Sacchi, Dario, Le ragioni di Abramo. Kierkegaard e la paradossalità del logos
Una storia della
filosofia dei nostri tempi non potrebbe tralasciare Dario Sacchi,
teoreta finissimo, che in quest’opera si confronta con Kierkegaard,
avendo già dato saggio del suo pensiero in opere come Libertà e infinito
(2002) e Lineamenti di una metafisica di trascendenza (2007). E come in
queste, in Le ragioni di Abramo Sacchi non lusinga il suo lettore: non
sono libri facili i suoi, perché sono libri scritti da un filosofo per
filosofi, e non già per turisti del pensiero.
E i problemi, quando sono davvero tali, non vanno smussati, ma affrontati e vinti (o, almeno, lo si spera).
Il percorso descritto dal filosofo milanese è davvero impegnativo: innanzi tutto, dimostrare che il pensiero kierkegaardiano non cede alla facilità dell’irrazionalismo. Si tratta, semmai, di appropriarsi degli strumenti giusti, per sceverare quell’abisso di senso che i suoi scritti celano. Una razionalità più ricca di quella ‘mostrata’ da una ragione che, come la luce artificiale, appiattisce senza dare profondità: la profondità che solo un corpo, col suo carico di individualità, può dare.
E i problemi, quando sono davvero tali, non vanno smussati, ma affrontati e vinti (o, almeno, lo si spera).
Il percorso descritto dal filosofo milanese è davvero impegnativo: innanzi tutto, dimostrare che il pensiero kierkegaardiano non cede alla facilità dell’irrazionalismo. Si tratta, semmai, di appropriarsi degli strumenti giusti, per sceverare quell’abisso di senso che i suoi scritti celano. Una razionalità più ricca di quella ‘mostrata’ da una ragione che, come la luce artificiale, appiattisce senza dare profondità: la profondità che solo un corpo, col suo carico di individualità, può dare.
Il primo capitolo è
dedicato ad approfondire proprio questo aspetto, e Sacchi distingue sia
il male che il tempo dal concetto di spazio: “eppure a dispetto di tutte
queste dottrine, spiritualistiche o addirittura scopertamente
idealistiche, e dei loro fittizi ancorché lontani antecedenti
aristotelico-scolastici, la verità è che nell’estensione, e quindi nella
corporeità, permane un quid positivo che è del tutto assente dallo
spirito e che quest’ultimo non potrà mai, per dir così, digerire o
assorbire – in termini più dotti, trasfigurare o trasvalutare – in
maniera tale da farlo esistere eminenter dentro di sé, così come si dice
che nell’animale esiste eminenter la vitalità del vegetale e che
nell’uomo si ricapitola tutta la natura subumana” (p. 16).
Proprio questa
conquista, che Sacchi sa leggere anche perché con il filosofo danese
condivide l’evento dell’Incarnazione, apre a Kierkegaard la possibilità
di un immanentismo che non chiude l’uomo nella virtualità di
un’operazione mentale, e non gli preclude quella di una trascendenza che
non neghi il mondo, vanificando di fatto il senso della Creazione.
Dunque, il problema non è la dialettica in sé, ma quella hegeliana: vi è
uno squilibrio tra corpo e anima – lo dice per sé lo stesso autore di
Timore e Tremore - con lo spirito che è la “coscienza, particolarmente
lucida e vigile” che si ha di questa sproporzione.
Ciò che io sono, quindi,
è conquista, e non già ricordo, ed è per questo che lo spirito è “la
seconda volta”, l’immediatezza riconquistata, “matura”. Così, Sacchi
apre un capitolo molto denso sul senso della soggettività, che egli può
affrontare senza naufragare nella sterile polemica, perché allievo di
Bontadini, cioè di quel “metafisico radicato nel cuore del pensiero
moderno”, che seppe capire l’attualismo gentiliano pur partendo da una
formazione neoscolastica, tanto da sembrarne, a distanza ormai di più di
un sessantennio da quell’incontro, l’interprete migliore.
“Ciò che sta a cuore al
pensiero soggettivo – scrive Sacchi in un dialogo serrato con
Kierkegaard che non è di natura squisitamente storiografica ma
speculativa, pur poggiando, all’occorrenza, sulle più attendibili e
recenti ricostruzioni filologiche – e che costituisce il suo interesse
pratico è l’appropriazione o interiorizzazione che il soggetto deve
effettuare di quel che pensa, ossia il significato e il valore che il
soggetto deve conferire, in funzione del suo esistere, a ciò che crede
di conoscere della realtà” (p. 39).
