"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

31 maggio 2008

PER LA VERITA'. RELATIVISMO E FILOSOFIA



Diego Marconi, Per la verità. Relativismo e filosofia, Einuadi, Torino 2007, pp. IX-172.

Recensione pubblicata su Laòs XV (2008), 1-2, pp. 190-192.

L’autore è ordinario e docente di filosofia del linguaggio all’università di Torino, dove si è laureato nel 1969 sotto la guida di Pareyson e dove è tornato dopo aver arricchito i suoi studi in diverse università straniere. Di questo peregrinare gli è rimasto un metodo, o come si suole dire uno “stile” di argomentare tipico dei filosofi di orientamento analitico, e tuttavia Marconi si confronta in questo testo con il tema cardine di ogni speculazione filosofica: la verità.
Suddiviso in tre capitoli – “La verità”, “Relativismi”, “La paura della verità” – il lavoro nasce dalla revisione delle lezioni tenute nel 2006 al Dipartimento di Filosofia e teoria delle scienze dell’Università di Venezia.
Marconi ci dice che quando si afferma qualcosa su “come stanno le cose del mondo” non si recita a soggetto, perché avanziamo una pretesa “ a cui è impossibile rinunciare: così funziona il nostro concetto di verità”(p.7), il cui “nucleo del suo funzionare” Tarski ha identificato con il principio: è vero che P se e soltanto P. Non c’è alcuna differenza, infatti, tra cercare la verità e accertare i fatti, ma ve ne può essere una tra asserzioni vere e asserzioni giustificate. Marconi distingue tre sensi di “giustificato”: 1. un’asserzione è giustificata perché è argomentata, “vere, false o deliranti che siano le sue premesse”; 2. Un’asserzione è giustificata perché “derivata in modo convincente da premesse plausibili”; 3. “Le autentiche giustificazioni comportano la verità delle preposizioni giustificate” (p.12-13). Tuttavia, come scrive più avanti l’autore, “qualsiasi concetto di giustificazione” presuppone quello di verità (p.21): infatti, perché una proposizione dovrebbe dirsi giustificata? Rispetto a cosa lo è? In base alla nostra capacità di trovare argomentazioni? Ma allora quale sarebbe la differenza tra la scienza e la mera sofistica? O in base al suo funzionare quando viene usata? Ma in questo caso, funzionare rispetto a quali parametri? E soprattutto, scelti da chi?
La ricerca della verità è stata drammatizzata per diversi motivi, scrive Marconi. Innanzi tutto, c’è “confusione tra conoscenza e certezza”, perché è vero che non possiamo escludere che, in futuro, avremo buone ragione per abbondare alcune delle nostre credenze. Tuttavia lo scetticismo è proprio qui che si insinua, “nell’idea che nessuna giustificazione è tale se non è dimostrabilmente capace di resistere a ogni obiezione possibile”(p. 32). Ma “la possibilità di una ragione non è una ragione” (p.36), e lo scetticismo spinto oltre la naturale prudenza finisce per assumere i caratteri di un’ansietà patologica: questa paura di qualcosa che deve accadere, ma che non si sa cosa e quando. Inoltre, si drammatizza la ricerca della verità perché “ le verità che vengono dichiarate inattendibili riguardano questioni estremamente controverse” (p. 35).
Nel secondo capitolo Marconi affronta il problema del relativismo. Ne distingue due tipi: quello epistemico, per il quale “quelle che chiamiamo ‘conoscenze’ dipendono da criteri di accettabilità che non sono, a loro volta, giustificati né giustificabili “ (p. 52), e quello concettuale, e cioè “la tesi che un modo in cui le cose stanno dipende da una concettualizzazione: non esiste se non per via di quella concettualizzazione” (p. 64). Mentre il primo è, secondo l’autore, una “posizione filosoficamente rispettabile”(p. 53) e che non “riguarda la verità” (p. 153), il secondo invece ha implicazioni controintuitive. Marconi fa l’esempio del sale, che anche prima della concettualizzazione chimica era cloruro di sodio. Lo era anche nell’età dell’uomo omerico, con l’unica differenza che questi “non aveva accesso a quella verità”.
Infine, nel terzo capitolo l’autore affronta il tema del pluralismo. Essere pluralisti, per alcuni, ha significato abbracciare il relativismo. Ma ciò comporta un salto logico. Marconi distingue tre tipi di pluralismo: 1. “Dei cento fiori”, cioè l’accettazione benevole dell’esistenza “di molte alternative tra cui scegliere”, ma che non comporta alcuna posizione relativistica, in quanto “ per apprezzare l’esistenza di molte alternative non è indispensabile pensare che abbiano tutte lo stesso valore”; 2. “dell’equivalenza”, e cioè la tesi per cui le alternative hanno tutte lo stesso valore, ma che non dice che un’alternativa ha valore per alcuni e non per altri; 3. Il soggettivismo nichilista: “Non ci sono… né valori né scelte di valore, ma solo fatti e preferenze” (p. 155). Che può sembrare una scelta opportuna e di buona maniere, sedendo alla tavola della multiculturalità odierna, ma che alla lunga mostra la propria cafonaggine: “Se sono oggettivista [cioè “ i valori sono quelli che sono, indipendentemente dal fatto di essere riconosciuti da chicchessia” ], posso pensare di poter sbagliare: magari i loro sono autentici valori, ma io non me ne rendo conto. Se invece sono soggettivista, questa strada mi è preclusa: non ci sono altri valori oltre a quelli che io riconosco”. Che è poi la posizione del superuomo nicciano, ormai improponibile e sostituita dalla figura del dandy politically correct, per cui l’altro non esiste in sé, ma come proiezione del mio sé: dunque, all’inquietudine della verità si preferisce la quiete dell’indifferenza, acquistata tramite un banale e illogico riconoscimento di dignità a ogni altra posizione che non leda la mia, e che anzi implicitamente la giustifichi.
Il confronto non è salutare se la conclusione è quella che aprioristicamente abbiamo fissato essere la migliore, ma lo è solo se è stato svolto con argomentazioni razionali e serie: “Il confronto – scrive in una bella pagina Marconi – è inevitabile: la scelta è soltanto tra un confronto serio, fondato su conoscenze, e la chiacchiera multiculturale, basata su aneddoti, impressioni e pregiudizi. Se l’esito del confronto sarà la sostanziale equivalenza delle società e delle culture, tanto meglio; ma la tesi dell’equivalenza intesa come rifiuto aprioristico della discussione sui meriti rispettivi delle diverse società appare gratuita e indifendibile, motivata dalla paura delle conseguenze più che da ragioni filosofiche, antropologiche o di altro genere” (p. 100).
Un approccio scientifico al tema della verità, che non cede alle mode del momento – dimostrando anche perché, e anzi mostrandosi più tollerante dei tanti tolleranti di maniera. Segno che l’unica via di dialogo, proprio in una società postmoderna come la nostra, può essere costruita con la più antica facoltà, la ragione umana, di cui l’uomo abbia fatto esperienza.

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