"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

27 marzo 2009

LA MORTE DELLA DESTRA E L'ERA POST-POLITICA

Non bisognerebbe mai sopravvivere a se stessi: fa una certa impressione vedere vecchie glorie dello sport incassare una sconfitta dietro l’altra, perché il fiato si fa sempre più corto; o voci un dì squillanti e ricche di patos, biascicare sillabe dietro un play-back che si fa veloce; o, ancora, arzille signore dal seno cadente, atteggiarsi a compagne di sogni delle figlie. Fa impressione vedere l’uomo incapace di accettare che lo scorrere inesorabile del tempo ne travolga opere e illusioni. Alla fine, il Nunc dimittis tutti, prima o poi, lo recitano: deposta la penna che corresse l’ultima opera, anche Gentile, che ben aveva detto che la vita, quella vera, quella autentica, mai si smette di viverla, anche lui si consegnò alla morte. Certo che l’opera sua, “nella vita”, era conclusa.
Ri-adattarsi? E perché? Quando “l’opera nella vita” era finita, sconfitto dalla storia ma ancora spirito forte e dignitoso abbastanza da affrontarne il verdetto, l’uomo romano si faceva da parte, e aspettava la morte dedito ai suoi studi. Il cursus honorum era concluso: altri avrebbero pensato alla patria, altri avrebbero battagliato nell’agone politico. La vita attendeva la sua quiete, superata l’opera a cui, per anni, aveva atteso. E il silenzio non era quello della morte, ma della riflessione: convenienza, che allora si coniugava bene con la decenza, oppure piena coscienza che una stagione era passata, e che ancora restava tanto, e soprattutto altro da fare. Sallustio e Cicerone ne sono esempio, ciascuno a suo modo.
Oggi, però, ri-adattarsi, come pare facciano i corpi, è diventato indice di lungimiranza, a dire di alcuni, ma resta sempre motivo di viltà, e suprema vigliaccheria davanti al tribunale della coscienza. E così si lasciano le case del padre, per non farvi più ritorno. Adieu! Giusto: i figli conquistano la propria maturità a confronto diretto con le irte vie della vita. Ma se l’esodo è senza una meta, né senza l’alta vocazione di un ideale, che porti a lasciare il proprio agio per i lidi lontani della verità, allora l’opportunismo qualifica bene questa fuga a cui ricorrono i meno coraggiosi, quando c’è da ammettere di aver sbagliato tutto, o di resistere alle procelle delle mode a testa alta e continuare a combattere per quell’ideale che si ritiene di valore.
Lo scioglimento di Alleanza Nazionale, la destra nazionale nata negli anni Novanta dopo un serrato e lungo confronto con le proprie radici fasciste, è morta la domenica del 22 marzo 2009. Data che rievoca i novant’anni – se ne saranno accorti gli zelanti democratici dell’on. Fini? – della fondazione del Fascismo, avvenuta il 23 marzo 1919. Dovremmo ringraziare Fini per aver staccato la spina – come ormai gli capita spesso di pensare – ad un’agonizzante ammucchiata di cavalieri con tante macchie e la paura, la sola, di perdere l’unico posto, a cui possono aspirare: l’agio del potere, al quale celermente si sono abituati. Dovremmo ringraziarlo di portare fuori di scena una posizione politica che stentava a passare, finendo per ridicolizzare anche quando di buono, in campo sociale, aveva proposto. In questo lungo dopoguerra Mussolini, che non sarà stato il più grande statista della storia, ma sicuramente era più intelligente di coloro che a lui si rifaranno, si sarà rivoltato chi sa quante volte nella tomba, a sentire gracchiare dai megafoni logori slogan, da lui coniati cinquant’anni prima più per sintetizzare le ragioni di una scelta avanti ad un popolo ancora semianalfabeta, che non per giustificarla davanti all’opinione pubblica che contava. Il fascismo ha avuto tante pecche, e il solo merito di essersi posto almeno il grosso problema che da sempre attanaglia l’Italia, e cioè gli italiani: uno Stato che aspetta ancora i suoi cittadini. Ma come tutte le dottrine politiche, è passato e doveva passare: se mai dovesse tornare una qualche forma totalizzante di vita politica, essa non assumerà certo le sembianze folkloristiche del fascismo mussoliniano. Da questo punto di vista, i tanti vaccini retorici a quali il popolo italiano viene sottoposto durante l’anno, e soprattutto l’ideologia antifascista, non serviranno a nulla.
