25 marzo 2011

LA GUERRA E' UNA COSA SERIA

di Antonio G. Pesce - Se voi foste nonni, e vedeste che i vostri nipotini sono in mano a genitori degeneri – magari i vostri stessi figli – come vi comportereste? Come reagireste se, comandanti di una barca, vedeste che durante la burrasca i primi ad entrare in panico fossero i membri del vostro stesso equipaggio? Alla fine, qualcuno un po’ di sale in zucca deve pur tenerselo e farne uso nel momento del bisogno. Ecco perché non dobbiamo attribuire alcuna colpa a Giorgio Napolitano se, da quando si bombarda la Libia, dice cose non molto esplicite. Ovvio che siamo in guerra. Perché c’è guerra quando uomini si sparano addosso, ed è abbastanza chiaro che tra il cielo e la terra della Tripolitania non ci si stia tirando balocchi in faccia.

Non è neppure un banale ossequio alla carta costituzionale, perché l’art. 11 è tra i più soggetti a continue interpretazioni. Prima del 1948 la guerra veniva dichiarata in un modo, per alcuni fini, e combattuta con alcuni mezzi. Oggi le cose sono assai cambiate. In meglio o in peggio? Di certo è che sono mutate: si attendono le risoluzioni Onu o del consesso internazionale più ampio; i fini da perseguire sono il bene e la concordia degli Stati da bombardare (sic!); le armi sono proiettili dieci volte più distruttivi di quelli di un secolo fa, ma (pare) molto più precisi. Insomma, ormai abbiamo tutti gli ingredienti per quella melassa di ideologismo borghese con cui festeggiare l’assunzione agli altari della bontà mondiale.

Il ruolo del Capo dello Stato, in una nazione come la nostra, è sempre stato, simbolicamente, una via di mezzo tra un Papa laico e un nonnino di buonsenso. Napolitano, poi, nonostante le modalità della sua elezione potessero far supporre altrimenti, si è mostrato forse l’unico uomo capace di unire un popolo ancora una volta dilaniato da conflitti personali. Ma l’attuale Presidente della Repubblica, proprio perché figlio di una tradizione poco ‘pacifista’, assai realista e culturalmente molto ferrata, sa che il momento è assai critico, e che la gente lo ha capito: siamo in un mondo di mezzetacche. E chi mezzatacca non è, pur con tutti gli errori che può commettere, deve cercare di infondere sicurezza, lasciando ad altri l’amaro compito di dire quanto sia grave la situazione.

La cattiveria va temuta, ma della stupidità bisogna aver terrore. Non si è mai visto alcun criminale fare il danno che solitamente fanno i sempliciotti. Ricordiamo la pagina biblica: Eva non era l’escort di Adamo, a cui volle far assaggiare il frutto minorenne di un rapporto sessuale. Era una ingenua e innamorata ragazza di campagna, che voleva conquistare per sé e il suo uomo la scena del mondo. Vedi com’è andata a finire!

Che l’Italia abbia le idee confuse, questa è cosa che qui si ripete spesso. Sarà che noi italiani ci amiamo meno di quanto ci amasse Montaigne, ma è meglio peccare di autocritica che di autostima. Non fosse che per il rispetto che si deve agli altri. Però, questa volta abbiamo toccato il fondo. E lo ha toccato pure quell’esperienza politica, che dal 1994 ad oggi ha cercato di dare una casa comune al conservatorismo tipico della società italiana. La destra ha fallito – e per evitare equivoci, è bene chiarire che queste righe le scrive una penna che non ha mai conosciuto alcuna tonalità di rosso. Proprio perché è con la mano destra che si scrivono certe cose, e che è bene occuparsi del lordume dei panni propri (ancorché dismessi nel 1998), proprio per questo va detto che nessuno, ancora venti anni fa, poteva immaginare un crollo così ignominioso. Guardate Roma, coinvolta in scandali tipici della Milano socialista! Guardate il governo, stampellato come i peggiori esecutivi del Pentapartito d’annata! Guardate alle idee – soprattutto guardate alle idee, e vedrete accattoni di citazioni! Non dovrebbe scuotere il pensatore di destra il fatto che, alle celebrazioni per il 150enario dell’unità dello Stato, l’intellettuale più citato sia stato Federico Chabod? Che si nomini Piero Calamandrei più di Benedetto Croce o di Giovanni Gentile? Che Cattaneo, riferimento della Lega, sia stato più studiato da Renzo Bossi per la propria tesina di diploma, che non dal partito che lo usa come una clava?

