"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

12 ottobre 2012

Cuffaro è ancora un uomo

cuffaro santo

di Antonio G. Pesce - Inutile girarci attorno: la generazione di chi sta scrivendo queste righe (spero in un linguaggio non molto forbito, ma mi si permetta di mettere qua e là un congiuntivo) ha un futuro da ricomprare. Venduto sulle bancherelle del mercato internazionale da corrotti sensali. Il fallimento della classe politica, italiana e sicula, sta tutto qui. Tutti corrotti i politici nostrani? No, però come una rondine non fa primavera, uno sparuto gruppetto di persone perbene non può migliorare le sorti di una nazione, perché l’onestà ha più problemi a riunirsi che non il malaffare.



Salvatore Cuffaro, detto Totò Vasa Vasa, è l’emblema di questo fallimento. Come figlio erede di un sistema, che può essere giudicato politicamente, e come artefice del suo proseguimento, condannato con sentenza passata in giudicato da un tribunale di questa Repubblica. L’altro giorno gli è stato accordato un permesso speciale per andare a trovare il padre gravemente malato. L’unico padre per il quale Cuffaro dovrebbe provare amore e pietà, anche perché l’unico ad aver pensato per lui un futuro diverso. Come ogni genitore per il proprio figlio. All’uscita dal carcere, uno sparuto gruppetto di persone ad applaudirlo. C’è sempre qualche riconoscente che non fa invecchiare la gratitudine, memore di essere diventato qualcuno grazie a qualcun altro, ché senza sarebbe ancora nessuno. Poi c’è anche l’amicizia vera, che emerge perfino dalla cloaca delle incomprensioni politiche, quando l’amico ha bisogno di consolazione. Quello che colpisce chi non si rassegna alla schizofrenia di un sistema di valori non fondati (che mutano al mutare delle mode), è la violenza con cui si è commentata la vicenda, l’ironia con cui si è accolto il corpo di un colpevole ridotto ormai ad essere l’ombra del retore che processava in televisione Giovanni Falcone.

Conosciamo (e abbiamo avuto modo di sperimentare) la rogna dell’ideologismo, la riduzione del mondo, con tutte le proprie specificità (anche errate, di cattivo gusto e immorali quanto si vuole), alla totalità del verbo modaiolo, che muta linee politiche e modelli etici come i politici la casacca. Ma qui non si parla di gruppetti fanatici, organizzati per bile elettorale o per vanità commerciale attorno a falliti maestri (e, soltanto per non essere sessisti, arcigne maestre), il cui modello di società ha prodotto lo scempio che ora, d’un tratto e senza alcuna giustificazione, aborriscono come la scabbia. Si tratta piuttosto del comodo borghesuccio, in pantofole e pc, che taglierebbe la testa al mondo intero, esclusi se stesso e parenti. Non è in gioco una frase, la contrapposizione dialettica di opinioni, che volutamente si disconosco a vicenda. Quelle foto, commentate dall’odio, di un già potente, ormai tutto ossa e pelle, ci raccontano dell’arcano mistero di un fallimento, dello scacco che ogni esistenza può subire nonostante non ne parlino più perfino preti e filosofi. Non so se sia notizia o no tutto questo. Purtroppo, i pennivendoli di periferia non riescono a trasformare la società, perché non hanno la forza e la vivacità delle idee à la page, che condurranno dritto al nuovo avvenire. Rimango però perplesso davanti a folle che, seppur con tutte le ragioni, non sanno provare per il colpevole altra pietà che quella rituale dei generici diritti umani, citati davanti alla grande stampa. Il colpevole che merita la redenzione è sempre quello senza volto, l’astratto oggetto delle belle maniere del pensiero. Essere pietosi verso chi non si conosce è facile: il male che ha commesso non lo vediamo, e così il sangue della vittima non grida vendetta. Ma quando l’errore consuma la vita stessa, chi di noi può scagliare la pietra senza aver visto la trave che gli perfora l’occhio?

Si è fatto tanto per dare alla civiltà un diritto senza umori. La stessa scrittura di un codice vuole attenuare il peso del vissuto del giudice. Ed ecco perché una sentenza di tribunale può sussistere ed essere legittima, senza e anzi proprio perché non accompagnata da rancori. Con la condanna Cuffaro ha portato negli inferi anche il suo potere e la vanagloria di un apparato. Dai quali può risorgere migliore di ogni altro giudice, togato o in vestaglia, anche grazie alla pena.

Temo questo mondo di anime belle, che non sanno più vedere l’abisso che si cela in ciascun essere umano, e passano sopra i corpi e la loro miseria con la noncuranza con cui, una volta, se ne facevano saponette. Se il dolore dell’uomo di Nazareth non dice loro più nulla, abbiano almeno un po’ di venerazione per quella Costituzione che intronizzano come divinità. O forse un intero mondo umano è al tramonto, eclissato da uno gnosticismo puritano?

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