Dunque, vada a riempire le pagine della storiografia il fascismo. Da oggi, essere di destra avrà un significato che ancora dobbiamo inventarci. E, con molta probabilità e grazie a Dio, sarà sempre più difficile assimilare ciò all’armata Brancaleone che ci governa, avanzando in ordine sparso più che in ordine liberale. Detto questo, però, ciò che lascia pensare è la facilità con la quale l’on. Fini sfascia la famiglia che egli stesso, neppure quindici anni fa, aveva fondato, e non il fatto di aver abbandonato la casa del padre. Esodo è crescere, esperire nuove strade, portando con sé le radici del proprio spirito. Ma fuggire così, come nomadi, senza sapere dove andare, e con assoluta noncuranza cambiare senso alla propria marcia, raccattare motivazioni qua e la, e sorridere come ebeti e davanti agli interrogativi dell’avvenire, perché pure il futuro ci interroga con la voce della speranza, abbozzare pragmatistiche soluzioni che hanno da venire, come già pragmaticamente la storia (elettorale, che è tutto un dire, soprattutto in Italia) avrebbe sancito, sembra uno scatto in avanti di chi vuole smaccarsi da una corte troppo legata, ancora, ad un minimo di onorabilità, per capire che il futuro è di chi saprà dire “anche” il contrario di quello che pensa e, soprattutto, di quello che può testimoniare.
Alleanza Nazionale era un partito di nostalgici. In Italia, i partiti di nostalgici, rossi neri o bianchi che siano, non si contano più da anni, da quando almeno, in un quadriennio, è venuta meno tutta l’impalcatura del Novecento. Ma la nostalgia non è un peccato. Chi di noi, pur amando la vita che vive e gli affetti che ora gli sono cari, non ha mai dedicato un istante del presente ad un ricordo del passato? E non è un tradimento di ciò che si è diventati e si sente il dovere di diventare ancora, ma la trama del nostro vissuto: si rimpiange quella parte di sé che non tornerà più, non già il mondo che si è lasciato alle spalle. E se poi molte credenze sono legate agli anni più verdi di una vita, il problema, anche se non così schiettamente posto, è un problema esistenziale più che sociale o politico. Se dovessimo condannare per i sentimenti di nostalgia che possono affiorare in un gesto o in un ricordo, allora buona parte dell’attuale panorama politico italiano dovrebbe recitare il più contrito dei mea culpa: i comunisti rimpiangono il comunismo, tutti, nessuno escluso, e perché? Perché mancano loro le stragi del “Baffone”, alle cui scempiaggini non sfuggirono neppure tante e tanti compagni italiani, che nell’Unione Sovietica andavano a visitare il paradiso dei Soviet, e vi trovavano, invece, l’inferno dei gulag? No, ricordano i tempi di una forte appartenenza politica, di una serietà nell’affrontare le questioni sociali, le speranze – anche se di alcune la storia si è prodigata assai di smentirne la bontà – che univano uomini e donne di diversa estrazione sociale e culturale. Rimpiangono l’ideale non le stragi, anche se è vero che mai hanno spiegato come possa essere adattato l’ideale che essi propugnano a chi non lo propugna, se non con la forza. E i democristiani, che un giorno sì e l’altro pure, sbucano dagli attuali raccoglitori di consenso per farsi una nicchia nella quale ritornare bambini, forse hanno nostalgia degli anni in cui, ad un tempo, venivano traditi i cristiani e i cittadini – gli uni con leggi che, ancora oggi, mietono vittime già dal ventre materno, gli altri con un debito che, già dal ventre materno, pesa sul cittadino? Credo che in coscienza non possano guardare con molto orgoglio agli ultimi trent’anni. Essi, invece, ripensano ai tempi quando avevano una sola casa, anche se piena di veleni e di coltelli, e avevano una bussola, per quanto confusa fosse ormai negli ultimi decenni.
