"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

6 marzo 2010

DECRETO INTERPRETATIVO. OVVERO, VIVA IL “MADE IN ITALY”


Pubblicato su www.cataniapolitica.it il 6 marzo 2010

di Antonio Giovanni Pesce- L’italica smania di arzigogoli linguistici ci ha salvato per l’ennesima volta. Magari non la faccia – che, del resto, abbiamo perso già da anni – ma almeno da quella che si paventava come un’insorgenza di democratici in Mercedes e doppiopetto. Nella terra dell’Azzeccagarbugli sarà presto emanato un decreto, col quale si spera vengano ripescate le liste del maggior partito italiano, estromesso perché sembra non abbia trovato di meglio, tra milioni di cittadini che gli affidano il futuro, che un affamato e un migliaio di analfabeti per presentare quattro foglietti agli uffici elettorali competenti. Alla fine, tra tarallucci, vino e notti bianche, il presidente della Repubblica ha firmato una leggina che è meno peggio – dobbiamo dirlo – di quella che si prospettava. Segno evidente che, quando si vuole, si sa fare bene e velocemente. Solo che il bene non sempre è quello sommo per una nazione, quello comune, e la celerità è quella di chi vuole aiutare se stesso più che gli altri.

Il decreto denominato ‹‹interpretativo››, un altro vanto per l’estrosa fantasia del nostro made in Italy, non cambierà le normative vigenti, e spetterà comunque alla magistratura decidere sui ricorsi presentati nel Lazio e in Lombardia. Il presidente Napolitano, per il quale Antonio Di Pietro ha paventato la ‹‹messa in stato d’accusa›› per tradimento della costituzione, si è mostrato sicuramente il più lucido, davanti ad una situazione che non mostrava alternative. Perché non c’erano alternative, se non quella – neppure pensabile – che il PDL accettasse di far semplicemente ricorso nei vari gradi di giudizio. Impensabile, perché che qualcosa non sia andata come avrebbe dovuto, è parso subito chiaro anche ai quadri dirigenti più inclini al complottismo: l’inghippo, se c’è stato, s’è verificato dentro il proprio spogliatoio tra panchinari che sgomitano per un posto da titolare, o ad opera di giocatori che vogliono uno spazio maggiore di quello che hanno con l’attuale allenatore.

Il rischio era una esasperazione del già focoso quadro politico, e Napolitano non se l’è sentita di tirarsi indietro: vuoi che ci scappasse una mezza rivoluzione per questioni di poltrone, quando c’è un intero paese roso dalla galoppante disoccupazione! E poi per cosa? Per qualche formalità! Suvvia, il nostro è un paese che ha perso da anni il senso del buongusto, pubblicizzando calzette con l’inno nazionale, quattrini con la musica classica, mentine per l’alito con flatulenze animali; un paese che chiama libertà di pensiero la bestemmia, realtà le miserie umane, schiettezza il turpiloquio, e avremmo dovuto escludere quello che è, di fatto, il primo partito italiano, per un paio di firme scarabocchiate e le mancate presenze per repentini cali di zuccheri? Semmai, è da notare che il presidente ha firmato un decreto che ha effetti ben diversi da quello che non firmò, quando si trattò di sospendere l’applicazione del ‹‹protocollo› che avrebbe da lì a qualche giorno portato alla morte la giovane Eluana Englaro. E dire che in questo caso una legislazione ed una giurisprudenza chiare sono veramente mancanti nel nostro diritto, e che l’atto governativo non annullava la sentenza, ma ne bloccava l’esecuzione, aspettando che il parlamento si esprimesse in materia. Tuttavia, non possiamo chiedere ad uno di noi, per quanto nobile sia la sua funzione, di aver quel coraggio che nessuno avrebbe, in uno Stato dove la poltrona è vita, e molti ci campano e ci fanno campare. In base ai punti di vista, anche questo affare di mancate candidature è questione di vita o di morte.

Una soluzione andava trovata, dunque. Anche perché non si vede quale vantaggio ne sarebbe venuto per ciascuno dei contendenti: la politica non è far andare le cose per il nostro particolare e miope verso, ma per quello giusto. E le elezioni dovrebbero essere il conclave dal quale far uscire colui che rappresenti ogni parte, non solo la propria. Altrimenti, si rimane invischiati in una logica da guerra civile. Sperimentata già dalle famiglie italiane. La legittimità del proprio governo è a priori in una democrazia, non a posteriori: viene prima, di diritto, non dopo, di fatto, la conquista del potere. Non ci si può godere nessuna vittoria, sapendo di essere stati gli unici a gareggiare. E Bersani questo lo avrà tenuto presente, se si è limitato a qualche battuta, ma senza calcare troppo la mano: i grandi partiti di una volta sapevano come sfruttare gli errori altrui, senza buttarsi la zappa nei piedi.

Il presidente della Repubblica ha mostrato quella lungimiranza, che è mancata a molti nei loro commenti. Non stupiscono quelli di Antonio Di Pietro e di alcuni capipopolo (viola), perché entrambi devono dar conto agli indifferenti di ieri divenuti oggi, sull’onta del loro scarso amore per Silvio Berlusconi e della paura per le sorti della democrazia italiana, i neofiti di un puritanesimo che vuole marchiare colla lettera (scarlatta) della legalità ogni compromesso, non per come viene fatto, ma per il semplice fatto di essere un compromesso. Magari fino a ieri preferivano Tex Willer ai giornali, e conoscevano Moana Pozzi ma non il suo ‹‹utilizzatore finale››, uno dell’allegra combriccola che ci ha portati ad avere il terzo debito pubblico del mondo. Oggi, però, porterebbero al rogo ogni persona di buonsenso che sa quanto poco ormai ce ne sia in circolazione in Italia.

Stupiscono, semmai, quelli della Bonino & Co, solitamente così attenti (dicono) alla liberalità, alla discussione, alla democrazia americana, europea, ecc., e in questa circostanza pignoli contemplatori di carte bollate, di cronometriche consegne, di formalità burocratiche. Quelle stesse che, secondo la Bonino, non rendevano giustizia alla libertà della donne, e che dunque dovevano essere aggirate, anche ‹‹clandestinamente››.

C’è sempre di che rimanere sorpresi in Italia. Perfino la destra ha smesso di essere tale. Quel marxismo gramsciano delle intellighenzie, quella verità che si fa col farsi della prassi – cioè, quella forza della classe che diviene legittimità del diritto, oggi è appannaggio di chi, anche alla prossime elezioni, si presenterà sotto il marchio del moderatismo, del liberalismo, del conservatorismo. È una strada che avrà esiti funesti.

Per intanto, se davvero il popolo – questa massa amorfa nella nostra discussione pubblica, dato che nessuno si premura di dirci cosa sia – ha così tanto potere sul diritto da calpestarlo quando lo ritiene più utile, allora è bene demandargli l’ultima e definitiva parola su tutte queste vicende, e lasciargli l’onore di farsi giustizia. Anche perché, onestamente, non si vede chi altri potrebbe fargliela

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