"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

23 giugno 2010

SCIENZA E QUALITA' DELLA SCIENZA. La polemica Montaudo-Barcellona



di Antonio G. Pesce- Fino a sabato 26 giugno si svolgeranno a Catania i lavori del corso di alta formazione promosso dalla fondazione “Nova Universitas” sul tema ‹‹La ricerca scientifica e il futuro della specie››. Vi partecipano giovani studiosi provenienti da tutta Italia e dalle più diverse formazioni culturali (dalla fisica alla chimica, dalla metafisica e dall’etica alla filosofia del diritto e della scienza), e relatori di spicco nel panorama scientifico nazionale. L’evento sta suscitando vasta eco nella stampa, tanto che non mancano attenti resoconti delle varie relazioni.

Con l’eco, però, pure le polemiche, che vedono coinvolto uno dei promotori dell’iniziativa, Pietro Barcellona. E, come già un anno fa, Giorgio Montaudo, ordinario di chimica nell’ateneo etneo, ha preso carta e penna e scritto il suo ‹‹J’accuse›› (pubblicato su “La Sicilia” del 16 giugno) contro il fondamentalismo di chi non avrebbe occhi come i suoi per vedere la grandezza della scienza.

Non conosco nessuno dei due contendenti, né ho voglia di difendere d’ufficio nessuno. Non ne sento il bisogno, ben sapendo che l’accademia ha i suoi modi per ferire e i suoi tempi per ricucire. Mi permetterei di consigliare a Barcellona una visita all’Accademia Gioenia di cui Montaudo è presidente: ho l’impressione – dato quanto si legge alla fine dell’articolo del noto chimico – che ciò potrebbe essere l’inizio di una lunga amicizia. Il caffè lo porto io.

Quel che qui più mi preme, al di là dei salamelecchi d’occasione, è rassicurare Montaudo, e quanti con lui temono per le ‹‹magnifiche sorti e progressive›› dell’umanità, che a Catania non si sono dati appuntamento un manipolo di folli oscurantisti, né alcuno vuole attentare alla pagnotta altrui. Lasci però Mantaudo la libertà ai filosofi di guadagnarsi la loro. Tutti teniamo famiglia, e quella filosofica è assai prolifica di figli col loro carico di problemi e inquietudini. Ed è in questa famiglia che sono state prodotte quelle idee di cui i chimici fanno tanto uso contro i “fondamentalisti”. La porta, insomma, è stata aperta loro dal di dentro.

Il problema non è la scienza. Ma l’etica nell’epoca della tecnica. E ci sarà etica finché ogni essere umano sarà interrogato da un suo simile anche solamente con la mera presenza. Il fatto che ognuno di noi non sia solo ci induce a giustificare il nostro operato. Sapendo – anche inconsciamente – che lo spazio su cui agiamo (il reale) è spazio pubblico.

Nessuno, allora, impone ad un chimico di dare spiegazioni dei protocolli che, nel chiuso di un esperimento, egli adopera e impone al reale che esperisce. All’interno della comunità di un laboratorio, Montaudo non ha altri interlocutori che la comunità scientifica a cui è legato dall’esperienza del suo “essere chimico”. Ma quando smette il camice, cioè quando il suo operare stras-borda il limite delle scienze, allora egli deve confrontarsi con un orizzonte che non è solo il suo. E che non è solo della comunità che egli ha eletto propria. Ma è di una comunità assai più grande, e che può essere messa a rischio da ogni gesto dei suoi membri. Essere “specie”: questo ci fa scoprire la scienza attuale – un peso e un destino, un passato e un futuro ben più presenti ed universali di quanto lo sia il nostro sentirci “cultura”.

Davvero le scienze non hanno altro fine che la scienze medesime? Non credo che questa esaltazione metafisica dell’‹‹inservibilità›› possa applicarsi alla scienza naturale. Che “serviva” al dominio della natura sin dal suo sorgere. Lo stesso Montaudo non fa altro che parlare di una scienza che aprirebbe ‹‹nuovi spazi di libertà e di operatività››, di un miglioramento del mondo. E quale sia il meglio per l’uomo, vorrebbe lo scienziato avere la cortesia di concordalo col poeta, col filosofo, con l’economista, con il medico, col politico… ‹‹ma siamo uomini o caporali?›› si chiedeva il principe de Curtis, in arte Totò. Insomma, non siamo forse innanzi tutto uomini? E non dobbiamo, tutti, costruire il mondo che è nostro? Non demandiamo più agli uomini della provvidenza in posa ardita il futuro di una nazione. Perché dovremmo abbandonare allo splendore dell’intelletto di un signore in camice bianco il senso del destino umano?

Dubito, inoltre, che lo scienziato sia così spregiudicato come lasci intendere. Innanzi tutto, la scienza non è roba da ragazzotti in vena di spasso. Non è come ‹‹guidare a fari spenti nella notte per vedere, se è poi così difficile morire››, alla stregua di come cantava Lucio Battisti qualche decennio fa. È qualcosa di assai più sensato. Lo stesso Montaudo, dovendo scegliere tra la vita di uno dei suoi più stretti collaboratori e il progresso della chimica, per cosa opterebbe? E – volendo essere ancora più banali – potremmo chiedergli se, entrando in un laboratorio della Cittadella, egli rispetti (e faccia rispettare) quelle elementari norme di sicurezza, che appena un quarantennio fa potevano essere opzionali, e che ancora lo sarebbero, se solo qualche ‹‹fondamentalista›› non avesse avuto il coraggio di porre la questione del lavoro in sicurezza.

La scienza è costruzione umana, nient’altro che umana. Dio non ha bisogno di conoscere per capirsi e per agire. Noi, invece, sì. E facciamo scienza, a tutti i livelli e in tutti i modi. Quando ci troviamo davanti al reale, lo interroghiamo con quel bagaglio che la vita ci ha messo a disposizione. Non sono gli elementi primi della materia che ci indicano la strada: anche perché, se il mondo è così grande come ci viene detto, forse le strade si perdono. Tante, troppe, infinite. Noi cominciamo da noi stessi: da ciò che già sappiamo, da ciò che pensiamo di poter sapere, da ciò che vorremmo capire. Non c’è un Tom Tom a guidarci. Ci siamo noi – noi esseri umani. Soggetti di scienza, non oggetti.

Questo dice Barcellona – almeno è questo che gli abbiamo sentito dire in questi giorni. E con lui, sono in molti a pensare che i cavalli della biga vadano imbrigliati. Noi siamo l’auriga, non astratti protocolli scientifici. Tutto qui.

Montaudo non troverà elogio più ampio e accorato del progresso tecnologico di quello che faceva ai suoi auditori Vico nel “De Ratione” (1709), né filosofo che abbia meritato altrettanta devozione da parte degli scienziati come un Blaise Pascal. Eppure, entrambi si chiedono a che serva un progresso nelle scienze naturali, se nelle scienze morali non muoviamo un passo. Sapere dove stiamo andando, e chiederci se convenga andarci: è questo quello che Montaudo chiama ‹‹fondamentalismo››? Io lo chiamo ‹‹autocoscienza››: sapere che, alla fine della fiera, in ballo c’è quel che io – io uomo – sento di dover essere. Ed è libertà e dignità, di cui nemmeno l’onta del dispregio deve far pentire.


Pubblicato su www.cataniapolitica.it il 19 giugno 2010.

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