"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

2 marzo 2010

SANREMO, LA CAPITALE MORALE D'ITALIA



Apparso su www.cataniapolitica.it il 2 marzo 2010

Antonio Giovanni Pesce - Ci siamo rappacificati, lo scorso fine settimana. Rappacificati coi nostri nonni, coi nostri padri, coi nostri figli. Il secondo dopoguerra è finito, ma non è solo per questo che il presente non ci angoscia più, come faceva fino alla scorsa estate. E il futuro, quello che pareva incombere su di noi come un’arpia più che aprirsi come opportunità, ora ci mostra i tratti famigliari di un vecchio amico. Vecchio davvero. E ci siamo rappacificati nell’unico posto che davvero ci rappresenti, al di là della noncuranza con la quale guardiamo a questi luoghi della cultura nazionalpopolare.L

Siamo un popolo che ama spostarsi, anche fisicamente, quando vuole ritrovare se stesso. Da Milano a Ravenna per salvarci dai barbari; da Torino a Firenze, per conquistare Roma. Infine, da Milano e Roma a Sanremo, tra i fiori del ponente ligure, per chiudere un secolo di lotte intestine, ritrovare il volto rassicurante delle nostre donne, convincerci che i nostri figli non ci faranno mai fuori, se nascono già vecchi più dei loro nonni.L

In diretta televisiva abbiamo assistito alla più spettacolare delle abdicazioni, in un paese in cui a lasciar la poltrona non ci pensa neppure l’usciere. Tanto che, sembrando l’ennesima infamia, o forse il più eroico dei tentativi di appropriarsi dell’unico trono che, ormai, pare stare a cuore agli italiani, nessuno ci ha creduto alla sincerità con la quale ci si è ghigliottinati da soli, tra i fischi di una platea di cittadini repubblicani che riscopre il buongusto solo quando si tratta di motivetti, e la baraonda di musicanti, i soliti accompagnare ben altri muli, che non il coretto col quale sua maestà si è presentato nell’agone festivaliero.L

I tempi corrono però, i giacobini diventano più docili, i censori delle veline altrui ne candidano di proprie, e le riforme istituzionali e i capitoli di storia li scriviamo col pollice lesto, più che verso, su un telefonino comprato a rate, sperando di aver accesso immediato al credito degli amici trendy. Un euro, se non sbaglio, e abbiamo mandato in soffitta tradimenti, battaglie, guerre, referendum truccati e no – senza l’ombra dei call center di oggi – qualche pezzo della nostra costituzione e intere biblioteche di astiosi storiografi, sempre pronti ad avvisarci del pericolo per la nostra democrazia. E mai per le nostre orecchie – quelle che, infine, hanno avuto la peggio. E poi, il regno dei balocchi ha un trono così ampio, che ce n’è per scosciate signorinelle prone e pronte a tutto pur di calcare quel soglio, e per tronfi pupazzi in finta stoffa maschile, ai quali gli anabolizzanti hanno annientato l’intero pacco di testosterone e l’ultimo neurone rimasto: davvero è uno scandalo, se chi potrebbe ambire a ben altro trono, si accontenti di quello post-moderno del tubo catodico?L

Lasciateci la consolante presenza dell’ultima, antica matrona romana che circoli in Italia. Un po’ goffa nei suoi abiti lunghi a campana, le abbondanti forme non diluite nel sudore della palestra, ma sorridente e accogliente come una madre, i seni che parlando di una ricchezza di vita persa dalle nichilistiche figure che appaiono, come canne al vento, sui deserti delle passerelle modaiole. Una donna come l’Italia maschia se la ricordava, e credeva di aver perduto definitivamente nei corsetti e nelle gueppierre tracimanti di microspie tre le lenzuola dei lettoni presidenziali. Una donna che non teme il professionalismo dei salvatori di patrii ascolti; data come il brutto anatroccolo da sacrificare sull’altare dell’alternanza, e invece sbocciata come cigno delle tagliatelle italiane, a cui, appunto, è stato dedicato un simpatico siparietto alla fine della kermesse.i

Patriottismo repubblicano in rima posticcia, rotondità sensuali e sbarazzine, pasta all’uovo casareccia: questa è l’Italia, l’Italia di Sanremo che fa il botto degli ascolti più che nelle vittorie calcistiche – altro momento di risorgimentale orgoglio nazionale. E il futuro che temevamo, lo abbiamo annegato nei laghi sardi dell’ultimo talento delle nostre svampite sedicenni, focose milizie del nuovo ordine teledemocratico. La spocchia di James Deen senza il fascino, le sonorità di Claudio Villa senza l’alone del tempo: il vino novello della gioventù non spaccherà le vecchie botti del nostro sistema perché, neppure un po’ stagionato, si adegua da subito all’adagio di una nazione che, nella melodia, nasconde la propria melanconia.i

Crassi italiani fotogenerici, rappacificati con ben tre, se non quattro generazioni di rimpinzati spettatori, possiamo attendere tranquillamente il sorpasso industriale e l’egemonia culturale dei paesi emergenti. Noi avremo sempre una canzonetta da canticchiare all’ombra delle nostre antenne paraboliche

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