"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

29 ottobre 2012

L'Europa di Nizza

Era l'8 gennaio del 2001, quando scrissi questo articolo. Tanto per ricordarci come siamo giunti alla situazione attuale. 


Nizza non ha risollevato le sorti dell’Europa: moriremo forse azionisti di questa patria, piuttosto che suoi cittadini? Per ora sappiamo soltanto che ci tocca usarne il denaro, parlare l’unica lingua che il mondo economico europeo conosca, quella dell’Euro, e tacere per il resto. Nessun battaglione sarà chiamato “forze armate europee”, né, tanto meno, si è voluto dare soluzione ai vari intoppi politici, ai quali una così disomogenea struttura da luogo. Soldi. Di soldi si è parlato a Nizza, e tutti sappiamo come i soldi siano valori deboli, ai quali ci si aggrappa quando non si ha di meglio da offrire. Soldi, dicevamo. Non speranze comuni alle quali guardare tutti insieme, non prospettive, seppur vaghe, di un futuro che ci attende, né, ancora, linee politiche da seguire per lasciare in eredità, alle future generazioni, quanto meno l’incombenza morale di sbrigarsela loro, la faccenda dell’unione politica: niente di tutto questo. Soldi e, quel che è peggio, bieca “amoralità” globale.
Ci avevano pensato lo scarso anno, i Signori dell’Euro, ha dimostrare quanto melensa fosse l’ideologia con la quale imbevono i loro discorsi, quanto superficiale fossero le loro analisi, quanto discutibili le loro scelte morali. Erano i primi mesi dell’anno 2000, quando quattordici paesi dell’Unione si scagliarono contro i risultati elettorali austriaci: andava al potere il partito liberalnazionale di Haider, accusato di antisemitismo e razzismo. Chi è Jorg Haider, tra l’altro governatore della Carinzia, credo sia noto ai più, tante sono state infatti le polemiche per una sua visita, di recente, nella capitale, con lo scopo di consegnare l’abete natalizio al papa. Giorni di guerriglia, per i giornalisti, che facevano ressa per accaparrassi una battuta del politico austriaco, ogni qualvolta questi metteva il naso fuori dal suo albergo, e ressa per i poliziotti, che hanno dovuto arginare la solita “manifestazione pacifica” dei centri sociali, ma che non hanno sconvolto un pontefice, che ha incontrato veri e propri criminali, non per ultimo il dittatore cubano Castro. Il colonnato di piazza San Pietro, ideato dal Bernini, del resto, è tutto un programma: abbraccia l’umanità, quell’umanità che aspetta di essere redenta, le pecorelle smarrite, non quelle ancora nel gregge. Quello che magari è poco noto, o sul quale magari non si riflette abbastanza, è che Haider sarà pure un uomo dalle idee “poco rassicuranti”, ma non meno di quanto lo siano quello che molti uomini politici europei, cominciando dal presidente francese Chirac, tengono chiuse nell’armadio. L’Europa, piaccia ammetterlo o no, nasce sulle macerie di due conflitti, che hanno diviso enormemente le coscienze dei suoi cittadini. Piaccia o no, per quarant’anni siamo stati al di qua della cortina, ma portando in noi i semi del nemico, cercando di estirpare la gramigna in pubblico, e coltivandola per meri accordi di convenienza nell’intimità delle urne. Ogni cittadino europeo, se cittadino lo si possa definire, ha scommesso un poco di se stesso, ogni uomo politico europeo ha avuto idee e ha patteggiato in varie epoche: parlare di Haider e delle sue colpe intellettuali, è come parlare un poco di tutti noi. Chiedere ad Haider di pulire il suo armadio, facendosi magari da parte, è come chiedere a tre quarti del mondo politico del vecchio continente di andare in pensione, e quel che è peggio è che questo non ce lo possiamo permettere. Dall’Italia alla Francia, dalla Spagna alla Germania il passato va facendo le sue scorribande inattuali, e ricordargli i suoi doveri nei nostri confronti, nei confronti della buona coscienza che abbiamo, se non maturato, quanto meno tentato di radicare in noi non serve: il novecento non è stato il secolo dell’odio, come lo ha definito un noto giornalista italiano, ma un periodo controverso della storia dell’umanità, come, bisogna ammetterlo, lo è ogni epoca vista con gli occhi di chi l’ha vissuta.
Ben vengano gli spettri del passato, se servono a farci ricordare i nostri peccati, a migliorare il nostro oggi, se ci spronano a fare sempre il possibile perché un errore d’un giorno non diventi l’abitudine di una vita. Ben venga la presenza di Haider, se essa non diventi il paravento, dietro il quale nascondere il fallimento dell’attuale condizione politica non solo europea, ma mondiale addirittura. A che pro emarginare Haider, quando il voto di contestazione, l’affermarsi di certe idee ritenute – a torto o ragione non importa, non si sta parlando di questo – pericolose è all’ordine del giorno? Questo è il quesito al quale porre una risposta: perché riemerge il nostro passato, proprio quando si ritiene di costruire un futuro migliore? proprio quando si ritiene di costruire una vera democrazia, un mondo più giusto? Haider soltanto è il pericolo? Il palazzo parla ormai una lingua sconosciuta alle popolazione di quasi mezzo mondo: si pensa che parlando, parlando, parlando, la gente comincerà a ragionare nei termini in cui le cose vengono poste dai governatori. Non è così, non è mai stato così: la gente non è mai stata divisa in destra e sinistra, e non lo è tanto meno ora. Il parlare aggrega se ha qualcosa da dire, è come un buon olio su un piatto delicato, ma nausea, se pensa di coprire col suo gusto i cibi che dovrebbe, invece, esaltare. Ce lo dicono nella pubblicità, e lo diceva un poeta tedesco: “parla, parla, parla-mento”. Un verso solo, ma che esprime bene quanto avrei potuto scrivere in intere pagine.
