"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

29 aprile 2010

25 APRILE ALLA SCALA: DA MILANO UN MONITO

Il vecchio adagio – tanto abusato da schiere di pedagoghi più che usato – vuole interminabile il processo di educazione. ‹‹Non si smette mai d’imparare››, si suole dire. E in effetti, succede che, anche solo ritornando con lo spirito di oggi ai fatti di ieri, l’uomo non smetta di estrarre dal proprio tesoro, come lo scriba divenuto discepolo, ‹‹cose nuove e cose antiche›› (cfr. Mt 13,52). Questo rendere vivo il proprio tesoro (la vita) divenendo discepolo (della verità) si chiama storia.
I “filosofi” – soprattutto se italiani – maturano lentamente. E solo a prezzo di gravi errori. Altrimenti, capirebbero subito che c’è da sporcarsi le mani con la storia; questo vissuto fatto di terra e sangue di ogni uomo. Poi, si muovono, conoscono altra gente, varcano le alpi, volano sulle nubi, e si accorgono che dalla Francia alla Germania agli Stati Uniti non si lesinano né attenzioni né risorse economiche all’insegnamento e allo studio della storia.
Colpisce il giovane studioso italiano l’ambiente che circonda il “filosofo” in Francia o Germania. Ma soprattutto lo storico. A volte, ha anche la birra pagata. Se sono grandi nazioni, è perché lì l’intellettuale ha rischiato anche la testa (e molte volte l’ha pure persa) per criticare il potere e raccontarne gli scempi al popolo. Soprattutto, sono grandi nazioni che hanno una storia condivisa. E per un popolo avere una memoria condivisa – avere una storia, è importante tanto quanto lo è per ogni persona avere chiarezza di sé, dei propri limiti e delle proprie possibilità.
Giorgio Napolitano, pronunziando alla scala di Milano, la vigilia di quest’ultimo 25 aprile, uno dei discorsi più belli che l’Italia repubblicana abbia mai potuto ascoltare, ha voluto educare le ubriache masse di politici e di clientele varie con l’atto della propria autocoscienza di anziano signore ormai ultraottantenne, donando una ricostruzione storica condivisibile, una storia. Nulla rende più lucidi davanti alla vita dell’incipiente certezza di appartenervi sempre meno. Così, un momento di mera contrapposizione tra parti diventa l’occasione, a distanza di 65 anni, per additare l’ennesimo momento di divisione in seno agli italiani. Un momento che può ed ha conosciuto ragioni ed errori – che il presidente non ha dimenticato di ricordare – ma che inserito nel vissuto di questo popolo, non può più essere letto come semplice ‹‹liberazione››. La resistenza – e non a caso il Presidente si sofferma sul contributo dei militari che ‹‹diede continuità›› all’azione partigiana nel solco della nazione – si nutrì di quei sentimenti di patria e di onore, che se erano sembrati mera retorica ai giovani cresciuti nel ventennio precedente, in quelle ore parve essere il problema di tutta una vita. E la gioventù seppe riunirsi attorno all’amore per l’Italia, e il fascismo, che fino a non molti anni prima pareva dover rappresentare tutto il paese, diventa solo una parte, rappresenta un solo momento di questa storia.
Il 25 aprile, allora, acquista un altro significato, che invera e supera quello precedente: c’è ‹‹liberazione›› perché c’è ‹‹riunificazione›› di tutti gli italiani sotto l’egida della libertà.
Un’operazione di enorme respiro storiografico. Perché non ci sono più Italie, ma una sola e somma, ed è quella che procede il suo cammino; un’Italia che riconosce figli tutti i caduti per suo amore senza badare al colore del fazzoletto al collo o il distintivo sul bavero.
Ampio respiro storiografico. Altrettanto ampio il respiro politico che chiede il superamento del particolarismo partitico a favore di riforme istituzionali condivise, per far nascere nel rispetto delle regole oggi in vigore le leggi che lo saranno in futuro. Ma è anche un chiaro monito alle ‹‹sgangherate›› battute sull’unificazione italiana: ‹‹Siamo chiari. Se noi tutti, Nord e Sud, tra l’800 e il 900, entrammo nella modernità, fu perché l’Italia si unì facendosi Stato; se, 150 anni dopo, siamo un paese democratico profondamente trasformatosi, tra i più avanzati in quell’Europa integrata che abbiamo concorso a fondare, è perché superammo i traumi del fascismo e della guerra, recuperando libertà e indipendenza, ritrovando la nostra unità. Quella unità rappresenta oggi, guardando al futuro, una conquista e un ancoraggio irrinunciabili››.
Forse, d’ora in poi potremo guardare con lealtà al passato, vivere con serenità il nostro presente, e costruire con vivida fiducia un futuro più degno della nostra millenaria storia.

Pubblicato sul L'Alba di aprile 2010.

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