"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

9 ottobre 2012

Kierkegaard e le ragioni di Abramo.

Sacchi, Dario, Le ragioni di Abramo. Kierkegaard e la paradossalità del logos

Milano, Franco Angeli, 2011, pp. 144, euro 19, ISBN 9788856841794 

 
Una storia della filosofia dei nostri tempi non potrebbe tralasciare Dario Sacchi, teoreta finissimo, che in quest’opera si confronta con Kierkegaard, avendo già dato saggio del suo pensiero in opere come Libertà e infinito (2002) e Lineamenti di una metafisica di trascendenza (2007). E come in queste, in Le ragioni di Abramo Sacchi non lusinga il suo lettore: non sono libri facili i suoi, perché sono libri scritti da un filosofo per filosofi, e non già per turisti del pensiero.

E i problemi, quando sono davvero tali, non vanno smussati, ma affrontati e vinti (o, almeno, lo si spera).

Il percorso descritto dal filosofo milanese è davvero impegnativo: innanzi tutto, dimostrare che il pensiero kierkegaardiano non cede alla facilità dell’irrazionalismo. Si tratta, semmai, di appropriarsi degli strumenti giusti, per sceverare quell’abisso di senso che i suoi scritti celano. Una razionalità più ricca di quella ‘mostrata’ da una ragione che, come la luce artificiale, appiattisce senza dare profondità: la profondità che solo un corpo, col suo carico di individualità, può dare. 
Il primo capitolo è dedicato ad approfondire proprio questo aspetto, e Sacchi distingue sia il male che il tempo dal concetto di spazio: “eppure a dispetto di tutte queste dottrine, spiritualistiche o addirittura scopertamente idealistiche, e dei loro fittizi ancorché lontani antecedenti aristotelico-scolastici, la verità è che nell’estensione, e quindi nella corporeità, permane un quid positivo che è del tutto assente dallo spirito e che quest’ultimo non potrà mai, per dir così, digerire o assorbire – in termini più dotti, trasfigurare o trasvalutare – in maniera tale da farlo esistere eminenter dentro di sé, così come si dice che nell’animale esiste eminenter la vitalità del vegetale e che nell’uomo si ricapitola tutta la natura subumana” (p. 16).
Proprio questa conquista, che Sacchi sa leggere anche perché con il filosofo danese condivide l’evento dell’Incarnazione, apre a Kierkegaard la possibilità di un immanentismo che non chiude l’uomo nella virtualità di un’operazione mentale, e non gli preclude quella di una trascendenza che non neghi il mondo, vanificando di fatto il senso della Creazione. Dunque, il problema non è la dialettica in sé, ma quella hegeliana: vi è uno squilibrio tra corpo e anima – lo dice per sé lo stesso autore di Timore e Tremore -  con lo spirito che è la “coscienza, particolarmente lucida e vigile” che si ha di questa sproporzione. 
Ciò che io sono, quindi, è conquista, e non già ricordo, ed è per questo che lo spirito è “la seconda volta”, l’immediatezza riconquistata, “matura”. Così, Sacchi apre un capitolo molto denso sul senso della soggettività, che egli può affrontare senza naufragare nella sterile polemica, perché allievo di Bontadini, cioè di quel “metafisico radicato nel cuore del pensiero moderno”, che seppe capire l’attualismo gentiliano pur partendo da una formazione neoscolastica, tanto da sembrarne, a distanza ormai di più di un sessantennio da quell’incontro, l’interprete migliore. 
 “Ciò che sta a cuore al pensiero soggettivo – scrive Sacchi in un dialogo serrato con Kierkegaard che non è di natura squisitamente storiografica ma speculativa, pur poggiando, all’occorrenza, sulle più attendibili e recenti ricostruzioni filologiche – e che costituisce il suo interesse pratico è l’appropriazione o interiorizzazione che il soggetto deve effettuare di quel che pensa, ossia il significato e il valore che il soggetto deve conferire, in funzione del suo esistere, a ciò che crede di conoscere della realtà” (p. 39). 
