"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

7 novembre 2006

LA STANZA DEL FILOSOFO

Riporto qui la vecchia introduzione a La stanza.

Nel 1790 Xavier de Maistre fu agli arresti domiciliari per quarantadue giorni. Fratello del più noto filosofo, portò a compimento in quel frangente uno scritto interessante, Voyage autour de ma chambre (Viaggio intorno alla mia camera). Ma era un aristocratico, in fin dei conti. La camera è luogo di riposo, di giacche a quadretti, di lenzuola e di comò. È il posto nel quale, giustamente, può stare recluso uno che si batta, a sciabola, per motivi d’onore; uno di quelli che lancia il guanto, aspettando che l’altro lo raccolga.

La stanza, invece, è pervasa da profumi più intensi. Quello della polvere, che si accatasta sui libri, anno dopo anno. Quello delle spezie dei cibi, cucinati lì, o portatici da comitive di amici, che cercano di trascorrere tra un sorso di birra e un boccone le calde e stanche serate del paese (ancora dieci anni fa, era altamente trasgressivo bere più di un quarto di birra, ed era l’unico vezzo che mi concedevo durante le vacanze: nessuno poteva aspettarsi, che anni dopo anche questa piccola ribellione sarebbe stata molto “conservatrice”). Quello del sudore di ansiosi giovinetti, attaccati alle ultime sortite( a quei tempi mai tradite) del numero dieci azzurro, il cui codino seguivamo per tutto il campo, aspettando il gol della vittoria, quello del pareggio (quando le cose si erano messe male, o il cuore non ce la faceva a sperare di più), l’esultanza del fine partita. La stanza è luogo di studio, la camera di riposo.

Ricordo il primo libretto filosofico che comprai: una raccolta tratta dalle Lettere a Lucilio di Seneca. Poi, un altro su Montaigne, il filosofo francese del XVI secolo, autore dei Saggi. Il titolo di quest’ultima silloge era emblematico: La torre del filosofo. E per anni mi trastullai a pensarmi chiuso nella mia torre, come i benedettini attorno al loro chiostro.
Chi, infatti, è così infelice o derelitto da non aver un buco dove possa raccogliersi e celarsi al mondo?”Tutto qui l’occorrente per il viaggio”. Montaigne, la sua torre ce l’aveva davvero, mica per ischerzo. Ce l’aveva, era nobile, e nonostante gli impegni di carriera, non disdegnò di dedicarsi alla riflessione, consacrandovisi quando questi si fecero più radi, o vennero meno del tutto.
Nietzsche, nel Crepuscolo degli idoli, commentando Aristotele, per il quale solo animali e dei possono starsene in perfetta solitudine, aggiunge la terza opzione: il filosofo. Un semi-dio e un semi-animale, che annaspa quando vede attorno a se il “profanus vulgus” (la massa), e dal quale cerca di fuggire (si racconta che il giovane filosofo, quando entrò per la prima volta in un bordello a Lipsia, non sapendo come approcciare con le donne della casa, e vistosi osservato, corse al piano e lì rimase, da solo, a suonare per molto tempo. Poi morirà pazzo, quasi trent’anni dopo. I più romantici parlano del male inflittogli dalla riflessione. In realtà, era l’ultimo stadio della sifilide. Evidentemente, il dio scese dal suo olimpo, e si sarà accompagnato, una sera, a qualche comune mortale giovincella).

Col tempo si impara a diffidare di Nietzsche, croce e delizia dei giovani ardori, e si diventa un po’ più realisti: allora è il momento di Aristotele, di Giambattista Vico, del buon senso comune. Vi è certo un modo di restare isolati dal mondo, pur vivendoci dentro: quello dei e delle manager, del carrierista che corre freneticamente inseguendo un qualcosa che sempre gli sfugge, dell’egoista ed edonista del XXI secolo, che spaccia per libertà altrui l’indifferenza propria. Non serve andare in eremi, chiudersi in camere, per starsene lontano dal mondo. Basta coniugare sempre i verbi all’indicativo presente, prima persona singolare, e il gioco è fatto. Esclusi dal mondo che fu, da quello che sarà, da ogni probabile articolazione, da ogni sensato dubbio, da ogni possibile scelta, e da ogni riconoscimento di identità che non sia la propria, l’uomo diventa – e qui sì che ha ragione Nietzsche – un dio che crede di poter far tutto, e che decade, invece, allo stato di bestia.

I filosofi son brutta gente. Sono quelli che ti fregano sempre, ma duecento anni dopo. Ti prendi gioco di loro oggi, e sette generazioni dopo, magari la tua stirpe sarà sterminata da un’idea che avevi sentito nascere in piazza, al bar o in edicola… I filosofi vanno presi sul serio. Più che la precisione, i concittadini di Kant, nel vederlo passare ogni giorno alle cinque del pomeriggio, notavano del filosofo la stranezza, la pignoleria, la ridicola abitudine della puntuale passeggiata igienica. A due secoli di distanza, il nostro mondo solo ora si sta liberando delle catene kantiste. Gente pericolosa, i filosofi. Li conosco da anni, e se fossi nei panni di chi legge questo pezzo, me ne starei alla larga da loro.
Tutti i pensieri più articolati, quelli che hanno segnato lo sviluppo della nostra civiltà, sono nati da filosofi, che passeggiavano tra la gente, che discutevano in piazza, e che non disdegnavano di metterci, oltre che quelli altrui, anche i loro fatti. L’uomo ha bisogno dell’altro: non siamo soli, mai. Anche chiudendoci dentro, c’è sempre l’altro che ci perseguita: la nostra mente è fatta così, trascende se stessa. I libri, le penne, gli occhiali e il letto che compongono la mia stanza sono altro da me: magari non mi parlano (ne sono certo, altrimenti dovrei farmi vedere da uno bravo!), non mi saranno di conforto nei momenti tristi (tuttavia non sempre gli uomini sanno esserlo più d’un buon libro), e tuttavia sono lì, fuori di me, con una vita legata alla mia ma non identica alla mia. Ben strano, allora, chiudersi a dialogo con queste cose, che ci parlano l’arcana lingua dei ricordi, delle sensazioni, e non aprirsi a chi mi è altro, e dunque diverso da me, ma che proprio in questa alterità io rivedo me stesso come altro suo. Inoltre, è proprio nel riconoscere l’altro, che io divento più sicuro di me stesso: ne è dimostrazione il fatto, che si passa dall’indistinta visione del reale alla coscienza, quando il bambino si vede come “io” che esperisce il mondo, e che proprio perché lo esperisce egli intuisce, ancora latentemente, di non essere il mondo medesimo. Ma un’altra entità.
Chi ci dà certezza di vivere il reale, e non un sogno? Propria la presenza di entità altre da noi, con una propria vita e un proprio vissuto.
Dunque, un diario pubblico. Ma non un confessionale. Una stanza, dove incontrare ed invitare altra gente, e non una camera, dove rimanere chiuso nell’intimità del mio vissuto. Anche perché mia madre, detentrice dell’ordine domestico, ben conoscendo la mia innata passione per pile di libri ammucchiate sullo scrittoio, non permetterebbe a nessuno di entrarvici. Nega, ancora, al sottoscritto il permesso di pubblicare le foto della camera. Si accontenti l’amico che mi verrà a trovare, di intrattenersi con me nella mia stanza, dove potrà sedere su vecchie e scomode sedie, accerchiato da libretti di ogni colore e grandezza, bevendo succhi di frutta e caffè di moca. E parlando per ore di ogni cosa: di ciò che ho faccio dono con molta generosità, accettando umilmente, invece, quanto non possiedo.

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