"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

24 settembre 2010

LA BELLA E GIOVANE ITALIA MUORE





di Antonio G. Pesce- Oggi la seppelliamo. Magari con un grado in più, un encomio che non può dire la virtù del bel gesto a servizio della Patria. Oggi la seppelliamo. Ci saranno i deretani di velluto a salutare un giovane di trentasei anni, che con una folgore nel petto, un baschetto d’amaranto e una sciabola d’ufficiale sarà l’ennesimo esempio di devozione alla nostra storia. La bella e giovane Italia muore.

Si chiama Alessandro Romani. Come tutti gli altri italiani morti dalla fine del secondo conflitto mondiale, anche questo figlio sarà pianto da genitori e parenti e amici ai quali viene raccontata la frottola della “missione di pace”. Che, davanti ad una giovane vita spesa con onore, diventa perfino una scusa beffarda.

Un puritanesimo pacifista ammorba la nostra politica estera, con le sue stupide acrobazie lessicali. Non si muore in tempo di pace dilaniati da una bomba o falciati da una scarica di mitra. Si muore di cancro, d’infarto, in strada o in una barella d’ospedale. Ma non si muore lontani cinquemila chilometri dalla propria famiglia, con un fucile in spalle e dei scarponi ai piedi. Chi muore col colpo in canna muore in guerra punto. E che vadano alla malora le idiozie dei gabinetti della politica, che prima scelgono quali affari farsi e quali no, e poi giocano con la dignità della carne umana!

Potevamo scegliere di non andare in Afghanistan, in Iraq, in Libano. Ci siamo. Bene? Male? Ognuno dica la sua: chi rimane a farsi scivolare il grasso del colesterolo fin sopra il bordo delle mutande ha tutto il tempo dell’intellettuale. Ma abbia il pudore di non comprare il silenzio di una madre, di un padre a prezzo di uno squillo di tromba e un ritaglio di latta. Non si può chiedere di versare il proprio sangue per un servizio da metronotte.

La guerra non è bella. Ma è naturale. In paradiso non c’è guerra, ce n’è troppa all’inferno. Qui, in questo purgatorio terrestre, non tutto si può ottenere scambiandosi la puttana di turno, magari acquistandone i servizi online o rintracciandola tra gli elenchi dei candidati a sindaco. Qui a volte c’è da combattere, e si combatte non solo per il mutuo dell’ultimo capriccio automobilistico, al quale sacrifichiamo interi anni pur di godercelo qualche ora la domenica – sempre che prima non si schiatti dalla stanchezza dello schiavismo efficientista; non solo per la conquista dell’ultimo esemplare di animale bipede a coscia lunga o dal pettorale rigonfio; si combatte e si muore anche per quella banalità che è la giustizia. Non tutte le guerre sono giuste, ma sempre onorate da chi le combatte con lealtà e per il dovere.

Alessandro Romani è fortunato. Sarà sepolto con tutta l’attenzione che merita. In questo momento, le acque della politica sono calme – è convenienza di tutti. Perché quelle correnti non si tirano dietro soltanto la nostra fortuna e il nostro futuro, ma pure ogni altro argomento di discussione pubblica che non porti al mulino della vanità del potere. Al tenente Romani poteva andare come ai due commilitoni del Genio – Mauro Gigli e Pierdavide De Cillis – sepolti nel disinteresse generale, perché in quei giorni – correva il 28 luglio – ci si azzuffava come galletti nel pollaio delle libertà.

Onore dunque alla bella gioventù. Non alla “meglio” – ché ad essere migliori di qualcuno, in questa Italia di magnaccia e mignotte, di ladri, di corrotti (e corruttori), di caste e di cricche, ci vuole davvero poco.

Pubblicato il 20 settembre 2010 su www.cataniapolitica.it

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