La distanza tra istituzioni e cittadini non può essere coperta facendo del “lassismo morale” il cemento delle coscienze: non reggerebbe e, per giunta, creerebbe l’illusione di una falsa unità. Non è questo che ci serve, non è così che paesi fino a mezzo secolo fa in conflitto fra loro, debbano ritrovarsi sotto un tetto comune. Nizza, la città nella quale avrebbero dovuto prendere forma le prime regole politiche dell’Unione, rappresenta l’ennesimo fallimento della miopia culturale, nella quale, come i porci nella melma, si rotolano ogni dì i naviganti allo sbaraglio del secolo ormai trascorso. Sono una ingombrante eredità, ma dobbiamo tenerceli, anche perché, ormai, a dominare le riflessioni meta-politiche, quelle scelte somme di principi e valori che stanno alla base di ogni azione politica, non sono più i singoli cervelli dei singoli rappresentanti: non molto, ma forse si poteva sperare qualcosa. No, a dominare sono i miti sociali, luoghi comuni ai quali tutti devono conformarsi, pure quando l’allineamento è inconcludente o, addirittura, dannoso. E i miti sociali di Nizza sono, oltremodo, stomachevoli.
Di cosa si è parlato? E’ diventata una moda, quello di dire alla Chiesa cattolica come debba o non debba comportarsi. E’ una moda nata proprio in Italia, il paese storicamente più anticlericale tra quelli cattolici, e che il Giubileo ha evidenziato… pardon, acuito, perché si tratta di una mania vera e propria. In Italia. Come a Nizza. Essere eterosessuale non è più il modo di essere che la natura sancisce, o il principio fondante della specie vivente (dagli animali alle persone), bensì “uno stile di vita” che andrebbe, secondo lo “stile” dei signori di Nizza, eguagliato a quello omosessuale. Ora: sappiamo bene che non tocca solo alla Chiesa di Roma esprimersi sulla condotta morale, che altre istituzione possono farlo e, ahinoi, agire in direzione della realizzazione delle proprie convinzioni. Ma equiparare, in un senso politico-stretto, che vuol dire? Vuol dire che è il pericolo l’ordinamento delle scuole cattoliche. Altro non serve aggiungere. In un senso politico-ampio, invece, la cosa si complica ulteriormente. Equiparare significa mettere sullo stesso piano, far entrare in un ambito, in un dominio, in un consorzio qualcosa. C’è da chiedersi se sia lecito farlo per “legge”, se sia lecito sancire qualcosa il cui senso politico richiama il senso epocale delle grandi scelte dell’umanità: c’è differenza, crediamo!, fra questo e il decidere se sia opportuno far pagare l’ICI o l’acqua reflue. Con quale autorità hanno detto, i Signori di Nizza, tutto ciò? Noi possiamo dire con quale autorità ci opponiamo: è tautologico riferirsi alla Bibbia? al Vangelo? Perché? perché non tutti i dialoganti provengono dalla tradizione cattolica? E parlare in nome della tradizione occidentale, quella più laica e razionalistica, che affonda le sue radici nell’antica Atena e Roma, è un punto di vista condivisibile? A quale tradizione culturale appartengono i capitani dell’industria Euro, a chi devono la formazione dei concetti che loro hanno in mente ( e che usano così male)? Novalis scriveva  Christenheit, oder Europe: il Cristianesimo, ovvero l’Europa. Aveva le sue buone ragioni, troppo estese per poterle esprimere qui e adesso. Ma Platone e Aristotele erano forse cristiani? E i romani, lo erano? Un presente povero di legittimazione, chiede sempre un prestito al passato, e in questo caso non valgono le leggi antiusura, i tassi di interesse sono davvero elevati.
Così, greci e romani se la spassavano con maschi e femmine, e questo nessuno potrebbe negarlo. La depravazione è sempre esistita. Ciò che non è mai esistito, soprattutto in Grecia e a Roma, è stata l’accondiscendenza irrazionale per finalità elettorali, sia perché il consenso popolare era numericamente meno ampio e importante, sia perché non si sovrapponevano i piani dell’eticità dello stato e delle passioni dei singoli: non discriminare non significa necessariamente equiparare, e ogni persona non può muoversi nella selva delle relazioni intersoggettive facendo leva su un superato concetto di relativismo etico. Razionalmente, una famiglia composta da un uomo e una donna offre allo Stato garanzie ben diverse di una coppia omosessuale, oppure eterosessuale, ma con un piede fuori e uno dentro. Alla progettualità, di cui si fa portatrice una famiglia banalmente denominata “convenzionale” ( come se di “famiglia” ne esistesse qualche altro tipo), non si può assolutamente rinunciare, perché significherebbe distruggere l’impalcatura stessa di ogni istituzione umana.
Questo non significa discriminare gli omosessuali: in fin dei conti, lo Stato, anche per cose meno importanti (concessioni edilizie, appalti, et cetera), concede solo “a condizione” che vengano rispettati determinati parametri. Reggere lo Stato non mi pare meno importante che reggere la struttura urbanistica di una città. Almeno… come si dice in questi casi?… dal mio punto di vista.

1 commento:

Anonimo ha detto...

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