"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

17 ottobre 2012

Incapaci del reale?




Si tratta di un testo composto a commento di una rivista letteraria, stampata a Catania e diffusa da giovani studenti della facoltà di Lettere. Correva l’anno 2002, e il documento porta la data del 28 maggio.
Corretto solo per alcuni errori, mi piace riproporlo, ma vi va aggiunto un commento veloce. In un articolo di apertura, un redattore, A.S., affermava che la poesia dei nostri tempi è figlia più di un certo surrealismo, che non già del realismo classico. Se avessi avuto allora la conoscenza del pensiero di Del Noce, non mi sarei sorpreso così tanto che intellettuali sedicenti di sinistra si dessero così alla ‘deviazionismo’ borghese. Rimane il problema, da me come da A.S. non risolto, di che cosa si intenda per realtà. la pedissequa descrizione di ciò che accade è realtà? Non credo. La realtà a cui tende l’arte, e in modo sublime la poesia, è una realtà più profonda, il senso ultimo di ogni fenomeno.
Giusta questa veloce definizione, Baudelaire non è meno realista di Celine, e questi non è realista per come scrive e per ciò che descrive, ma per quello a cui tende.

Il titolo è stato apposto in questa versione.

Siamo più figli di Poe e Baudelaire che non dì Pavese o Celine: questo, in definitiva, la diagnosi tracciata da Sparatore, che mi vede concorde – anche nel richiedere  un maggiore contributo da parte di altri “stili” o modalità di espressione.
Credo ciò non sia un problema: le riviste, quando sono vere e non confezionate ad arte, fanno emergere, seppur velatamente, il comune sentire in merito alla “composizione”, alla tecnica attraverso la quale l’uomo diviene artefice di un qualcosa. L’uso di una o di un’altra tecnica, dunque, non è un problema, ma lo è, per fini conoscitivi, il perché ne venga preferita una ad un’altra: è il fenomeno che emerge, ma se seguito nella sua scia, ci potrebbe portare a capire i pensieri, le letture e perfino le speranze e i costumi della nostra generazione, evitando, al tempo stesso, gli sterili contenitori generali.
Quanti, leggendo il nome di Poe o di Baudelaire, non sono tornati agli anni del liceo quando, magari durante le interrogazioni (altrui!), o la sera, con una musica di sottofondo, leggevano quei versi o quei racconti, così lontani, così distinti da quanto lo studio curriculare offriva? L’uomo non è ciò che mangia, ma scrive secondo ciò che legge.
Potrebbe esserci una spiegazione non “educativa” – diciamo così, ma storica: l’Occidente decadente è la terra che ha visto tramontare la Parola. La Parola tramonta, lì dove si viene deposto il suo senso:  e che senso potrebbe mai avere, se l’uomo ha chiuso se stesso un in bieco scetticismo? Un’analisi di un qualsiasi discorso, al di là di chi ne fosse il soggetto, farebbe emergere una sequenza di “secondo me”  quasi infinita, segno tangibile di come ormai l’uomo occidentale si sia chiuso in un’autarchia ridicola, come sia diventato un ufficio postale senza dogana.
Ragioni più empiriche, più soggettive non sono da escludere: e se fosse pure colpa di un male profondo, di questo chiuderci in  noi stessi, di questa paura del confronto, del dialogo, chiusi nelle nostre paure, nelle nostre insicurezze? Se la malattia, più che essere di tutto l’Occidente,  fosse innanzitutto un morbo che ha attaccato tutti noi, che temiamo il mondo perché, ormai, se siamo liberi di realizzarci – anche socialmente, tuttavia vediamo a quali repentini crolli si sia soggetti, e temendolo, lo rigettiamo completamente?
Forse Sparatore ha colto nel segno  quando, senza tanta retorica, scrive che “i giovani non hanno più la tecnica o l’immaginazione per raccontare la realtà così come la vedono”, ma anche lui, in fin dei conti, propone più risposte, senza dimostrare propensione alcuna per una specifica. Che dire? Ciascuno dica la sua. Io sono tra i realisti – magari mal riusciti, ma non riesco a staccarmi dalla realtà, perché altrimenti non saprei giustificare alla mia coscienza come un terzo possa sapere gli intimi pensieri del protagonista, tranne attraverso certe “trovate”, che non ho ancora sperimentato. 
Concludo, facendo notare come si sia davvero lontani - grazie a Dio - dagli schematismi di metà secolo: oggi essere surrealisti o realisti non ha altra connotazione che quella artistica.

Antonio Giovanni Pesce


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