"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

7 novembre 2006

DOLORE E RIBELLIONE

Il testo è stato composto la sera del 16 luglio 2005.

16 luglio: Madonna del Carmelo. Von Balthasar diceva che solo in cielo, sapremo quanto dobbiamo al Carmelo. Tempo fa, andai a trovare suor A.M. in ospedale: non serviva più la grata a dividerla dal mondo. Ormai era certa – lo mostrava quel dolce sorriso che mi è rimasto impresso innanzi – che il mondo non le apparteneva più. La convinzione di tutta una vita, diventata sigillo dall’ineluttabilità del destino.

Eravamo in facoltà, stavamo pranzando. Il chiostro, che svettava sulla vegetazione profumata dal maggio appena entrato, veniva inondato a brani dalla luce di un sole stanco, che moriva oltre i cornicioni aggettanti dei ballatoi del monastero, al di là di un orizzonte oltre il quale non potevamo spingere lo sguardo. Mi chiese: “come fai a non ribellarti al dolore?”.
Ricordo la ribellione a quel dolore. Il crocifisso tenuto stretto al petto, nelle ultime ore. Nemmeno più la morfina, che andavamo a comprare con papà in una clinica dalle parti di Ognina, saziava il male che lo rodeva. Era il 1988. La dottoressa leggeva la ricetta. Chiedeva, come da prassi, per chi fosse. Prendeva il suo foglio, la sua risposta, e se ne andava per una scala, e noi la vedevamo riapparire qualche momento dopo. La bottiglia, la si sarebbe scambiata per una da spumante. Aveva il tappo ricoperto dalla stagnola. Papà pagava, e tornavamo a casa con quel veleno, a dissetare il corpo riarso di chi non poteva più nemmeno bere. Non ci si ribella al dolore. Non serve. E quando anni dopo le ragazzine innamorate del liceo chiedevano alla professoressa come potessero credere in Dio, nonostante il dolore, il male, io che il male lo avevo visto livido, emaciato ogni giorno di più; io che lo avevo sentito urlare, mentre imparavo a memoria Carducci, Pascoli… io che contro quel male avevo combattuto in notti tremende, con l’ingenuità di una preghiera che non so ancora perché Egli non l’ascoltò, io avrei voluto dire loro quello che avevo visto: doveva davvero esistere un Dio, perché un uomo continuasse ad essere uomo, e non una larva; perché un uomo abbracciasse un crocifisso, con una tale serenità, che nemmeno i sortilegi chimici dei maghi da laboratorio possono donare.
Dio, non è vero che non si vede. Non lo vedono i ciechi. Io, putroppo, non ho più scuse: l’ho visto. Quella sera di fine maggio. Quel giorno di fine giugno. Nella quiete del riposo, nei tratti distesi di chi ormai spera. Nel sorriso che dona vita. Chi non ha più, o gli è rimasto poco dona quel poco che ha, a chi presume di avere ma non ha mai avuto, e forse non avrà mai.
In cinquanta mila pagine, Karl Marx scrisse appena quattro righe sulla morte: sarebbe sopravvissuto il genere umano, il sogno comunista. L’idea non sarebbe mai tramontata. Non sappiamo come morì Marx. Di certo, è assai indicativo che egli, così prolifico, abbia invero prodotto così poco sull’argomento. Forse, aveva in un certo senso ragione Schopenhauer, quando diceva che la morte è l’unica arma contro la volontà. La volontà di illudersi, però. Non c’è velo che copra – ha perfettamente ragione: il velo viene squarciato. La sua filosofia, come quella di Marx, come le mie parole, o le invettive di mio padre contro il carovita: ne faccio tutt’un fascio. L’abisso che si apre tra ciò che possiamo sperimentare nel nostro vivere e il reale, l’essere, possiamo intuirlo dall’ultimo capitolo di vita dell’Angelico. San Tommaso D’Aquino è tra i più grandi filosofi di tutti i tempi, e certamente il sommo teologo della pura dottrina cattolica: non vi fu filosofo, tuttavia, più corretto di Tommaso, che le obiezioni se le muoveva da solo. Il suo pensiero è quanto di più complesso la mente umana abbia mai prodotto. Durante una Messa, ebbe un momento d’estasi. Cosa abbia visto, se così possiamo parlare circa l’esperienza mistica, non ci è dato sapere. Sappiamo solo che due cose contraddistinsero l’ultimo mese della vita terrena dell’Angelico: il silenzio, e la voglia di sbarazzarsi di quanto scritto, salvato solo dalla santa disobbedienza di un suo allievo. San Tommaso aveva visto quello che sente già suor A.M.; quello che vide quella sera di fine maggio mio nonno; quello che vedremo tutti, se Iddio ci darà una morte santa.

La piccola lampada elettrica illumina i versi di Archiloco, abbandonati sullo scrittoio da stamani. La stanza puzza di citronella, nonostante sgusci dentro tra i panneggi della tenda l’aria pungente del mattino ancora galoppante ad est. Fogli sparsi.
La notte pare eterna, ma sarà dimenticata appena il sole farà capolino nella stanza. Di eternò non c’è che la luce.

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