Senza forme del futuro con cui plasmare il presente, l’avvenire sfigurerà sempre se confrontato con il passato. Si sono confuse le idee con le ideologie, e si è creduto di poter fare a meno di entrambe. Col risultato che oggi non sappiamo chi siamo, perché non abbiamo riflettuto abbastanza su chi siamo stati e su chi vogliamo essere. Per questo anche l’ultimo fiore all’occhiello del centrodestra, quella politica estera di cui ci si è fatti vanto fino a qualche mese fa, è sfiorito sulla via di Bengasi.

Siamo partiti alla carlona, definendo ‘dittatore’ l’amico burlone di ieri. Ci siamo fatti portare la guerra fin dentro le viscere del nostro ‘spazio vitale’. Perché è chiaro a tutti, fuorché ai leghisti, che allo stato attuale l’intero Continente è dominato dalla Germania e, in parte, dalla Francia, e che non possiamo competere con loro. Ci siamo fatti scippare dalla più improvvisata banda di bulli che gli annali internazionali ricordino. E se la figuraccia è meno palese, è perché il mondo, questa volta, ha saputo tenerci testa.

Qualcosa, anche in questo caso, l’abbiamo appresa. Abbiamo imparato che i francesi non sono più quelli di Napoleone. Oggi l’imperatore di Francia indossa mutande griffate, fa piazzate per portare via dal set cinematografico l’avvenente moglie, e si alza di tanto in tanto sui tacchi per guardare oltre la cresta dei suoi galli. Doveva far rispettare una zona di interdizione al volo, e invece si è messo a scaricare l’intera artiglieria rimasta negli arsenali dalla guerra di Algeria.

Abbiamo capito, inoltre, che il silenzio comunitario sugli ‘alti guai’ lanciati da Maroni per gli sbarchi a Lampedusa (lasciata sola dal governo ‘federale’), non era dovuto a indifferenza ma all’inesistenza dell’Unione: l’Europa non c’è, non l’abbiamo ancora fatta, e chissà quando la faremo. Spicca, però, la miopia tedesca: dal collasso greco al manicomio maghrebino è stato tutto un defilarsi. Non stupisce che in Italia la Merkel sia tanto apprezzata, perché noi neppure sappiamo come si diventi (e ci si resti) una potenza continentale. Ma fino a quando i tedeschi potranno non sporcarsi le mani di quel miele che a loro tanto piace? La Germania deve molto all’Euro. L’Europa sempre meno alla Germania.

Infine – ed è forse una novità per la quale sarebbe opportuno non gioire troppo frettolosamente – Jeremy Rifkin non si sbagliava di molto, quando in un suo libro del 2004 parlava dell’eclisse del sogno americano. Un Gibbon dei nostri tempi, che ha previsto un tramonto, ma si è mostrato troppo ottimista sull’alba europea. Obama era quello che ci si poteva aspettare: vuole governare l’opinione pubblica e ne è capace. Ma governare un Paese è tutt’altra cosa. Perché una nazione ha una sua storia, e non ci si rinventa così, da capo e alla prima occasione. Bush e i suoi sono poco amati, e perfino a ragion veduta. Avevano idee sbagliate, tuttavia non le avevano confuse. Obama con i suoi proclami, i suoi slogan, i suoi incitamenti, illude e fa sperare un nuovo mondo, ma alla fine lo lascia così come l’ha trovato, se non peggio. Un Totò a stelle e strisce, che invita gli altri ad armarsi e partire, limitandosi a intessere elogi della pace a Oslo e panegirici dei diritti umani a New York. Non vuole esportare la democrazia, e dice di volerla far germogliare. Per questo registra messaggi in arabo e fārsì, ma quando autonomamente le popolazioni si sollevano, autonomamente lui ripiega e lascia che le illusioni si infilzino nelle baionette della repressione. Essere sognatori o realisti a corrente alternata mette in dubbio le proprie capacità strategiche.

A tutto questo, per condire meglio la frittata, si aggiungano i litigi tra gli Zar di Russia, la novella casa Vianello del pianeta, e i ripensamenti della Lega Araba. Ce n’è abbastanza per rendere indigesta una poltiglia del genere anche a chi ha il pelo della diplomazia sullo stomaco.

La guerra è ancora una extrema ratio necessaria. Voglia Iddio che non lo sia più domani stesso. Per ora lo è. E come tutte le cose necessarie, è davvero una cosa seria. Bisognerebbe evitarla fino all’inverosimile, e combatterla con assoluta decisione. Avendo chiari i motivi (chiari come possano esserlo per gli uomini), i mezzi, i fini. Tattica e strategia, forza militare e lungimiranza politica. Se qualcuno vuole divertirsi, lo faccia nel salotto di casa sua con i soldatini di piombo (costano relativamente poco). Ed eviti di accendere la miccia dell’idiozia umana, sulla potenza ed estensione della quale non si raccapezzò mai neppure un genio del calibro di Einstein.


Pubblicato il 23 marzo 2011 su www.thefrontpage.it

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