La verità, allora, non è
una cosa da sapere, ma il modo di essere più autentico, e che dà senso
al nostro esistere: “la soggettività è la verità” dice Kierkegaard, ma
dietro questa espressione non vi è alcun richiamo relativistico, anzi.
Il problema più grave da affrontare, e allo stesso tempo meno
intellettualistico, è la propria esistenza: capire chi si è significa
diventare ciò che si è sempre stati, anche se in modo immediato. La
nostra libertà è questo ritornare bambini, questo accettare il nostro
essere.
Socrate è stato colui
che ha “saputo scorgere nella verità eterna qualcosa che si rapporta a
un singolo soggetto esistente” (p. 43): che io sia non è questione che
si possa derubricare fra le tante, perché dalla risposta ne vale,
innanzi tutto, del mio stesso essere. Ecco perché, nel farmi la verità
che ho da essere, sono tutto pervaso da “timore e tremore”: credere o
non credere, capirsi o non capirsi – un filo sottile come lama distingue
verità e inganno. Non abbiamo garanzie, ma proprio il non averne indica
che la ricerca è condotta con passione e che il risultato è dettato
dalla sincerità. Metodologicamente, significa inoltre non darsi alla
quiete del conformismo, né sentirsi mai appagati da una verità che, se è
tale, non potrà mai essere vissuta interamente. Solo Gesù fu verità
vissuta nella interezza: vero Dio e vero uomo.
Kierkegaard si sente un
po’ il Socrate del cristianesimo, e tuttavia gli muove la critica di
aver dato inizio anche ad un’altra via speculativa, quella della
reminiscenza: la verità è celata in me, e deve solo riemergere. E
riemergerà “nonostante me”; riemergerà nella Storia, “banco da macello”
degli individui. Reminiscenza e speculazione hegeliana non tengono conto
dell’esistente che specula: del singolo che è spirito, ma anche corpo.
Non sappiamo se Kierkegaard (e con lui Sacchi) sarebbe d’accordo, ma
l’uomo non è spirito e corpo, ma identità che si dà, solo
analiticamente, come spirito e corpo. Questo io ha queste fattezze, ha
questo volto, anzi: è questo volto. Perfino l’estremo limite dell’io, la
morte, non può essere superato senza portarsi dietro anche questa
immagine che abbiamo di noi stessi. Non siamo spirito, ma neppure
cadavere. Siamo noi, e il corpo è sempre quello degli altri quando è
cadavere: prima, non c’è lo spirito dell’altro e il suo corpo, ma c’è
l’altro nella sua interezza (e ogni altra analisi dell’uomo ha condotto
agli aberranti esperimenti antropologici che stanno portando l’umanità a
spegnersi).
Si capisce perché sia
Socrate che Kierkegaard si appellino al ‘singolo’, e non è uno scadere
nel solipsismo, perché qui non c’è indifferenza per l’altro, ma la presa
in carico di se stessi, del proprio essere: non un caso che sia proprio
il peccato a isolare, come insegnano i grandi romanzi di Dostoevskij,
perché “il mio peccato non riguarda nessun altro uomo fuori di me” (p.
63). E non è frutto di ignoranza, come lo stesso Socrate credeva, bensì
del disconoscimento, attraverso un atto libero, di ciò che, invece, si
deve essere perché si sia quello che già si è. In un passo del Diario,
al quale Sacchi dà molto spazio e con buone ragioni, possiamo leggere:
“c’è qualcosa rispetto alla quale non si deve scegliere, e secondo il
cui concetto non ci può essere questione di scelta e che pure è una
scelta”. Scegliere se stessi in modo assoluto non è crearsi alla maniera
sartriana, ma scegliersi in quanto orizzonte in cui finito e infinito
si toccano, l’istante in cui ci si rapporta con Dio, avendone da questo
incontro non già la svalutazione di se stessi (un perdersi in un vago
misticismo) o quella del mondo, ma la conquista più salda, dialettica
(nel senso kierkegaardiano di mediata) del proprio io – un io, a questo
punto, fondato nel suo essere stesso.
