"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

23 ottobre 2012

Kultur e Zivilisation a Pek







 Articolo pubblicato sul Corriere del Sud nella seconda metà del 1999. Nulla di originale.



La guerra del Cossovo e le immagini, nella loro brutale verità, che ci giungono dalla cittadina di Pek, nel territorio della quale i nostri militari stanno rinvenendo, ad uno ad uno, i tasselli di quell’immenso scenario di morte e distruzione, opera di menti insane che vestono un’ideologia e una divisa perché, senza queste, non saprebbero bene chi siano, riaprono cicatrici mai bene sanate.
E non solo. Perché le posizioni di certa cultura serbo-russa (ma, si faccia attenzione, una piccolissima parte delle intelligenze di quei paesi) sembrano richiamare, per l’uso di parole come “terra”, “sangue”, “istinto ed eroismo”, alcune posizioni assunte dalla cultura tedesca dall’inizio del secolo fino alla sua metà,  ma soprattutto  durante la “vigilia” dei due conflitti mondiali, e un discorso, quello su kultur-zivilisation, che ha visto, confrontarsi due modi di essere, latino o nordico, di immaginare il futuro, di costruire il presente. E, soprattutto, ha visto coinvolta tutta l’intelligenza europea, i migliori intellettuali, nei momenti più tragici della storia del nostro continente.
La contrapposizione dei due termini non è presente nelle lingue latine. Se la cultura, richiamandosi esplicitamente alla paideia greca e all’humanitas latina, significa l’acquisizione di conoscenze e comportamenti da parte dell’uomo, che lo avvicinino alla sua perfetta realizzazione, civilisation, nel settecento francese, indicava le buone maniere di comportamento di un individuo, soprattutto in società.  Ma formazione, educazione indicano un processo che, per molti versi, si compie con la coercizione delle inclinazioni primitive dell’uomo, dei suoi “valori” e comportamenti istintuali, e se già Rousseau guarda malinconicamente all’uomo “selvaggio”, la critica più accesa al concetto di civilisation viene dall’illuminismo tedesco e, successivamente, da tutto il mondo culturale germanico, da Kant fino a Nietzsche, e oltre.
Si forma così lo iato tra Kultur e Zivilisation, il primo termine, civiltà, indicante le inclinazioni insite nell’uomo, in quanto individuo e appartenente ad una determinata stirpe, l’uomo che è, e il secondo, cultura - civilizzazione, la formazione, l’educazione, l’uomo che diviene, e quella frattura, che non sempre si evince dagli studi letterari dei nostri giorni, tra Francia e Germania, due blocchi culturali ancor prima che geografici.
Due posizioni differenti, due modi differenti di porsi davanti al più sanguinoso di tutti i conflitti, la Grande Guerra: la tragedia dell’umanità, anche se affrontata, come dimostreremo, con caparbietà, da un lato, e la lucida rassegnazione o l’entusiastica accettazione, dall’altro.
La Germania, quando l’impero guglielmino decise di dare “l’assalto al potere mondiale”, per dirlo con le parole del Fischer[1], si trovò, forse suo malgrado, ad affrontare una guerra con l’odiata Francia, la quale ricordava bene l’umiliazione di Versailles del 1870, con uno spirito ben diverso della latina nemica: ricorda von Krochov, in un suo volume edito dal Mulino qualche hanno fa, come, allo scoppio del primo conflitto mondiale, furono scritte un milione di poesie, pro e contro la guerra, ma chiede retoricamente: “…quanto poche erano fra queste quelle che si schieravano contro la catastrofe?”[2]. E, in effetti, nel mondo culturale tedesco, come in quello politico, vi fu quasi un richiamo cieco, brutale, viscerale verso la guerra, se anche Thomas Mann, il genio che portò alla luce La montagna incantata e La morte a Venezia, scrisse Considerazioni di un impolitico, opera stesa fra il 1915 e il ‘18, nelle cui pagine si può leggere che “…la differenza fra spirito e politica comporta quelle fra cultura e civilizzazione” e, più avanti, si può leggere: “la “germanicità” è cultura, anima, libertà, arte e non civilizzazione, società, diritto di voto, letteratura.” [3] Sono parole pesanti, come, del resto, quelle di Ernst Junger, morto nel 1998 all’età di 102 anni, autore