I fascisti non rimpiansero mai il fascismo, per quello che la loro coscienza di sopravvissuti aveva potuto sperimentare come errato. Non il fascismo come dittatura era il loro rimpianto – anche perché il “sistema”, che essi avversavano con un ribellismo non alieno ad influenze romantiche (nei suoi aspetti legalitari, ovviamente: per gli altri, basta il giudizio dei tribunali), faceva loro sperimentare i lati negativi del “pensiero unico” - ma il fascismo che aveva creato, in parte, la nazione; che aveva dato, in parte, identità e fierezza agli Italiani; che aveva concluso, o meglio aveva tentato di concludere la formazione risorgimentale dell’Italia; che aveva saputo dare risposte sociali ma non socialiste ai bisogni della gente. Che, va ricordato oggi più che mai, è italiana, non già tedesca o americana. Sociale fu definito il movimento che nacque da questi rimpianti.
Alleanza Nazionale, allora, vide la luce quando la nottola di Minerva spicca il volo: le sue tesi congressuali giustificavano la vita, non la promuovevano. A Fiuggi si rinnegava la maschera che si era indossata per anni, più per motivi di tornaconto elettorale che per vero convincimento, mentre già tanti italiani, con un voto crescente nel tempo e per nulla ideologicamente caratterizzato, avevano mostrato il vero volto della destra italiana. E mentre Fini pensava di compiere chi sa quale svolta storica; mentre piangeva e si asciugava le lacrime per non si sa bene che cosa, gli italiani avevano già percorso parecchie leghe di marcia, con buona pace dei suoi quattro ideologici, dei quali il più insigne, Domenico Fisichella, pur con discutibile scelta, ha lasciato la barca prima che affondasse nel gorgo del nulla, e dei suoi colonnelli irreggimentati come ragazzini alla visita militare.
Alleanza Nazionale poteva essere il laboratorio della nuova destra. Doveva esserlo. Perché, se è auspicabile che il progetto riformista lanciato a sinistra prenda sempre più corpo, lo è altrettanto che il nostro sistema politico abbia una destra nazionale, nella quale l’anima tradizionale si inserisca nel quadro di un moderno liberalismo. Un liberalismo di destra, dunque. Perché, fino a quando non sapremo con certezza dogmatica della verità delle nostre scelte politiche, è bene che più tradizioni, nella normale dialettica intellettuale ed elettorale, concorrano alla discussione razionale in campo sociale. Anche quelle più sbagliate potrebbero avere la loro parte, anche quelle che tramutano il nostalgismo in revanscismo, perché un sistema politico che fa bene il suo esame di coscienza non dovrebbe temere gli errori del passato. Già superati, e dunque nient’altro che vana immagine di un ricordo, neppure buona a spronare l’azione per il futuro.
Che sarà, invece, il Popolo della Libertà? È bene non affannarsi troppo nel trovare percorsi e dottrine: post-ideologico è l’indifferentismo il cui fine è il dominio della sfera elettorale – e solo elettorale, perché quella politica non la si può governare se non con la lucidità delle idee, e la proposizione di ideali, divisibili sì in buoni e cattivi, ma solo quest’ultimi artifici dei massacri che oggi tanto aborriamo (tranne poi esserne stati fautori quando erano in corso). Ma gli ideali sono discrimini chiari circa il loro fine (target, ormai si dice) e i loro successi. Quando un ideale non funziona nella storia, non è la storia che non lo ha capito, ma è l’ideale che non valeva. L’unico ideale che pare proporre il Partito della Libertà, 29 marzo nascente, è quella della libertà di mercato, dove l’accento è posto sul mercato e non sulla libertà, che invece può anche andare a discapitato del mercato, se il mercato non tiene conto della libertà. Poi, per il resto, l’ottimo discorso di Fini sul palco dove decapitava, in un sol corpo, la testa di tutti i suoi cortigiani, ha indicato esattamente come si comporterà il partito, quando sarà chiamato ad esprimersi sui valori: dall’anarchismo di Berlusconi si passerà al suo sentimentalismo. “Agire secondo coscienza”, cioè secondo il proprio arbitrio, le proprie sensazioni, magari influenzati dagli effetti mediatici che taluni casi assumono, e guarda caso si agirà “secondo coscienza” solo sulle questioni di più scottante importanza: la vita, la morte, la visione del mondo, ecc. Nessuno, però, dovrà disturbare il manovratore, quando egli sarà costretto da coloro che ci fanno i conti in tasca, a legiferare in materia economica o di riforma istituzionale. Tutti inquadrati, allora. Per il resto, “più variamo più valiamo”. Come se poi, in fin dei conti, non sia una questione di coscienza fare sempre e comunque, quale che sia la materia affrontata, buone leggi e votarle perché le si reputa davvero risolutive di un problema – forse no, forse non è così, dal momento che gran parte dei nostri parlamenti non vengono mai a dirci cosa fanno e cosa pensano, e quando lo fanno, tranne che sui temi sentimentalistici e sensazionalistici, non sanno che cosa hanno votato.
