"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

23 ottobre 2012

Intervento Nato in Kosovo







 Articolo dell'agosto 1999 per il Corriere del Sud.

di Antonio Giovanni Pesce - Che il passato  ritorni, questo non ci è dato sapere. Certo è che il presente difficilmente dimentica, e alcune parole, che avremmo voluto non sentire più(in certi contesti), ricompaiono, dall’abisso della storia, come bestie fameliche, pronte a divorarci quel poco di sonno che i tempi duri ci concedono.
Una volta ancora la parola “Serbia”: ieri, 1914, popolo che lotta per una sua dignità, oggi, 1999, manipolo di nazionalisti irriducibili che, disprezzando qualsiasi ambasceria, massacra per la propria civiltà, che vede in pericolo – e non a torto – dagli “yenkee” americani e dai musulmani albanesi. Ieri come oggi: 1914, 1936, 1999, Balcani, terra di fuoco, crogiolo di lingue, culture, religioni, tenute insieme per decenni dal terrore che incuteva il regime del maresciallo Tito e dalla fame del sistema comunista, e divisesi, in pochi anni, per ricercare un anelito di libertà, quella libertà per anni negata e sempre agognata.

Oggi come ieri. Ed è spaventoso ammetterlo, ma lo scenario che ci troviamo davanti, mentre da  poco si sono conclusi gli attacchi mattutini della Nato contro “obiettivi militari serbi”, è, forse, il peggiore che all’Europa si sia prospettato dalla fine della seconda guerra mondiale. Difficile negarlo, e quando per strada respiri l’aria di una tensione malcelata, di vecchi che non vogliono rivivere ciò che è (per loro) già passato, e di giovani che non vogliono vivere ciò che non è (per loro) nemmeno lontanamente  da annoverarsi tra le possibilità del futuro, allora è impossibile negare la realtà, brutale come si mostra, oggi 24 marzo 1999, nemmeno otto mesi prima del Giubileo. La battaglia del Cossovo sarà una cicatrice per l’Europa, e se l’Iddio non illuminerà qualche diplomatico di buona coscienza, difficilmente risanerà resto. Serbi e albanesi si giocano, in quella piccola regione divenuta, per forza di cose, una spina nel fianco della Comunità Europea e mondiale, la loro storia, la loro stessa essenza di popolo. Hanno in comune soltanto una data: il XIV secolo dopo Cristo. Poi, nient’altro. Solo contrapposizioni: due imperi, quello serbo di Stefano IX Dusan, che nel 1354 aveva inglobato la Macedonia, l’Albania e l’Epiro, e l’impero ottomano, che a quella data (ancora una data in comune) aveva conquistato le città bizantine di Brussa e Nicea, espulso i bizantini dall’Asia Minore e conquistato Gallipoli, al di là dello stretto dei Dardanelli. Due imperi, due espansioni che dovevano scontrarsi, prima o poi. Due religioni già in contrasto, per via delle città ortodosse cadute in mano “nemica”. E’ il 28 giugno 1389, località “piano dei merli”, quando i serbi subiscono quella dura sconfitta che, ancora oggi, viene menzionata da chi comanda in Serbia, da chi scrive in serbo, da chi, la vita quotidiana, la vive in quella terra a cui guardano, col cuore in mano, in queste ore tutte le nazioni del mondo.
Poi, sembra che il tempo si sia fermato allora. Soltanto la rabbia per una cuocente sconfitta, l’amarezza per la perdita di tante conquiste e della propria indipendenza. Una sola speranza: potersi riprendere, al più presto, quanto più possibile. L’impero Ottomano, però, vive a lungo, molto a lungo: mezzo millennio e più. Sarà il primo decennio del novecento a ridare ai serbi la propria libertà e quella terra “maledetta”, dopo lo smembramento dell’impero ottomano dovuto alla sconfitta degli imperi centrali nel primo conflitto bellico. Nascerà allora lo stato di Jugoslavia. Quando morirà, tra gli eccidi che conosciamo tutti, la “terra maledetta” sarà privata di quello statuto speciale che, per anni e anni, aveva accontentato un po’ tutti. Da quel momento, è il 1989, i vecchi odio e rancori risorgeranno, spettri malefici di questa Europa del duemila, che ha cercato (non si sa , però, quanto ci abbia creduto) di ripianare i contrasti a Rambouillet, da cui il famoso trattato: disarmo dell’UCK, l’esercito di liberazione dei cossovari, e rinuncia di questi all’indipendenza, in cambia di una ampia autonomia. Il trattato, a dire il vero, già veniva tardi, almeno per quei poveri disgraziati messi a un metro e mezzo di profondità, in tombe comuni, dalla polizia speciale serba, che Slobodan Milosevic, padre padrone e artefice della “rinascita serba”, ha sguinzagliato a caccia di ribelli, poi resistenze, prima da parte albanese, alle quali sono seguite quelle di parte serba. Infine, il rifiuto di Milosevic ad accogliere sul proprio territorio un contingente di “interposizione” Nato, che facesse rispettare la pace. Il resto, non è necessario ricordarlo. Gli aerei che decollano e quella cartina geografica, che mostra il deposito di quei missili, che gli aerei non hanno più, quando ritornano alla base, così vicino all’Italia e così addentrato nel seno dell’Europa, sono immagini che non si possono dimenticare.
Una domanda si fa largo, però, in queste ore tra la popolazione mondiale: era indispensabile arrivare a tanto? Non si può rispondere con esattezza, ogni opinione potrà divenire disumana in futuro, quando molti saranno i particolari divulgati sui negoziati e sulla guerra di questi giorni. Meglio non esprimersi. Non si può, però, non chiedersi se paghi di più l’indifferenza di un bieco pacifismo da baraccone, ideologizzato come se ancora certi “muri” fossero in piedi, o atti estremi, che devono, tuttavia, rientrare. Ferma deve rimanere, a detta di colui che scrive, l’intenzione di ridare fiato e, ancor  più, voce alla diplomazia, alla politica, come non bisogna farsi illusioni: chi rischia soldi, mezzi e uomini, non lo fa certo per amore caritatevole. Però, ci sono soglie di tollerabilità che non possono essere oltrepassate, non può chiudersi a riccio, pensando a un futuro lontano, mentre migliaia di diseredati rischiano la vita. Si calcola che duecentocinquanta mila siano i profughi cossovari cacciati dai loro villaggi e che, in questi giorni, vivono di stenti nei boschi di quella terra martoriata a sud della Serbia.
Siamo in guerra, piaccia o no. Ma rimangono grosse sacche di speranza, dove il rancore e l’odio non è riuscito ancora ad entrare. Il fatto che la Serbia, in queste ore, interpreti il nostro ruolo come semplicemente difensivo, da un lato, e di formale rispetto dell’Alleanza Atlantica (ricordiamo che aerei italiani non sono stati ancora utilizzati nei combattimenti) dall’altro, e lo dimostra il fatto che le relazioni diplomatiche con noi non sono state rotte,  è un’occasione per la nostra diplomazia e, in generale, per le sorti dell’Europa che la nostra Patria non può farsi sfuggire. La nostra nazione può rappresentare un’ottima porta dalla quale far uscire i fantasmi del passato. Bisogna provarci e abbozzare un accordo, che sia, come a detto il Santo Pontefice, “rispettoso della storia” e della dignità di ogni belligerante.
Non sarà facile, ma abbiamo il dovere morale di tentare. Senza pregiudizio, ma nel rispetto della dignità umana.

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