La verità, allora, non è una cosa da sapere, ma il modo di essere più autentico, e che dà senso al nostro esistere: “la soggettività è la verità” dice Kierkegaard, ma dietro questa espressione non vi è alcun richiamo relativistico, anzi. Il problema più grave da affrontare, e allo stesso tempo meno intellettualistico, è la propria esistenza: capire chi si è significa diventare ciò che si è sempre stati, anche se in modo immediato. La nostra libertà è questo ritornare bambini, questo accettare il nostro essere. 
Socrate è stato colui che ha “saputo scorgere nella verità eterna qualcosa che si rapporta a un singolo soggetto esistente” (p. 43): che io sia non è questione che si possa derubricare fra le tante, perché dalla risposta ne vale, innanzi tutto, del mio stesso essere. Ecco perché, nel farmi la verità che ho da essere, sono tutto pervaso da “timore e tremore”: credere o non credere, capirsi o non capirsi – un filo sottile come lama distingue verità e inganno. Non abbiamo garanzie, ma proprio il non averne indica che la ricerca è condotta con passione e che il risultato è dettato dalla sincerità. Metodologicamente, significa inoltre non darsi alla quiete del conformismo, né sentirsi mai appagati da una verità che, se è tale, non potrà mai essere vissuta interamente. Solo Gesù fu verità vissuta nella interezza: vero Dio e vero uomo. 
Kierkegaard si sente un po’ il Socrate del cristianesimo, e tuttavia gli muove la critica di aver dato inizio anche ad un’altra via speculativa, quella della reminiscenza: la verità è celata in me, e deve solo riemergere. E riemergerà “nonostante me”; riemergerà nella Storia, “banco da macello” degli individui. Reminiscenza e speculazione hegeliana non tengono conto dell’esistente che specula: del singolo che è spirito, ma anche corpo. Non sappiamo se Kierkegaard (e con lui Sacchi) sarebbe d’accordo, ma l’uomo non è spirito e corpo, ma identità che si dà, solo analiticamente, come spirito e corpo. Questo io ha queste fattezze, ha questo volto, anzi: è questo volto. Perfino l’estremo limite dell’io, la morte, non può essere superato senza portarsi dietro anche questa immagine che abbiamo di noi stessi. Non siamo spirito, ma neppure cadavere. Siamo noi, e il corpo è sempre quello degli altri quando è cadavere: prima, non c’è lo spirito dell’altro e il suo corpo, ma c’è l’altro nella sua interezza (e ogni altra analisi dell’uomo ha condotto agli aberranti esperimenti antropologici che stanno portando l’umanità a spegnersi).  
Si capisce perché sia Socrate che Kierkegaard si appellino al ‘singolo’, e non è uno scadere nel solipsismo, perché qui non c’è indifferenza per l’altro, ma la presa in carico di se stessi, del proprio essere: non un caso che sia proprio il peccato a isolare, come insegnano i grandi romanzi di Dostoevskij, perché “il mio peccato non riguarda nessun altro uomo fuori di me” (p. 63). E non è frutto di ignoranza, come lo stesso Socrate credeva, bensì del disconoscimento, attraverso un atto libero, di ciò che, invece, si deve essere perché si sia quello che già si è. In un passo del Diario, al quale Sacchi dà molto spazio e con buone ragioni, possiamo leggere: “c’è qualcosa rispetto alla quale non si deve scegliere, e secondo il cui concetto non ci può essere questione di scelta e che pure è una scelta”. Scegliere se stessi in modo assoluto non è crearsi alla maniera sartriana, ma scegliersi in quanto orizzonte in cui finito e infinito si toccano, l’istante in cui ci si rapporta con Dio, avendone da questo incontro non già la svalutazione di se stessi (un perdersi in un vago misticismo) o quella del mondo, ma la conquista più salda, dialettica (nel senso kierkegaardiano di mediata) del proprio io – un io, a questo punto, fondato nel suo essere stesso. 