L’uomo del futuro è l’on. Fini: pochi dubbi in proposito. Egli è il leader (comandante, duce: il significato quello è) del Partito della Libertà che ha da venire, quando la vita o la politica seppelliranno Berlusconi. Un uomo che agirà sentendo soltanto la sua coscienza, ma che saprà farsi guidare bene su quei temi che “non sono negoziabili”: la gestione economica e il dominio politico. Per il resto, lo ha detto sul palco, la politica è una cosa, la religione un’altra, e questa deve restare nel campo privato. Dal momento, però, che nello spirito umano non c’è dualismo, non c’è scissione, ma a votare sarà sempre e comunque lo stesso uomo che, magari mezz’ora prima, sarà andato in chiesa pregare, è difficile non vedere il risorgere della statolatria, osannata da coscienze ubriache di propaganda e spronate da imbonitori. A Fini non mancano i mezzi. Neppure al suo allegro compagno di brigata, ma questi ha tuttavia il limite di aver puntato su di sé i riflettori di chi è allineato altrimenti. Limiti che Fini non avrà, sempre capace di dire la cosa giusta al momento giusto, e quando arriveranno i nodi, a svilupparli ci penserà la coscienza elastica di cui pare, a suo dire, egli sia dotato.
Il domani che ci aspetta è quello dominato da una grande massa di persone, passate dall’esaltazione pagana del sangue in salsa tedesca, all’esaltazione puttana del danaro in salsa americana. L’economico, l’utile più bieco dominerà la scena politica: ogni cosa sarà un mezzo, non ci saranno fini. O, almeno, non ci saranno fini discussi, ma imposti. Continueremo a subire l’arbitrio di chi avvelena il mercato, spacciando per creatività le sue truffe. Subiremo ancora le chiacchiere di chi non saprà giustificarsi altrimenti che con il numero di voti che ha ricevuto dalle pecore che ha tosato. Il post-ideologico, in questo senso, sarà il post-politico. Sopravvivrà solo Fini e chi, con lui, si sarà adatto: l’homo habens.
Domenica 29 marzo sarà solo l’inizio: davanti ad un riformismo della peggiore marca conservatrice, si parerà una destra illiberale e, peggio, pragmatista. Che, come tutti i pragmatismi, non darà mai indicazioni di falsificazione: agirà (secondo coscienza), e avrà sempre ragione. Vizio antico e dobbiamo dire, a questo punto, non perso come il pelo tirato ormai a lucido.
Il pragmatismo di Fini e il conservatorismo di D’Alema (diciamolo chiaro) saranno il futuro. Peggio non potevamo prospettare. Lo si diceva già nel 1996, che alla fine sarebbero rimasti loro due. Alla fine, sono rimasti loro due. Peggiorati.
Mi è ormai chiaro perché Fini, concluso il discorso al congresso durante il quale è stata sciolta AN, abbia sbuffato, come si fa, solitamente, quando si è archiviata una pratica ormai scocciante. La politica (anche se cattiva, é pur sempre politica) di cui è intrisa ancora la sua corte, e buona parte della base del partito, è un limite per il manovratore, non già una ricchezza. Ciò che, però, mi è meno chiaro, sono i sorrisi dei condannati a morte, i plausi dei suoi colonnelli, coloro che sono già superati dagli sviluppi futuri, tracciati davanti ai loro occhi dal venerato capo. Che ridevano? Che applaudivano? Canta Ciano: “Vesti la giubba e la faccia infarina. /La gente paga e rider vuole qua. /E se Arlecchin t'invola Colombina, /ridi, Pagliaccio... e ognun applaudirà! /Tramuta in lazzi lo spasmo ed il pianto; / in una smorfia il singhiozzo e'l dolor... /Ridi, Pagliaccio, sul tuo amore in franto! /Ridi del duol t'avvelena il cor!”. Nell’aria di un’opera una verità incontrovertibile. E allora forse ha ragione Fini, che i miti di una volta, i tedeschi Nietzsche, Junger, Schmitt, li ha sostituito con i ben più digeribili Mogol e Battisti.



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