L’angoscia è questo
presentimento di poter acquisire un’esistenza che ancora non si riesce a
concepire. È l’essere che trasborda l’angustia dello spirito, e lo
spirito soffre così “le doglie del parto”. In questo immenso mare di
possibilità naviga la piccola navicella umana, e Sartre coglie il nesso
tra l’angoscia per la libertà in Kierkegaard e quella per il nulla in
Heidegger. Sacchi dedica pagine profonde alla lettura che l’autore di
Essere e tempo fa del filosofo danese, riassumibile nell’accusa di
essere rimasto legato a posizioni d’indagine pre-filosofica: insomma,
un’analisi esistentiva più che esistenziale. “Dal punto di vista
heideggeriano questo significa che, qualunque cosa egli possa fare,
Kierkegaard non fa fenomenologia e non mira a scoprire le universali
strutture ontologiche, gli ‘esistenziali’, come li chiama Heidegger,
dell’esistenza umana” (p. 95). Ma questa universalità, che omologa il
vissuto di ciascuno, non cade forse sotto la stessa critica che
Kierkegaard rivolge ad Hegel? Questi ha ridotto l’uomo ad animale,
perché degli animali è più importante il genere che non l’individualità.
Ma l’uomo in che modo è l’Uomo? e il mio vissuto in che modo si fa
storia conciliandosi con quello di altri miliardi di esseri?
Sacchi mostra le
analogie tra la critica che muove Kierkegaard e quella di F.A.
Trendelenburg (1802-72), ma l’obiezione si fa ancor più interessante
quando se ne vedono anche le sfumature antropologiche e politiche. Il
sistema hegeliano, allora, diventa l’emblema di un moderno ridotto a
‘buon senso’, a fariseismo, anticipando temi che, pur nella differenza
dello scopo, saranno ripresi da Nietzsche: il “dio nato morto” di
Ritschl, di Hermann, di von Harnack e di Troeltsch (cfr. Mark Lilla, Il
Dio nato morto. Religione, politica e occidente moderno, Baldini
Castoldi Dalai editore, Milano 2009), di quel “protestantesimo
culturale” di fine ‘800, che poi scriverà i discorsi del kaiser
Guglielmo II e che pian piano andrà in disfacimento come i Buddenbrook
di Mann.
Kierkegaard, però, a
Hegel non si oppone solamente: c’è una certa “aria di famiglia”, per
dirla con Wittgenstein, perché “esistere è, in generale, divenire;
l’esistenza è per ciò stesso dialettica, unione e disunione di finito e
infinito, contatto fra i due che è al tempo stesso conflitto” (p. 112).
Questione non nuova nel nostro panorama filosofico, e vissuta sullo
sfondo di una tragedia più grande (il secondo conflitto mondiale). Nel
1943, sulle pagine di “Primato”, Gentile dovette difendere il suo
attualismo e, con esso, la specificità della cultura nazionale,
dall’esistenzialismo che faceva capolino grazie a giovani studiosi. La
polemica sarebbe troppo lunga da trattare in questo luogo (cfr. G.
Invitto, La presenza di Giovanni Gentile nel dibattito
sull'esistenzialismo italiano, “Idee”, n. 28-29, 1995, pp. 175-184), ma
anche allora il problema fu sull’esistente: poteva la logica hegeliana, e
quella sua particolare riforma che è l’attualismo, dare conto, senza
annientarlo, del ‘singolo’?
La fede è ben altro che
l’infinità rassegnazione: questi i termini della questione nel
linguaggio del filosofo danese. E se la rassegnazione abbandona il mondo
al suo destino di nullità, la fede lo trasmuta e fa emergere il suo
vero valore, perché è nella fede che il particolare, in quanto tale, sta
in rapporto con l’infinito. Scrive Sacchi: “l’ ‘infinità rassegnazione’
è negazione, la fede vera e propria è affermazione di ciò che prima è
stato negato” (p. 125). E Abramo non nega il mondo né è rassegnato a
perdere Isacco: egli sa che non perderà nulla, perché ciò che è
impossibile all’uomo è possibile in Dio: “rinunciando in nome
dell’eterno al temporale il credente ritrova il temporale come dono
dell’eterno” (ibid.). Il mondo non è portatore di valore: al mondo
bisogna dare valore, e il singolo, per dirla con una metafora, è quel
luogo in cui si pesa il mondo con l’unità di misura dell’eterno.
“Ma se – conclude Sacchi
– torniamo a domandarci a quali condizioni possa darsi qualcosa che,
non rientrando nei parametri né della filosofia greca né di quella
hegeliana, si presenta effettivamente come un assurdo e per l’una e per
l’altra, non potremo rispondere se non appellandoci a quella
originarietà o intrascendibilità dello spazio (essenzialmente ignota ad
entrambe le tradizioni di pensiero suddette) che abbiamo cercato di
mettere in luce dall’inizio del presente studio e che si trasmette a, o
si riverbera su, ogni individualità nella sua determinissima
concretezza. Ecco allora quelle che, nonostante tutto, sono le ‘ragioni’
dell’assurda scelta di Abramo” (p. 130).
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