L’angoscia è questo presentimento di poter acquisire un’esistenza che ancora non si riesce a concepire. È l’essere che trasborda l’angustia dello spirito, e lo spirito soffre così “le doglie del parto”. In questo immenso mare di possibilità naviga la piccola navicella umana, e Sartre coglie il nesso tra l’angoscia per la libertà in Kierkegaard e quella per il nulla in Heidegger. Sacchi dedica pagine profonde alla lettura che l’autore di Essere e tempo fa del filosofo danese, riassumibile nell’accusa di essere rimasto legato a posizioni d’indagine pre-filosofica: insomma, un’analisi esistentiva più che esistenziale. “Dal punto di vista heideggeriano questo significa che, qualunque cosa egli possa fare, Kierkegaard non fa fenomenologia e non mira a scoprire le universali strutture ontologiche, gli ‘esistenziali’, come li chiama Heidegger, dell’esistenza umana” (p. 95). Ma questa universalità, che omologa il vissuto di ciascuno, non cade forse sotto la stessa critica che Kierkegaard rivolge ad Hegel? Questi ha ridotto l’uomo ad animale, perché degli animali è più importante il genere che non l’individualità. Ma l’uomo in che modo è l’Uomo? e il mio vissuto in che modo si fa storia conciliandosi con quello di altri miliardi di esseri? 
Sacchi mostra le analogie tra la critica che muove Kierkegaard e quella di  F.A. Trendelenburg (1802-72), ma l’obiezione si fa ancor più interessante quando se ne vedono anche le sfumature antropologiche e politiche. Il sistema hegeliano, allora, diventa l’emblema di un moderno ridotto a ‘buon senso’, a fariseismo, anticipando temi che, pur nella differenza dello scopo, saranno ripresi da Nietzsche: il “dio nato morto” di Ritschl, di Hermann, di von Harnack e di Troeltsch (cfr. Mark Lilla, Il Dio nato morto. Religione, politica e occidente moderno, Baldini Castoldi Dalai editore, Milano 2009), di quel “protestantesimo culturale” di fine ‘800, che poi scriverà i discorsi del kaiser Guglielmo II e che pian piano andrà in disfacimento come i Buddenbrook di Mann. 
Kierkegaard, però, a Hegel non si oppone solamente: c’è una certa “aria di famiglia”, per dirla con Wittgenstein, perché “esistere è, in generale, divenire; l’esistenza è per ciò stesso dialettica, unione e disunione di finito e infinito, contatto fra i due che è al tempo stesso conflitto” (p. 112). Questione non nuova nel nostro panorama filosofico, e vissuta sullo sfondo di una tragedia più grande (il secondo conflitto mondiale). Nel 1943, sulle pagine di “Primato”, Gentile dovette difendere il suo attualismo e, con esso, la specificità della cultura nazionale, dall’esistenzialismo che faceva capolino grazie a giovani studiosi. La polemica sarebbe troppo lunga da trattare in questo luogo (cfr. G. Invitto, La presenza di Giovanni Gentile nel dibattito sull'esistenzialismo italiano, “Idee”, n. 28-29, 1995, pp. 175-184), ma anche allora il problema fu sull’esistente: poteva la logica hegeliana, e quella sua particolare riforma che è l’attualismo, dare conto, senza annientarlo, del ‘singolo’? 
La fede è ben altro che l’infinità rassegnazione: questi i termini della questione nel linguaggio del filosofo danese. E se la rassegnazione abbandona il mondo al suo destino di nullità, la fede lo trasmuta e fa emergere il suo vero valore, perché è nella fede che il particolare, in quanto tale, sta in rapporto con l’infinito. Scrive Sacchi: “l’ ‘infinità rassegnazione’ è negazione, la fede vera e propria è affermazione di ciò che prima è stato negato” (p. 125). E Abramo non nega il mondo né è rassegnato a perdere Isacco: egli sa che non perderà nulla, perché ciò che è impossibile all’uomo è possibile in Dio: “rinunciando in nome dell’eterno al temporale il credente ritrova il temporale come dono dell’eterno” (ibid.). Il mondo non è portatore di valore: al mondo bisogna dare valore, e il singolo, per dirla con una metafora, è quel luogo in cui si pesa il mondo con l’unità di misura dell’eterno. 
“Ma se – conclude Sacchi – torniamo a domandarci a quali condizioni possa darsi qualcosa che, non rientrando nei parametri né della filosofia greca né di quella hegeliana, si presenta effettivamente come un assurdo e per l’una e per l’altra, non potremo rispondere se non appellandoci a quella originarietà o intrascendibilità dello spazio (essenzialmente ignota ad entrambe le tradizioni di pensiero suddette) che abbiamo cercato di mettere in luce dall’inizio del presente studio e che si trasmette a, o si riverbera su, ogni individualità nella sua determinissima concretezza. Ecco allora quelle che, nonostante tutto, sono le ‘ragioni’ dell’assurda scelta di Abramo” (p. 130). 


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