"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

21 marzo 2011

FESTEGGEREMO L'ITALIA CHE SIAMO DIVENTATI



di Antonio G. Pesce - Il buongusto vorrebbe che i compleanni non venissero mai dimenticati. Passino pure gli onomastici, soprattutto quando le fantasiose madri non si curano di verificare se una qualche santità è ascesa agli onori degli altari con nome del pargolo. Ma del genetliaco delle persone care non ci si può scordare. E neppure degli anniversari: molti matrimoni, prima che davanti al giudice, finiscono per una dimenticanza. Poi, è solo questione di tempo. Ricordare non è un’arte facile. Almeno per gli uomini. Un ricordo è sempre un maestro che sale sulla cattedra della vita. Non capita spesso che si voglia prendere lezioni. Però, chi smette di apprendere – di educare e di essere educato – smette di vivere. Di vivere almeno come uomo (ed iniziano i problemi per la civiltà).
Proprio per questo dovrebbe farci riflettere il dibattito (inutile e sterile!) che si è aperto sulla opportunità di dare festività il giorno dell’unificazione nazionale, giovedì 17 marzo. Le ragioni addotte, poi, da chi voleva soprassedere, quando non sono pericolose, sono tanto ridicole da meritare di essere compiante più che derise. Suona strano che a far lezioni di produttività sia il capitalismo nostrano, soprattutto perché, ancora prima della crisi, gli allegri compari di Confindustria non si evincevano, nella graduatoria mondiale, per il loro zelo. Colpa degli scioperi sindacali? Forse. Ma non è da escludere che possa aver pesato anche la fin troppa dimestichezza con la politica e con un mercato drogato dai parassiti dello Stato. Infine, l’omelia sul risparmio, fatta da chi sperpera miliardi di euro l’anno di danaro pubblico dall’alto del proprio scanno, non va neppure presa in considerazione.
Le ragioni storiche sono, invece, le più pericolose. Non perché false, ma perché dimostrerebbero lo strano senso della storia secondo gli italiani (qualora le accettassero). Diciamocelo chiaramente: il nostro Risorgimento non è stato fatto bene. Poteva essere fatto meglio. Alla fine, abbiamo avuto un Nord diviso dal Sud, per intanto. E poi il Paese reale – contadino, cattolico, legato alla provincia – dal Paese (che si voleva) “ideale” – industriale, laico, orbitante attorno alle grandi città.
Però che l’Italia fosse un’idea, che frullava in testa agli italiani da moltissimi secoli prima del suo realizzarsi, è un fatto. Ed oggi, con buona pace dei secessionisti di là e degli autonomisti di qua, siamo quell’Italia che il mondo conosce attraverso Dante, Manzoni, Pirandello. E nessuno, fuori dalle Alpi, li pensa innanzi tutto come toscano, lombardo e siciliano. Inoltre, nel mondo si nasce e, col tempo, si muore pure. Così è per gli uomini, per le attività commerciali e – non si vedrebbe perché no – anche per gli Stati. Nulla di umano è eterno – da sempre e per sempre. Le stesse razze pure sono una pura invenzione: andando verso le origini si scoprono commistioni a volte perfino imbarazzanti. E le tradizioni culturali, passando dalle mani del padre a quelle del figlio, si imperniano dell’odore della vita. Del sudore del padre come di quello del figlio, il quale, un giorno, sarà anch’egli padre. Perché la vita non si è mai fermata, ed è difficile dire quando sia iniziata.
Il 17 marzo, dunque, non festeggeremo l’Italia di quel giorno di centocinquanta anni fa, né quella che sarà tra altrettanti. Festeggeremo l’Italia che siamo oggi, quell’Italia che siamo diventati. Sarà forse per questo che abbiamo saputo dividerci anche sul senso della nostra unità.

Pubblicato sul L'Alba di marzo 2011.

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