"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

9 settembre 2010

L'OCCIDENTE PAROLAIO NON SALVERA' SAKINEH



di Antonio G. Pesce- Il primo intellettuale della decadente storia occidentale fu Ponzio Pilato. Fateci caso: il primo che, davanti ad un disgraziato innocente, si sia messo a fare domande sulla verità, lavandosene poi le mani dopo essersi affidato al buon senso di un paio di esaltati, fu proprio lui. Fosse stato il classico rude romano, avrebbe sacrificato Cristo alla ragion di stato senza tanti filosofismi. O, per salvarlo, avrebbe fatto fuoco e fiamme. Da allora, l’idea che basti indignarsi, firmare un appello e tornarsene sereni a casa si è così radicata, che dall’ “affaire Dreyfus” di fine Ottocento alle mobilitazioni telematiche degli attuali social network il passo è stato breve.

Sakineh Mohammadi Ashtiani è una donna iraniana, ritenuta colpevole da un tribunale di aver tradito il marito (e lì già basta questo, perché l’adulterio è reato), di aver poi collaborato alla sua uccisione, e di aver avuto rapporti illeciti con altri uomini. Dal carcere dove è rinchiusa, ha fatto avere al mondo un suo appello. Le hanno dato risposta non solo i ragazzi la cui unica lettura, in dieci anni di scuola dell’obbligo, è il Diario di Anna Frank; e non solo l’intellettuale reduce dagli appelli contro la guerra del Vietnam, ma anche l’alta politica. Sarà contenta – credo anche un po’ sollevata – soprattutto perché una sua litografia campeggia davanti al Campidoglio nell’era di Alemanno I.

Non voglio guastare la festa a nessuno. Non avendo più un Dio alla cui morte ripensare, capisco che l’unica Via Crucis che si possa meditare è quella che il circo mediatico porta in scena davanti la porta di casa nostra, senza scomodarci troppo. Però l’Occidente che gode della libertà, una volta per tutte deve decidere che farsene. Tenersela riposta in un cassetto, per poi tirala fuori al momento della firma, non è che serva a molto, quantunque l’ipocrisia sia un inchiostro lento a seccare.

La storia ha un suo peso. Nulla da eccepire a chi firmava le condanne a morte in nome del proletariato, ed ora dal velluto dei salotti chic disquisisce sulla dignità umana (almeno finché questa offra palcoscenici su cui esibire il proprio appeal). Si ha sempre diritto a cambiare idea. Soprattutto se l’idea è sbagliata. Ma la storia ci dice chi siamo. Non ci forma, ci descrive. Io sono quel che sono perché ho pensato, creduto, fatto alcune cose e non altre. E sono diventato quello che ho voluto – e in parte, quello che ho potuto – diventare. La storia di una persona è in mano a quella persona. La storia di una civiltà non lo è neppure nelle decisioni di uno Stato.

Non è solo l’uomo occidentale, che gioca al piccolo pacifista su Facebook, ad avere una sua visione dei diritti umani. Ce l’hanno anche i paesi islamici. Assai differente dalla nostra, ma non si chiamava tolleranza quella di accettare l’ “altro” nelle sue peculiarità? Fintanto che non urta la nostra sensibilità con la sua barbarie – cioè fino a quando non sappiamo nulla o possiamo fingere di non sapere quello che è; fintanto che riusciamo ad edulcorarne l’immagine, il nostro buon senso e lo spirito di civile convivenza prevalgono. Perfino Gargamella, però, è simpatico se rimane una favola in cartone. È quando il male è in carne e si ciba della carne che ci appare il tutta la sua crudeltà. In quel momento non ci è dato poter scegliere tra il “buon senso” nostro e il “cattivo gusto”altrui: o il silenzio o la battaglia. Sperando di vincerla.

L’Occidente non può scaricare le proprie armi, e poi dichiarare guerra al male sperando di vincerlo con le pistole ad acqua. Con i gavettoni non si rende il mondo migliore. Ed è da almeno trent’anni che abbiamo abdicato alla libertà, con la scusa che solo così avremmo avuto più pace. Se tutto deve essere sacrificato alla quiete, e se abbiamo rinunciato a giudicare, com’è che poi si giustifica tanto zelo nel difendere i diritti umani? L’universalità di un diritto non lede la sovranità dello Stato?

Cosa siano i paesi islamici non lo scopriamo ora. Nel 1981 firmarono la “loro” dichiarazione dei diritti umani. Vi si legge tra le altre cose: ‹‹L’uomo è nato libero. Nessun ostacolo deve essere posto alla sua libertà eccetto che per autorità della Legge ed in seguito ad un regolare processo››. “Legge” è “shari’ah” – la Legge divina dei teologi non quella mondana dei giurisperiti.

Dopo aver rinunciato ad ogni giudizio sulle altre civiltà con le quali per millenni ci siamo confrontati e scontrati, possiamo d’un tratto far valere la nostra storia? Sì – dice qualcuno, ed ha ragione. Ma quanti sono pronti ad accettarne le conseguenze? Possiamo cucire la trama della tolleranza col filo del relativismo e del multiculturalismo, per poi mettere in piazza solo la merce che più ci aggrada? E – al di là di una discussione di principio – possiamo, di fatto, chiedere ad un popolo di accettare legalmente l’adulterio, quando non ci sentiamo autorizzati a proporgli la democrazia? Si dirà che non tutti i musulmani credono nelle medesime pratiche. Vero, ma ciò non ci dice “quali” siano quelle più giuste secondo la Legge del Corano: semplicemente, mettiamo in evidenza quelle che più ci piacciono.

L’errore dell’“appellismo civile” sta nel confidare troppo nel buon senso altrui. E funziona fintanto che l’altro accetta – per convinzione personale o convenienza politica – il nostro consiglio. Ma si mostra incapace di vincolare al rispetto della giustizia più grande: quella dovuta alla persona come persona autocosciente (libera). E va in crisi, quando i dati mostrano chiaramente che, per ogni Sakineh salva, ce ne sono altre migliaia che muoiono per motivi non meno ingiustificati, dalla Cina all’India. Paesi con i quali, poi, l’Occidente non disdegna di sedere allo stesso tavolo, per spartire la torta planetaria o per raccontarci un paio di frottole sulla pace nel mondo.

Non si impara dal buon senso infuso da madre natura, ma dalla storia e dai suoi ‹‹eventi››. Se ci mostriamo così inclini a perdonare alcune cose, ritenute da altre civiltà abominevoli, è perché – al di là delle incrostazioni dei tempi – abbiamo avuto l’esempio di chi è venuto a parlare ai deboli e non già ai forti; ai malati e non ai sani; ai peccatori e non ai santi. L’esempio di chi ha mangiato con pubblicani e prostitute, e ha guardato in faccia l’intellettuale dell’epoca offrendogli la pietra con la quale lapidare – se ne avesse avuto il coraggio – il proprio peccato. L’esempio di chi ha gridato contro l’ingiustizia degli uomini, pendendo col suo corpo martoriato dal legno di una croce.

L’esempio di chi ha usato la follia per scardinare il buon senso dei tempi.


Pubblicato il 7 settembre 2010 su www.cataniapolitica.it

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