de L’Operaio, quando afferma che non è importante sapere per qual ragione si combatta, purché lo si faccia. Ed è proprio Junger che bisogna citare, per trattare specificatamente il ruolo avuto (grosso modo) dalle “intelligenze” dei due acerrimi nemici nell’approccio, prima, e nella comprensione, poi, dei meccanismi della guerra. Non solo il tedesco, però, ma pure il francese Luois-Ferdinand Céline, pseudonimo con il quale il dottor Destouches firmò quella stupefacente opera che è il Voyage au bout de la nuit[4], un romanzo “postumo” agli eventi (1929), edito, per quanto ne sappia colui che scrive, dalla Corbaccio.
Junger è, come possono esserlo solo i grandi, a un tempo la regola e l’eccezione, nel panorama culturale tedesco: slancio eroico vitale, contro la paura e la viltà piccolo-borghese, ma una lucidità di descrizione serena e mai pedante. “In Stahlgewittern”, edito in Italia da Guanda, col titolo di “Nelle tempeste d’Acciaio”[5], Junger racconta gli eventi che lo videro coinvolto nelle battaglie delle Somme, ma se Céline mostra il lato più oscuro della guerra, con un pathos e uno stile vibrante che la dicono lunga sullo stato d’animo con il quale uscì fuori dal conflitto, pur avendolo combattuto per un solo anno, Junger, invece, mostra fierezza e decisione, e, pur non negando mai la paura, dichiarò fino a qualche mese prima della morte di aver avuto la forza di vincerla. Possedeva ancora il suo elmetto, con un buco di entrata e uno di uscita di un proiettile che solo Iddio volle innocuo. Se la guerra, dunque, Junger l’affrontò senza rimpianti e con eroismo, non dimenticò mai di descriverla per quello che è, ormai: una grossa concentrazione di materiali, mitragliatrici, fucili, bombe.
Céline e Junger: entrambi eroi, il primo insignito di medaglia e di copertina dell’Illustré National per una missione di collegamento, nella quale rimarrà ferito, il secondo dell’Ordre pour le mérite, la più alta onorificenza tedesca, e di quella fama, in patria, che non l’abbandonerà mai più; entrambi uomini, nel macello solitario di quella guerra, della quale crudeltà pure il nostro Ungaretti lascia pagine memorabili; ma diversi, diversi assai, per come hanno sentito dentro quel “viaggio al termine della notte” che fu la guerra, per come hanno vissuto le loro esistenze nel ben mezzo di “quelle tempeste d’acciaio” che furono gli eventi bellici. C’è in Céline una satira agli eventi bellici, che non si trova in Junger, il quale, invece, accetta la dura realtà che vive, pur non riconoscendovi più nessun valore eroico.
La coscienza della cultura francese contro l’istinto della civiltà tedesca hanno dato luogo a due diverse interpretazioni del medesimo fatto, cosa che, pur se con qualche eccezione fra gli intellettuali serbo-russi, non si è verificata per quanto riguarda il conflitto nel Cossovo nei rapporti fra la cultura più prettamente europea e quella slava.. Ma se Mario Luzi, famoso poeta italiano, avvilito, credeva in un occidente, alla fine del secolo, fuori dalla logica della guerra e delle persecuzioni contro i popoli,  con un articolo su “La Repubblica”, Evgenij Evtusenko fa discutere. La posizione degli intellettuali europei e non sulla guerra del Cossovo è stata chiara, ma meno sembra esserlo stata quella dei tanti apparati che fanno capo al fattore P, “propaganda”–  per restare in tema di primo conflitto mondiale -  almeno, per quanto afferma il famoso poeta russo, il quale, fra l’altro, scrive che Russia e America “ [vedono] attraverso la televisione due guerre diverse. La guerra è una sola”.
Una volta ancora due immagini differenti per un solo conflitto? Ma se ieri per posizioni intellettuali, oggi per cosa?
Antonio Giovanni Pesce.


[1] F. FISCHER, Assalto al potere mondiale, Torino, Einaudi, 1973.
[2] C. von KROCHOV, Il dramma di una nazione. Germania 1890-1990, Bologna, Il Mulino, 1994, p. 130.
[3] T. MANN, Considerazioni di un impolitico, Bari, De donato, 1977, pp. 225.
[4] L. F. CELINE, Viaggio al termine della notte, Milano, Corbaccio 1992.
[5] E. JUNGER, Nelle tempeste d’acciaio, Parma, Guanda, 1995.

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